Partendo dal documento «La buona scuola» sfornato dal governo Renzi di recente, abbiamo intervistato Carlo Salmaso, insegnante di scuola superiore, sindacalista dei Cobas Scuola e membro del comitato per la Legge di Iniziativa Popolare «Per una buona scuola della Repubblica» (che nulla ha a che fare con la «buona scuola» renziana). La sensazione di essere di fronte a un boccone avvelenato (forse per questo la grafica ricorda la pubblicità dei casalinghi degli anni Cinquanta, addolcita da una ‘spruzzatina’ di Hello Kitty) è già stata segnalata da molti interventi. Qui cerchiamo di entrare un po’ più a fondo nei segreti laboratori culinari di Sweeney Todd e Mrs. Lovett, per verificare se il polpettone retorico del premier mascheri semplicemente la continuità con i governi precedenti nel processo di smantellamento della scuola pubblica e nella sua trasformazione in agenzia di collocamento per un lavoro sempre più precario e dequalificato, oppure se vengano introdotti dei nuovi ingredienti che, ancorché poco digeribili, segnalino un parziale mutamento nel quadro attuale, permettendoci di individuare ulteriori punti di attacco al lavoro docente ma anche, nel contempo, elementi di debolezza nella tenuta di questo stesso attacco.
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Cardini: Vorremmo iniziare dalla cornice e dallo stile del documento.
Salmaso: Cominciamo da un aneddoto. A Padova, poco prima dell’uscita del documento, è comparsa una pubblicità di un istituto privato (un vero e proprio diplomificio) la cui grafica è identica a quella del documento renziano, a partire dai caratteri e dal colore della fascetta. Il che significa che chi ha confezionato il documento ha venduto il medesimo frame anche a una catena di scuole private, di cui fa appunto parte questo istituto padovano, facendo loro, con ogni evidenza, un grande favore, dal momento che ora queste scuole vengono immediatamente ricondotte visivamente al documento della «buona scuola» di Renzi. Da questo punto di vista, cioè da quello dell’equiparazione scuola pubblica-privata, la linea Renzi-Giannini è in perfetta continuità con quella dei governi precedenti. In questi giorni la ministra ha previsto un ulteriore cambiamento dell’esame di Stato, con la commissione tutta interna e la tipologia delle prove modificata [nei giorni scorsi è stata presentata ufficialmente la proposta, contenuta nella bozza della legge di stabilità]; inoltre ha fatto alcune dichiarazioni mettendo in dubbio la validità dell’esame stesso, vista anche l’altissima percentuale dei promossi (oltre il 99%). Dalla cancellazione dell’esame all’abolizione del valore legale del titolo di studio il passo è breve, e questo significa che le scuole private non parificate e solo legalmente riconosciute avrebbero un vantaggio enorme. Su questo punto c’è un gruppo di pressione, coagulato attorno a CL e a 3L, il suo «braccio armato», che lavora da anni.
Cardini: Il percorso è dunque sempre il medesimo. Sburocratizzazione equivale alla possibilità di acquisire il titolo di studio in qualsiasi modo, rendendo più liscio possibile il percorso, dal momento che poi sarà il fantomatico mercato a selezionare.
Salmaso: L’operazione è comunque più abile e più pericolosa di tutte quelle sperimentate finora, poiché ha tenuto conto degli incidenti di percorso precedenti. Il primo aspetto di questa ‘astuzia’ consiste nel rivolgersi direttamente alle famiglie e alle imprese, anziché agli insegnanti e agli studenti. A un primo e superficiale sguardo, inoltre, le cose scritte nel menù appaiono, soprattutto alle famiglie cosiddette normali, di buon senso, cosicché l’asse tra genitori e insegnanti che si era costruito nel 2008 contro la riforma Gelmini viene disarticolato fin dalla prima pagina. Anche sul versante degli insegnanti, poi, si mette in atto un lavoro di scomposizione, perché ai precari si prospetta la tanto attesa assunzione, mentre agli altri si chiede un sacrificio dettato proprio dalla necessità di aiutare i colleghi meno fortunati; di fatto, si mettono garantiti e precari gli uni contro gli altri (come dimostra la recente indiscrezione sui 900mln di tagli a scuola e università proprio per pagare la prima tranche di queste assunzioni).
