Io sono nato in un dolce Paese/dove chi sbaglia non paga le spese/dove chi grida più forte ha ragione/tanto c’è il sole e c’è il mare blu
Le recenti dimissioni di Antonio Mastrapasqua, che chiudono la sua avventura alla presidenza del maggior ente previdenziale d’Europa con i sentiti ringraziamenti degli attuali presidente del consiglio e ministro del lavoro, alludono a una possibile accelerazione del riassetto del welfare italico. L’innesco forse è accidentale – in quanto plausibilmente imputabile all’ingordigia del dimissionario, cui non bastavano le cariche possedute – ma di certo intanto torna a essere attuale la questione della governance dell’INPS, mentre già circolano, alcuni decisamente inquietanti, i nomi di candidati alla presidenza, in primis quello di Tiziano Treu, tristemente famoso per l’omonimo «pacchetto» (legge 196/97) che sul fronte normativo aprì la strada alla precarietà del lavoro oggi dilagante. Per tacere del suo contributo, due anni prima, sempre come ministro del lavoro del Governo Dini, all’avvio della Gestione Separata dell’INPS.
Dato però che il problema non è semplicemente quello di fermare la deriva gestionale di un ente, lasciato alla mercé di un uomo solo al comando per oltre un quinquennio, reintroducendo un vero consiglio di amministrazione e un vero comitato di indirizzo e controllo, è opportuno che si individui per intanto un commissario e contestualmente si apra una fase di transizione nella quale sia possibile affrontare la questione del welfare italiano a tutto campo, facendo fino in fondo i conti con il quadro che il bilancio preventivo dell’INPS, con i suoi dati previsionali per l’anno corrente, prefigura denso di incognite a distanza ravvicinata.
Il dato saliente per un paese che in cinque anni ha visto crescere il debito pubblico da poco più del 100% ad oltre il 130% del proprio declinante PIL, infatti, è costituito dalla continua crescita dell’intervento statale a carico della fiscalità generale passato dai 73 miliardi di euro del 2008 ai 112,5 miliardi del 2013 per coprire la quota assistenziale della spesa previdenziale. Finanziare milioni di ore di cassa integrazione straordinaria e in deroga, centinaia di migliaia di indennità di mobilità in deroga e sospensioni dal lavoro, tutti ammortizzatori sociali non coperti da contribuzione pagati dalle imprese il cui onere è andato a sommarsi alla quota, per così dire, ordinaria della spesa pensionistica fiscalizzata, ha bruciato progressivamente gli attivi delle gestioni di malattia, maternità e ANF e della stessa Gestione Separata (8,5 miliardi a fine 2013), per tacere del saldo attivo di oltre 4 miliardi tra contributi versati dai lavoratori migranti e prestazioni loro corrisposte. Dal 2009 al 2013 il numero annuo di lavoratori in CIG si aggira mediamente intorno alle 500mila unità, con un numero di ore autorizzate per tutte le tipologie che passa dalle 913mila del primo anno alle 1.075mila dell’ultimo, mentre i dipendenti del settore privato occupati a tempo pieno diminuiscono di 480mila dal 2009 al 2012, con gli occupati part-time contestualmente aumentati solo di 215mila. Ciò significa che già in questo arco di tempo si è ridotta significativamente la massa retributiva assoggettata al prelievo contributivo. Inoltre, il numero medio annuo di disoccupati indennizzati dall’INPS è cresciuto dai 426mila del 2009 ai 573mila del 2012, comportando un pagamento complessivo per oltre quattro milioni di euro di indennità nel primo anno e per oltre cinque milioni nell’ultimo, mentre il numero dei beneficiari dell’indennità di mobilità passava dai 127mila del 2009 ai 195mila del 2012. Ciò ha prodotto un incremento progressivo delle prestazioni di sostegno al reddito, finanziato però dal gettito contributivo. Si aggiunga che anche sul versante dei pubblici dipendenti – i cui stipendi sono per legge bloccati dal 2010 e lo saranno per un ulteriore biennio, e il cui numero si è ridotto di almeno 150mila unità da quando si è introdotto il sostanziale blocco del turn-over nella pubblica amministrazione – la base retributiva si è ridotta portando alla conseguente contrazione di versamenti contributivi. Va inoltre considerato che tra i nuovi avviati al lavoro oltre i due terzi sono assunti, ammesso che questo termine sia sempre appropriato, con contratti atipici cui corrispondono di fatto retribuzioni nettamente inferiori a quelle conseguibili con il contratto standard: quindi anche queste dinamiche occupazionali costituiscono un fattore crescente di contrazione del monte contributivo.
