di GEROLAMO CARDINI
A PARTIRE DA UN DIALOGO CON GLI INSEGNANTI.
Riportiamo qui una sintesi ragionata e un primo quadro introduttivo di alcune problematiche emerse da una serie di incontri su scuola e formazione organizzati a Padova con alcuni insegnanti della scuola secondaria tra marzo e giugno 2013. L’intento è quello di individuare una trama di questioni passibili di ulteriori approfondimenti specifici, per ampliare il campo di discussione su un tema politicamente rilevante come quello della formazione scolastica e universitaria.
Il massacro della scuola pubblica è in atto ormai da anni. La diminuzione delle risorse e i tagli lineari, che comunque non coinvolgono le scuole private, paritarie o meno, sono accompagnati da una tendenza alla ristrutturazione in senso aziendalistico che trasforma i presidi in manager (dirigenti scolastici) e gli insegnanti in «facilitatori», che non devono più trasmettere un sapere, ma aiutare gli studenti a produrre il proprio partendo dalle conoscenze in loro possesso, senza forzarli in alcuna direzione. Una maieutica senza ricerca della verità.
Un’ondata reazionaria, diffusa tanto nella «società civile» quanto negli organismi politico-amministrativi di governo, ha colpito anche l’Italia a partire dagli anni Ottanta, ossia dalla sconfitta dei movimenti operaio e studentesco. Da qui, la scuola è stata additata come una delle maggiori responsabili della diffusione delle idee di sinistra e quindi ne è stata imposta la trasformazione. Non più veicolatrice di un sapere che poteva venire utilizzato anche criticamente, ma solo di tecniche e pratiche immediatamente spendibili sul «mercato» del lavoro; non più formatrice, pur tra mille difficoltà e inadempienze, di studenti preparati e consapevoli, ma solo di disoccupati docili e insicuri, impreparati ma non troppo, dotati di conoscenze di base, che consentano loro di operare subito secondo direttive precise senza bisogno di ulteriore e specifica formazione, ma non tali da renderli troppo sicuri di sé e, magari per questo, di avanzare pretese eccessive nel trattamento economico o nella richiesta di un lavoro decente. La precarizzazione del lavoro si ottiene anche indebolendo la preparazione scolastica.
Nonostante molti insegnanti continuino a svolgere al meglio il loro lavoro e nonostante molti di loro abbiano cercato di opporsi alla tendenza alla ristrutturazione aziendalistica della scuola, la trasformazione procede imperterrita su due binari paralleli: quello amministrativo e quello finanziario. Il primo impone modalità didattiche e di valutazione che oberano di lavoro inutile gli insegnanti, sottraendo loro tempo prezioso per aggiornarsi, studiare e approfondire il proprio sapere e il modo di trasmetterlo. Il secondo fissa criteri contabili sempre più rigidi per determinare la «sostenibilità» economica del sistema-scuola.
Il risultato è la progressiva ma inesorabile trasformazione degli insegnanti in impiegati, ossia in individui che erogano servizi a fronte di un determinato salario. Questi servizi, che poi sono le procedure d’insegnamento, devono essere standardizzati, come in ogni burocrazia, e il salario misurato sul numero, più che sulla qualità, delle prestazioni erogate. La medesima standardizzazione consente anche di stabilirne i costi e quindi di gerarchizzare la forza-lavoro e fare pressione su di essa nel caso di riottosità. L’individualizzazione sia professionale sia sociale del docente è, almeno in parte, una conseguenza del fatto che venga sempre più considerato un mero esecutore di funzioni. Analogamente a quanto accaduto ad altre figure del settore pubblico, ciò comporta il rischio di una sempre maggior divisione, prodotta anche tramite l’erosione di qualsiasi «residuo» di contrattazione collettiva, verso forme sempre più «individualizzate» di rapporti all’interno di ogni scuola.
In questo contesto, la preparazione dell’insegnante viene considerata, nel migliore dei casi, un surplus, utile lavoro produttivo a costo zero (graditissimo, quindi, ai dirigenti scolastici) che gli insegnanti mettono spontaneamente a disposizione per sopravvivere, individualmente, alla frammentazione della categoria e alla correlata schiacciante concorrenza che mette a rischio la loro sopravvivenza materiale. Nel peggiore dei casi, essa è archiviata come qualcosa d’inutile, un vecchio residuo della scuola gentiliana, a cui si può rinunciare: l’insegnante non deve sapere, deve facilitare l’acquisizione del sapere altrui, si cinguettava nelle aule delle Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario (Ssis) e lo si continua a fare nelle sparute sale ove si svolge il sedicente «tirocinio formativo attivo» (Tfa). Ne consegue che l’insegnante può tranquillamente lavorare 20, 24 ore settimanali, come aveva proposto l’ex ministro Profumo, ma – perché no? – anche 36 o 40. Ovviamente si parla di ore in classe, perché gli insegnanti già lavorano ben più delle 18 ore curricolari, visto che non svolgono interamente le loro mansioni in classe.