Gli studenti, infine, non sono neppure citati. Il punto più significativo sul quale avevano fatto resistenza negli ultimi mesi, ovvero la riduzione del ciclo superiore a quattro anni, non è nemmeno nominato nel documento – forse anche perché Renzi sapeva che il Tar del Lazio avrebbe bocciato tutte le sperimentazioni (una decina in tutta Italia, con risultati ancora tutti da verificare) che andavano in quella direzione, come effettivamente accaduto pochi giorni fa. Dulcis in fundo, non si parla minimamente di aumento dell’obbligo scolastico e si insiste molto sull’apprendistato. Ci sono già sperimentazioni per le quali gli studenti del IV anno un giorno alla settimana non vanno a scuola, ma vanno in azienda, e poi nei due mesi estivi vengono assunti con un contratto di apprendistato. La retorica del maggiore avvicinamento tra scuola e lavoro viene così ulteriormente implementata.
Cardini: Non a caso, il titolo della sezione del documento dedicata a questo tema si chiama «Fondata sul lavoro», con un «geniale» utilizzo del riferimento alla costituzione per smantellare l’istruzione…
Salmaso: Di fatto questo progetto contraddice anche i presupposti di partenza dell’ideologia renziana. La proclamata flessibilità e adattabilità a contesti differenti va a farsi benedire se gli studenti vengono ‘formati’ all’interno di un’azienda (ammesso e non concesso che la si trovi) che sarà in grado di prepararli esclusivamente alla tipologia del lavoro che in essa si svolge. Gli studenti spenderebbero infatti una parte consistente del loro tempo scolastico per entrare nei meccanismi di una singola impresa peculiare, magari (come spesso accade negli stage) con mansioni specifiche e non reiterabili in altri contesti. E se quell’impresa, al termine del corso di studi, non potesse assumerli? Il lavoro svolto risulterebbe (per lo studente, certo) pressoché inutile: altro che adattabilità, ci troviamo di fronte al massimo della rigidità!
Cardini: Torniamo alla retorica del documento. Delle parole d’ordine citate nell’introduzione, «curiosità» poi non è più citata, mentre lo «spirito critico» è riservato allo studio della musica e della storia dell’arte (Renzi pensa evidentemente ai critici dell’arte e musicali); così come non è più citata la «qualità della democrazia». Invece «innovazione» e «sviluppo» sono citate ripetutamente.
Salmaso: Si potrebbero fare altri esempi: la parola «valutazione» è citata 51 volte, «impresa» e «azienda» 19 volte, «merito» 8 volte, «competizione» 5 volte; una sola volta «condivisione», mentre non esistono le parole «cooperazione», «compresenze», «alunni per classe». In breve, non c’è nessun ripensamento o riflessione sulla qualità del tempo pieno, che è stata smantellata dalla Gelmini, e che l’attuale governo non ha evidentemente nessuna voglia di ripristinare, neppure in una forma nuova. Ah, dimenticavo: c’è, invece, una presenza significativa dell’espressione «stampante 3D»… In ogni caso, questo documento ha un pregio: ha reso pubblica una mole di dati che dal 2008 non erano a disposizione, perché erano stati congelati dal ministero Gelmini, soprattutto per quanto riguarda il fabbisogno di docenti per completare i vari organici.
Cardini: Prendiamo allora in considerazione questo piano straordinario di assunzione dei 150.000 precari: che cosa c’è di realistico, e cosa di immaginario o fantascientifico?