Sul versante delle spese, invece, già nel 2013 c’è stata una riduzione del 43% delle nuove pensioni liquidate rispetto all’anno precedente, 649.621 contro 1.146.340, nonostante gli effetti della riforma Fornero siano stati mitigati dalla riduzione dell’età per la pensione di vecchiaia delle lavoratrici autonome; pertanto, esaurito l’effetto di tale distrazione normativa dell’ex ministro del lavoro, si prevede un’ulteriore riduzione nel 2014 delle nuove pensioni a 596.566. E tra le pensioni eliminate nel 2013, 742.195, e quelle che lo saranno nel 2014, 739.924 (la maggior parte di queste in seguito al decesso dei titolari, sovente beneficiari di due pensioni, la propria diretta e quella di reversibilità ovvero di invalidità civile) si avrà una riduzione progressivamente crescente del numero di assegni pensionistici: per intanto già a fine 2013 c’è stata già una contrazione di quasi 90.000 pensioni in essere. Ma nonostante la pesante diminuzione delle nuove pensioni, peraltro già realizzatasi nel 2011 e nel 2012 con le leggi del governo Berlusconi, il bilancio di previsione del Comitato di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS per il 2014 ipotizza un esercizio negativo per 11,997 miliardi: tale risultato verrà rimediato con il trasferimento definitivo della cifra di 25,198 miliardi di euro previsto dalla legge di stabilità e corrispondente alle anticipazioni concesse fino all’esercizio 2011 dallo Stato all’INPS, con ciò neutralizzando (al prezzo di due finanziarie come quella del 2014) la passività patrimoniale di 25,200 miliardi di euro portata in dote dall’INPDAP, confluendo nel grande INPS voluto da Monti per risparmiare nelle spese di gestione della previdenza pubblica. In questo modo alla fine del 2014 dovrebbe risultare un avanzo d’esercizio di 13,201 miliardi di euro.
È del tutto evidente che questo gioco contabile non risolve nulla circa l’insostenibilità economica del sistema previdenziale italiano stante il contesto attualmente vigente, mentre è vergognoso dover rilevare che ad oggi l’INPS resta in piedi a livello complessivo sulle spalle dei giovani del lavoro frammentato e precario e dei migranti che resistono nei lavori più duri e sporchi, almeno finché gli viene consentito. Non è stato così per i migranti che hanno organizzato le rivendicazioni e il grande sciopero contro la legge Bossi-Fini del maggio 2002 a Vicenza, per i quali il tempo di risiedere in Italia è scaduto ormai da tempo (e questa è una storia su cui si tornerà in altra occasione).
Per tacere, infine, sul piano della quotidiana attività dei dipendenti dell’istituto previdenziale che – ridotti sempre più di numero, con retribuzioni bloccate dall’inizio della crisi, coinvolti in un processo di riorganizzazione improbabile e improvvido targato KPMG (il network, già inquisito per frode fiscale negli USA, di servizi alle imprese, specializzato nella revisione e organizzazione contabile, nella consulenza manageriale e nei servizi fiscali, legali e amministrativi) cui sono riusciti a resistere, denigrati al pari degli altri lavoratori pubblici da governanti di ampiamente discutibile ingegno – hanno sin qui consentito all’Ente di pagare le prestazioni e riscuotere i contributi. In conclusione, come si è visto il finanziamento del welfare, dentro la perdurante crisi del nostro paese, si regge sempre meno su di una logica contributiva, secondo dinamiche in atto anche negli altri paesi più significativi dell’Unione Europea, dove però è stato finora più trasparente il ricorso alla fiscalità generale e meno brutali gli interventi di riduzione delle prestazioni economiche erogate. Per quanto la logica autodistruttiva di fondo sia la medesima, in Italia le leggi Monti-Fornero hanno introdotto un’accelerazione violenta che ha contribuito ad approfondire la crisi.
Riconoscere tali effetti e ricercare il modo per rimediarvi è quanto si deve fare il prima possibile per non continuare su una strada senza sbocco. Nel paese dell’irresponsabilità impunita, e ben retribuita, non sarà cosa facile.