Chiunque abbia insegnato qualcosa una volta nella vita sa che si aiuta a imparare ciò che si sa e non ciò che s’ignora. Chiunque sia stato a scuola sa che è principalmente la preparazione personale a determinare la qualità dell’insegnante. Dalla nuova «prospettiva», invece, l’impoverimento della preparazione data agli studenti segue inevitabile. Quest’impostazione, infatti, esige che le operazioni di trasmissione dei saperi siano ripetitive e semplici, segmentate attraverso un’ottica che ne enuclea gli aspetti operativi (i «saper fare» più che i saperi) iterabili e trasmissibili da «insegnanti» cui è sufficiente una preparazione media, talvolta mediocre, e non necessariamente dotati di attitudini comunicative particolarmente raffinate. Di fronte a un sapere semplificato, l’insegnante (se ancora è possibile chiamarlo così) diventa sempre più un mero esecutore di «programmi», la cui preparazione può essere impoverita senza troppi inconvenienti.
La contabilità quale forma feticistica della giustizia sociale non emana solo da una sorta di spirito vendicativo nei confronti della classe ‘intellettuale’, ma da una vera a propria ‘visione’ – a dire il vero non sempre lucida – della società o di ciò che dovrebbe sostituirla. La pretesa che tutto sia funzione del (e funzionale al) mercato si scontra, infatti, con la constatazione che nemmeno il mercato sa che cosa vuole, soprattutto nel medio e lungo periodo, che sono quelli propri della formazione. Il mercato chiede solo capacità adattiva ai suoi bisogni congiunturali. Se è così, però, l’unica risposta seria a tale indeterminatezza e incertezza non è, come pensano gli ottusi liberisti nostrani, la povertà di sapere di un soggetto ignorante, ma la versatilità di chi, capace di un approccio problematizzante alle difficoltà, le «risolve» inventando, innovando e, se necessario, trasformando il contesto in cui si producono. La paura di una conoscenza potenzialmente critica fa optare invece per una conservazione politica asfittica, in sostanza reazionaria, che baratta la propria «sicurezza» politica (spesso immaginaria) con l’incapacità di affrontare le sfide del tanto idolatrato dio mercato. Se si formano soggetti sempre più poveri di conoscenze articolate e approfondite, che permettano loro di costruire un futuro diverso da quello cui sembrano destinati, viene il sospetto che il vero obiettivo non sia rispondere alle esigenze del mercato, ma contenere o addirittura distruggere le capacità trasformative dei saperi (in particolare di quelli cosiddetti umanistici) – magari proponendo l’idea che, come le materie prime che scarseggiano, anche i saperi, soprattutto quelli tecnici, si possano comprare se e quando servono, anziché fare sforzi (ossia avere costi) per produrli, mentre gli altri saperi non servono a nulla. Una prospettiva coerente con la deindustrializzazione selettiva in atto. La veste economicistica del ragionamento, dunque, sembra nascondere la sua natura propriamente politica: conservare gli attuali rapporti di dominio, nella ricerca spasmodica di riprodurre all’infinito una sorta di sudditanza operaia e studentesca.
Contrapporre a questo processo la considerazione, pur vera, che un insegnamento di qualità non è interamente traducibile in procedure standardizzate è inutile e rischia di apparire una forma di illuminismo ingenuo. Perfino rimarcare che la scuola (e il sistema formativo nella sua interezza: dall’asilo all’università) non ha solo il compito di consentire un accesso al mondo del lavoro, ma anche formare individui dotati di un «senso civile» che li renda protagonisti nel costruire la loro vita e quella della collettività in cui vivono, rischia di suonare come un’ovvietà che il cinismo ghignante dell’imprenditore-fai-da-te o del finanziere scaltro capisce benissimo, pur ritenendola irrilevante per il mondo popolato di squali nel quale vive e nel quale immagina che tutti dovrebbero vivere.