Salmaso: La prima cosa inquietante è che già nel 2007, con il ministro Fioroni, si era prodotto un piano di assunzione di 150.000 precari, che era diventato decreto legislativo. Il decreto era stato poi insabbiato dai governi successivi; alcuni precari, però, si erano mossi, rivolgendosi alla Commissione Europea, chiedendo che una sentenza del 1999, applicata all’amministrazione spagnola, per la quale i precari dopo tre anni in cui svolgevano il medesimo lavoro dovevano essere assunti a tempo indeterminato, fosse applicata anche in Italia. In questi giorni è uscita la risposta della Commissione, che ha dato ragione ai docenti, e ha imposto la loro assunzione; in caso contrario la multa sarebbe di 4 miliardi di euro. L’assunzione dei 150.000 costa invece 3 miliardi. Renzi sapeva benissimo di questa spada di Damocle, quindi in un certo qual modo la sua decisione è obbligata. C’è però un altro problema enorme: il decreto Fioroni del 2007 non è stato solo insabbiato, ma è di fatto bloccato da un comma della legge Monti sulla spending review, che blocca anche ogni possibile ulteriore provvedimento. Così Renzi sarà costretto a trovare i 3 miliardi per le assunzioni tagliando le spese per una cifra identica. Anche la dinamica delle graduatorie ad esaurimento è un retaggio del decreto Fioroni, il quale pensava di bloccare l’inclusione di nuovi precari finché non fossero stati assunti tutti quelli già abilitati e presenti in graduatoria, ipoteticamente nell’arco dei tre anni. Questo, poi, non è avvenuto, e il sistema del precariato è andato via via pluralizzandosi e parcellizzandosi. Ora Renzi intende esaurire solo uno dei serbatoi di precariato, mentre ce ne sono anche altri tre.
Cardini: Il documento, infatti, dice delle cose terribili a proposito dei 93.000 precari che sono nella cosiddetta «III fascia» e che, avendo insegnato solo pochi giorni o poche settimane, non possono neppure essere considerati precari e quindi sono invitati a cercarsi un altro lavoro – come se non avessero investito tempo e denaro nella loro formazione di docenti e in molti casi anche superato un concorso.
Salmaso: Ancora una volta vengono smentiti i passi precedenti, ovvero tutte le modalità di abilitazione che si sono succedute negli ultimi anni. In ogni caso, le graduatorie non si esauriranno mai, perché comunque rimangono moltissimi precari, anche idonei, fuori dal piano. Inoltre, l’assunzione verrà pagata cara da chi sarà assunto; l’organico funzionale, infatti, rimane un enigma, perché in alcuni casi riguarderà gli istituti comprensivi, ma in altri sarà un organico di rete – e in questo secondo caso, molti assunti faranno i «commessi viaggiatori», perché dovranno spostarsi ogni giorno. Saranno dei precari di fatto, se non di diritto.
Cardini: Il documento poi dice che chi vorrà essere assunto dovrà rendersi disponibile a cambiare provincia e anche regione, con tutto ciò che segue in termini di spese, disagio familiare ecc.
Salmaso: C’è un decreto riguardante la P.A. che prevede che si possa essere dislocati in un raggio di 50 km da dove si è assunti; la mobilità volontaria quindi è già ampiamente definita e ovviamente è interamente a spese del lavoratore.
Cardini: Non solo mobilità nello spazio, ma anche disponibilità a insegnare materie affini rispetto a quella in cui si è abilitati…
Salmaso: Sì, perché questo discorso sulla mobilità è agganciato all’ideologia meritocratica. Infatti, un insegnante che cade nel 33% di quelli che non hanno avuto l’aumento può scegliere di spostarsi dal suo istituto in un altro con la valutazione media più bassa, e dove quindi ha maggiori possibilità di diventare «ricco e famoso»; ma questa mobilità volontaria è una sorta di precarizzazione a rovescio, perché passando in un altro istituto si viene collocati in coda alla graduatoria interna, cioè nell’organico funzionale e non in quello di diritto, con evidenti disagi e pericoli in termini di stabilità lavorativa. Questo aspetto, come altri, potrebbe costituire per molti docenti un elemento problematico del documento; teniamo presente che ci saranno degli insegnanti che potrebbero vedere di buon occhio questa meritocrazia dei 2/3, vista la miseria degli stipendi attuali. Facendo i confronti con i tentativi precedenti, il guadagno sembra più facile da raggiungere: Berlinguer, ad esempio, parlava di un 20% di meritevoli. C’è però l’altra faccia della medaglia: mentre la riforma Berlinguer prevedeva aumenti significativi per quel 20% (fino a 6 milioni di lire – circa 3000 euro – in più all’anno), invece ora l’aumento è miserabile – al massimo 60 euro al mese per la scuola superiore, il che significa che per gli altri docenti delle medie e della primaria sarà di meno.
