Cresce la mobilitazione dei migranti in Israele. Dopo i tre giorni di sciopero generale proclamati dal movimento, è in corso una manifestazione di fronte al parlamento israeliano, la Knesset, per chiedere risposte dirette al premier Netanyau e al ministro degli interni Gideon Saar. La mobilitazione partita dai migranti che richiedono di essere riconosciuti come rifugiati è cresciuta nelle ultime settimane, dopo l’approvazione di una legge che permette la carcerazione di chiunque sia fermato dalla polizia senza un visto in corso di validità. La politica dello Stato d’Israele è analoga a quella di diversi Stati arabi, tra cui l’Arabia Saudita, che hanno provocato scontri e dure proteste a Rihadh. La caccia al migrante, svolta direttamente dalle autorità con l’ausilio della polizia, si è però scontrata con la resistenza organizzata soprattutto da eritrei e somali. In dicembre, dopo l’approvazione del provvedimento, ci sono state decine di arresti e centinaia di fermi con l’invito a recarsi presso il centro di detenzione di Holot, di nuova apertura. Holot dovrebbe diventare il più grande centro di detenzione per migranti in Israele, una vera e propria prigione con una capienza di migliaia di posti. Ciò dà la misura della rilevanza del fenomeno migratorio in un’area come questa che, in modi differenti, continua a essere uno dei principali laboratori transnazionali del nuovo governo delle frontiere e delle migrazioni.
Le proteste sono iniziate velocemente e sono cresciute fino alla grande manifestazione di domenica 5 gennaio, durante la quale è stato lanciato uno sciopero di tre giorni. La chiamata era molto semplice: «non andare al lavoro». La motivazione altrettanto chiara: «scioperiamo per dire ad Israele di liberare tutti i rifugiati che sono in prigione e di fermare questa politica. Crediamo che questo sciopero dimostrerà la nostra importanza per l’economia israeliana, e creerà la giusta pressione per costringerli a cambiare politica». Lo sciopero ha segnato il vero salto di qualità della mobilitazione. In primo luogo perché ha provocato un cambiamento nella percezione del movimento: i migranti, pur facendo appello alla Convenzione dell’ONU sui rifugiati, hanno deciso di usare come arma di pressione la loro condizione di lavoratori. Contrariamente a quanto previsto dalla legge, sono infatti decine di migliaia i lavoratori migranti impiegati clandestinamente, in particolare nei ristoranti, bar, alberghi e nelle compagnie di pulizie. In secondo luogo, la proclamazione dello sciopero ha allargato il significato della mobilitazione, perché ha mostrato la possibilità di fare leva sulla forza economica dei lavoratori migranti, superando nei fatti i confini del dibattito sul diritto d’asilo. Il governo, in evidente imbarazzo di fronte alla richiesta di asilo di migliaia di persone, ha reagito in modo violento, accusando i lavoratori migranti di essere degli «infiltrati africani» e i loro datori di lavoro di essere dei loro fiancheggiatori, perché li impiegano irregolarmente. Molti datori di lavoro hanno difeso i loro impiegati dicendo che sono «buoni lavoratori»: una dichiarazione «umanitaria» non certo ignara dei vantaggi in termini di profitto nello sfruttare lavoro irregolare. I portavoce del movimento hanno però irriso il gioco sporco del governo chiarendo subito che lo sciopero è contro il governo, non contro i loro datori di lavoro. In questo modo, hanno deciso di premere contro i rapporti di forza dentro il lavoro per mettere in discussione il regime giuridico dell’irregolarità, mostrando così di saper utilizzare politicamente lo sciopero, ben oltre dinamiche di tipo sindacale. Contrariamente all’immagine pubblica dei migranti richiedenti asilo come soggetti estremamente vulnerabili e ricattabili, segnati per sempre dalla situazione di guerra o di miseria dei loro luoghi di provenienza, la mobilitazione sta mostrando una forza che non cede di fronte al ricatto economico e anzi tenta di rovesciarlo. In molti hanno dichiarato di essere consapevoli che questo sciopero, prorogato indefinitivamente, mette a rischio i loro salari, ma che questo non li fermerà. Oltre al riconoscimento dello status di rifugiato per decine di migliaia di uomini e donne, il punto centrale della protesta riguarda anche il razzismo istituzionale che colpisce i migranti in Israele, in un modo non molto differente da quanto succede ai migranti in gran parte degli altri Stati: «Ci fanno andare al ministero dell’Interno per il visto – hanno dichiarato i dimostranti – lì ci sono lunghe file, alla fine, non ti danno il visto. Sei nella strada, ti prendono senza il visto – finisci in galera». L’appello alla condizione di rifugiato e il richiamo alle convenzioni internazionali sono argomenti forti dalla parte dei manifestanti. Lo sciopero del lavoro migrante mostra tuttavia possibilità ancora superiori e segnala il limite di una separazione netta tra i rifugiati e gli altri migranti, prodotta dallo stesso governo transnazionale delle migrazioni di cui anche la politica dello Stato israeliano fa parte. Rivendicando in massa il diritto d’asilo di fronte ad uno Stato che glielo nega, rifiutando la detenzione e scegliendo lo sciopero come arma di lotta, il movimento dei migranti richiedenti asilo in Israele sta così facendo tremare gli stessi principi cui si richiama. Sarebbe perciò sbagliato considerare questa mobilitazione dal punto di vista umanitario.
La stampa mainstream israeliana scrive che in alcuni bar il servizio è forse più lento, ma nel complesso il sistema non si è fermato. Lo sciopero mostra tuttavia le possibilità di un movimento politico diretto contro il governo globale delle migrazioni e le istituzioni che ne sono garanti. Insistere su queste possibilità è ciò che anche in Europa siamo chiamati a fare.