Cardini: Per non dire che il merito non si misurerà tanto sulla qualità dell’insegnamento (ammesso e non concesso che se ne possa dare una misurazione oggettiva), quanto sulla disponibilità a lavorare di più e a partecipare a corsi di formazione o simili – che naturalmente costano fior di quattrini. Ad esempio, è possibile che rientrino agenzie come il ForCom (consorzio universitario per la formazione a distanza), che organizza corsi da 700 euro?
Salmaso: Su questo c’è un pregresso, perché 15 anni fa (in realtà solo per la durata di un contratto nazionale) c’è stato l’obbligo di formarsi – 10 ore di corso all’anno – altrimenti non si sarebbe potuto ottenere lo scatto biennale. Alcuni corsi erano gratis, ma molti erano a pagamento: magari non si raggiungevano le cifre del ForCom, ma comunque era sempre una spesa. In realtà la valutazione del merito si farà anche sull’insegnamento, attraverso il Sistema Nazionale di Valutazione (SNV, già sperimentato nelle università) che nelle scuole utilizzerà i test Invalsi, che sono già predisposti per offrire queste informazioni e, soprattutto, sono a costo zero. L’Invalsi, infatti, può risalire senza problemi ai docenti che insegnano nelle diverse classi che vengono valutate; soltanto occorrerebbe – e non è cosa da poco – istituire delle prove per tutte le materie, e non solo per italiano e matematica, come avviene adesso. Un’altra modalità di valutazione riguarda la formazione in servizio, che sarebbe forse il male minore, se soltanto venissero stanziati dei fondi analoghi a quelli di altre amministrazioni pubbliche, che permettessero corsi di aggiornamento ed esoneri dal servizio; ma è assai poco credibile che il ministero abbia la disponibilità economica per attivare un progetto del genere. Infine, il merito verrà misurato dalla disponibilità a svolgere una serie di attività estranee all’insegnamento – ad esempio le cosiddette funzioni strumentali – riguardanti la parte organizzativa della vita di un istituto. Tra l’altro, in questo modo il ministero potrà risparmiare sulle risorse da assegnare alle singole scuole, perché prevede che gli insegnanti svolgeranno gratuitamente queste funzioni, con la prospettiva di entrare nel 66% dei meritevoli e guadagnare i famosi 60 euro. Infine, il modo in cui tutte queste attività verranno valutate è, al momento, del tutto ignoto, ma presumo che non sarà affatto semplice mettere insieme indicatori così diversi. Alcuni elementi possono essere misurati quantitativamente – le ore di lavoro, i corsi di aggiornamento – ma la parte qualitativa della valutazione deve ancora essere messa a punto. Negli ultimi sei anni sono state attivate tre diverse sperimentazioni della valutazione: una è la VSQ (Valutazione per lo Sviluppo della Qualità delle Scuole), un’altra è il VAleS (Valutazione e Sviluppo Scuola), e l’ultima, che si chiama VALORIZZA, è la più micidiale, quella su cui la sottosegretaria Aprea si sta spendendo di più, e che funziona con un nucleo di valutazione interno, con esperti esterni e una rappresentanza dei genitori, a cui si dovrà aggiungere, presumibilmente, una rappresentanza degli studenti nelle scuole superiori; componente per ora poco presente nelle sperimentazioni effettuate. Quest’ultima sperimentazione mira, di fatto, a premiare l’insegnante che gode di un giudizio positivo da parte della cosiddetta comunità: si misura di più l’inserimento sociale e l’indice di gradimento (una specie di Auditel scolastico) che non la preparazione e la capacità didattica dell’insegnante. Nell’SNV, come nella VSQ, la valutazione è invece operata da un team di esperti esterni, che acquisiscono i dati Invalsi e in più prendono in considerazione una serie di altri parametri riguardanti, ad esempio, l’inclusione di studenti con disabilità o stranieri, l’orientamento, il recupero degli ‘asini’ e il potenziamento dei ‘superdotati’ (nell’ottica della produzione delle «eccellenze»). Una volta costruita questa mappatura, essa viene comunicata alla scuola, che ha tre anni di tempo per migliorare le sue criticità, poi gli esperti tornano e verificano se gli obiettivi sono stati realizzati e danno un giudizio definitivo. Nonostante l’apparente attenzione a molti parametri, in realtà nella sperimentazione VSQ l’apprendimento dell’italiano e della matematica, materie misurate attraverso le prove Invalsi, pesa per il 60% della valutazione complessiva, mentre tutte le altre voci per il 40%; il che significa (come dimostrano i dati delle sperimentazioni in Lombardia su una serie di scuole medie inferiori) che una scuola inclusiva, in grado di accogliere stranieri e disabili, e di impegnarsi contro la dispersione, perderà sempre e comunque contro una scuola che punta esclusivamente a un punteggio alto nelle prove Invalsi – a scapito dell’inclusione e della lotta alla dispersione.
Se questo sistema di valutazione diventa lo standard, agli insegnanti verrà richiesto di puntare esclusivamente sull’apprendimento – magari privilegiando i migliori alunni, che comunque alzano il punteggio complessivo – lasciando da parte tutti gli altri aspetti della formazione scolastica. Ai genitori quindi bisognerebbe cominciare a chiedere se questa scuola è quella da loro desiderata, dato che sembra tagliata su misura per i ‘geni’, così da penalizzare chi fa fatica a stare al passo.
Cardini: Sì, però è un modello che potrebbe solleticare anche pulsioni regressive, del tipo: basta stranieri a scuola, che frenano la preparazione dei nostri figli…. Comunque, tornando al documento sulla “Buona scuola”, qual è il livello di consapevolezza del corpo docente?
Salmaso: Il livello di conoscenza del documento è molto basso: perlopiù i docenti hanno letto la parte riguardante il salario, o, nel caso dei precari, quella sul piano straordinario di assunzione; manca una visione d’insieme delle trasformazioni in atto. A questo si aggiunge che anche la tanto sbandierata consultazione on-line è poco più di un sondaggio, con molte domande già precostituite e quindi con un esito finale prevedibile; ad esempio, sulla valutazione non si chiede se si è contrari o meno, ma solo come deve essere fatta, cosicché il risultato sarà sempre che tutti sono favorevoli a essere valutati.
Cardini: Torniamo al tema degli aumenti salariali; qualcuno riesce veramente a guadagnarci rispetto agli scatti attuali?
Salmaso: La tabella presente nel testo governativo (p. 55 del documento) è chiaramente ingannevole, perché prevede che un insegnante, nel corso della sua intera carriera, sia sempre nel 66% dei «vincenti»; ma questo andamento rimuove totalmente l’aleatorietà del percorso; ragionando in termini statistici, al contrario, è facile comprendere come la grandissima maggioranza dei docenti non possa ottenere il massimo risultato. Se, ad esempio, va male il primo giro di valutazione, l’esito negativo condizionerà l’andamento stipendiale per tutta la carriera.
Cardini: Questo meccanismo, inoltre, prevede che nei 35 e più anni di carriera il docente sia costantemente impegnato, oltre che nel proprio lavoro «normale», in tutte le attività che gli dovrebbero permettere di risultare tra i migliori, il che è estremamente difficile. Pensiamo ad esempio alle donne, che hanno periodi della vita in cui non possono essere disponibili al 100%… Forse è un effetto inconscio, ma, anche qui, rispetto alle tanto sbandierate pari opportunità, assisteremo, probabilmente, a una forte messa in crisi del lavoro docente ‘al femminile’.
Salmaso: In effetti, la questione della disparità di genere è emersa immediatamente, nel senso che le donne saranno in gran parte le più svantaggiate da questo modello di valutazione permanente.
Cardini: Torniamo alla questione soldi.
Salmaso: Si può dimostrare che da questa riforma del contratto il governo risparmierà dai 2 ai 3 miliardi di euro in un triennio: quindi la ‘riforma’ si autofinanzia in gran parte, ossia gli insegnanti se la pagano. Quando Renzi sostiene che l’investimento straordinario costerà 3 miliardi, si dimentica di dire che molti dei 150.000 precari che verranno assunti già lavorano nella scuola, e dunque percepiscono uno stipendio (almeno per 9-10 mesi all’anno) che è esattamente lo stesso di quello che percepiranno una volta assunti. Se a ciò si aggiunge il rischio della multa europea di cui abbiamo parlato in precedenza, è chiaro che il tanto sbandierato investimento è in realtà una strada obbligata. Passiamo poi alle retribuzioni. Un semplice calcolo probabilistico può mostrare come, su scala generale, il passaggio dagli attuali scatti per anzianità agli scatti per merito porterà generalmente a una riduzione dello stipendio percepito. Inoltre, al momento, c’è il blocco degli scatti, che il governo sembra intenzionato a prolungare almeno fino al 2015: il che significa che, almeno fino al 2018, quasi nessuno prenderà un aumento, dato che il primo scatto si calcola a tre anni di distanza dall’anno zero, quello dell’assunzione in ruolo. Se teniamo presente che l’ultimo rinnovo del contratto risale al 2009 e che, in realtà, l’ultimo vero aumento significativo risale al 2007, si vede come per 12 anni (dal 2007 al 2019) il corpo docente non percepirà pressoché nessun incremento stipendiale. Ci sono poi delle chicche, anche semantiche, come l’invito nei confronti di chi entrerà in ruolo nel 2016 e nel 2017 – e quindi non potrà entrare nel primo ciclo della valutazione – ad «aspettare e prendere l’onda»: veri e propri surfisti del merito scolastico. In conclusione, l’operazione precari non solo è al risparmio, ma consente addirittura di risparmiare anche sugli altri docenti.
Cardini: E che ne è dei fondi alle scuole (MOF: fondi per il miglioramento dell’offerta formativa)?
Salmaso: Anche questi, almeno in parte, verranno dati su base premiale. Ogni scuola avrà un cosiddetto «cruscotto» (altra chicca semantica), che segnala punti di forza e punti di debolezza, e che permetterà la valutazione dell’istituto; da questa valutazione dipendono non solo i fondi della scuola, ma anche, almeno in parte, gli aumenti dei docenti. Il fatto, poi, che l’assegnazione dei fondi sarà differenziata su base premiale fa il paio con quanto dice l’ultimo capitolo, ossia che ogni scuola dovrebbe cercare autonomamente (ecco l’autonomia!) i propri canali di finanziamento: in primis con il coinvolgimento dei privati, e poi – superando il senso del ridicolo – con il crowdfunding, ovvero la versione inglese del fatto che i genitori acquistano e portano a scuola la carta igienica e versano contributi volontari praticamente obbligatori.
Cardini: Dulcis in fundo, il capitolo sulla didattica, che è il più vuoto di tutti. A parte i riferimenti ridicoli allo spirito critico che dovrebbe essere appreso solo attraverso la musica e la storia dell’arte e a parte la necessità di inserire l’insegnamento dell’economia (che ovviamente non si critica), per il resto la proposta è di una povertà assoluta.
Salmaso: È verissimo. Un altro esempio è il caso dell’insegnamento delle lingue straniere, in merito al quale il discorso è capovolto rispetto alla logica e al buon senso. Si parla del CLIL (Content and Language Integrated Learning), ovvero della certificazione dei docenti per insegnare una materia in lingua inglese; intanto negli ultimi anni è stata eliminata nelle scuole primarie la figura del docente specialista per l’insegnamento della lingua straniera. Inoltre, va detto che la sostituzione di questa figura era arrivata a essere una farsa, perché il livello delle competenze richieste è stato costantemente abbassato; ora c’è addirittura una nota ministeriale che dice che non occorre nessuna certificazione: se un docente ritiene di sapere una lingua straniera può tranquillamente insegnare la sua materia in quella lingua. Il prossimo passo sarà quello di insegnare lo spagnolo in lingua inglese…Sulla reintroduzione dell’economia stendiamo un velo pietoso, dal momento che è stata tolta o ridotta dove già si faceva, e soprattutto è stato tolto l’insegnamento del diritto. Infine, la chicca del coding, ovvero dell’insegnamento alla programmazione. Il documento sostiene testualmente che occorre preparare gli alunni a lavorare con una mentalità computazionale fin dall’infanzia; ma bisognerà pur spiegare ai genitori che una simile mentalità conduce i ragazzi a pensare in maniera unidimensionale, senza fornire alcuna capacità di uscire dagli schemi predeterminati (da altri); che, insomma, se trovano un muro davanti a loro continueranno a sbatterci la testa finché non si rompe (la testa, non il muro). Il carattere miserabile di questo capitolo è stato uno dei primi argomenti di critica, soprattutto da parte delle associazioni studentesche; come può uno studente leggere che «l’analfabetismo finanziario dei nostri ragazzi tocca livelli preoccupanti», senza sentirsi esplicitamente preso per i fondelli?
Cardini: Se dunque questa è la situazione che si prospetta nel prossimo futuro, c’è qualcosa che si muove sul fronte della protesta?
Salmaso: Va tenuto presente che sono passati pochi giorni dal documento; in ogni caso c’è un problema di fondo, ovvero il fatto che questo documento è ben confezionato e ben venduto, cosicché mi sembra difficile che si possa creare quella alleanza tra docenti e genitori che in passato, soprattutto durante la protesta contro la riforma Gelmini, è stata particolarmente significativa. Per quanto riguarda i docenti, non credo che si muoveranno perché è sbagliata la filosofia di fondo del documento, mentre potrebbero muoversi per ragioni di carattere salariale, come è accaduto durante il tentativo di riforma Berlinguer nel 2000. Dalla questione salariale, poi, è forse possibile cercare di allargare il campo della protesta ad altri aspetti problematici. D’altra parte non dovrebbe essere difficile far capire che questa modalità di assegnazione degli scatti è ridicola e miserabile. La legge di iniziativa popolare per la scuola per la Repubblica che, insieme ad altri, abbiamo ripresentato, dopo che nel 2007 si era impantanata alla Camera, può costituire un punto di partenza per dare fiato alla discussione e alle critiche. Ad esempio, la nostra proposta di legge prende in considerazione punti specifici, come la qualità del tempo pieno e la presenza massima di alunni per classe, che nel documento non sono minimamente considerati. Stiamo cercando inoltre di organizzare dei momenti assembleari al di fuori delle scuole, dal momento che, dentro gli istituti, le assemblee possono essere indette solo da quattro sindacati, che sono tutti più o meno favorevoli al discorso meritocratico. Occorrerebbe quindi cercare di far ripartire una rete di riflessione e agitazione al di fuori delle scuole, sperando che poi i docenti, anche quelli iscritti ai sindacati confederali, facciano pressione sulla loro dirigenza. In particolare, è molto difficile anche per il sindacalista più filo-governativo raccontare che la parte salariale costituisce effettivamente un vantaggio per i docenti.