In momenti di crisi, esortare allo studio per trovare lavoro rischia di essere una forma di sadismo, più che una verità d’altri tempi. Eppure proprio in momenti di crisi bisogna avere la capacità e la forza di affermare che solo il rilancio di un nuovo ruolo del conoscere e della sua trasmissione, soprattutto a favore (e quindi anche per bocca) dei soggetti più deboli e svantaggiati, più sfruttati ed emarginati, indipendentemente dallo sbocco professionale, può permettere il rilancio di energie capaci di trasformare il contesto economico e politico esistente. Un rilancio che può essere viatico della messa in discussione della stessa idea di cittadinanza fondata sul lavoro, e, forse, anche dell’idea di cittadinanza in quanto tale.
Il soggetto ignorante è un problema collettivo. E la scuola italiana che, pur non avendo mai smesso di essere classista, lo sta (ri)diventando ogni giorno di più, è parte integrante dello stesso problema collettivo. Il caso dei figli dei migranti, le cosiddette «seconde generazioni» è lampante (ma non si creda che ciò non riguardi anche molti figli di operai e di impiegati). Non si sta forse confezionando per loro un destino attraverso una scolarizzazione di tipo tecnico o professionale, facendo leva, pregiudizialmente, sulla loro difficoltà di colmare il divario linguistico o sulla difficoltà dei loro genitori a sobbarcarsi i costi dell’istruzione? Solidarietà (di classe), pazienza, attenzione e risorse sono indispensabili per consentire loro di non essere «secondi» a nessuno, ma anche per vivere in una «società» in cui non sono previsti secondi posti.
Più che di insegnanti impiegati-facilitatori, la scuola avrebbe bisogno di strutture adeguate e di tempo, che è il grande nemico, da sempre, della formazione funzionale al capitale. Senza spazi adeguati, sottratti alla logica del puro contenimento, ma soprattutto senza tempi differenziati da dedicare a chi è in difficoltà per trasmettere adeguatamente la conoscenza, anche usando le nuove tecnologie, ma senza farle diventare l’unico criterio-guida per impostare la didattica, la scuola pubblica diventerà sempre più un costo e solo un costo. Non a caso le sperimentazioni oggi si fanno, se e quando si fanno, nella scuola privata e solo poi vengono, eventualmente (cioè solo se è possibile a costo zero), trasferite nella pubblica. Una nuova gestione dello spazio e del tempo scolastici sono le condizioni indispensabili per instaurare un rapporto relazionale attivo con gli studenti e mettere così da parte le retoriche della personalizzazione dei percorsi di apprendimento. Tutti sanno qual è la regola aurea per avere una formazione di qualità: pochi studenti per classe, insegnanti preparati, strutture adeguate. È così che si aumenta il tempo e se ne migliora la qualità. È così, oltre che con stipendi consoni e col riconoscimento sociale, che si motivano gli insegnanti e, al contempo, gli studenti, che diventano consapevoli di poter ricevere una preparazione che li mette in grado di affrontare i problemi del loro tempo, anche se drammatici come quelli odierni. Si aumentano le possibilità di uscire dalla crisi aumentando il livello e la qualità dell’istruzione e della formazione, non abbassandole, rincorrendo ancora l’abbassamento del costo del lavoro.
Forse, è il caso di ricordare che Marx ammoniva a tener presente che per il capitale, il «tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari [sono] fronzoli puri e semplici!» (Il Capitale, I, XIII). Bisognerebbe ripartire dai «fronzoli» allora. La conoscenza della propria condizione, lavorativa e sociale, culturale e politica, non è un’astratta speculazione, ma un evento storico che comincia a porre le basi per trasformare la propria condizione.
Tuttavia, forse non basta confrontarsi con l’esistente, magari per prendere (giustamente) le parti della scuola pubblica contro il finanziamento di quelle private, com’è avvenuto con il referendum consultivo di Bologna del 26 maggio scorso. Certamente il referendum bolognese ha svolto un ruolo importante, quantomeno perché ha evidenziato la paura delle gerarchie politico-ecclesiastiche (pubbliche e private) nei confronti di qualsiasi minaccia al loro monopolio sull’educazione; però esso non ha risolto la questione dirimente del margine di agibilità politica per chi non vuole limitarsi a scegliere tra le opzioni in campo, ma intende sovvertire le regole del gioco. Mai come in questo momento un intervento politico sulla formazione scolastica richiede che la conoscenza del tempo presente costituisca il punto d’avvio per cogliere nelle pieghe della ristrutturazione in atto la possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza.
La resistenza contro il tentativo di trasformare la scuola in un’agenzia eterodiretta, a basso costo, di formazione di forza lavoro non passa in nessun modo attraverso un ritorno al passato, presunto glorioso. Al contrario, essa può essere praticata con lo sforzo di risvegliare ed eventualmente inventare in modo espansivo, soprattutto da parte di chi soffre maggiormente il peso delle recenti trasformazioni, una capacità di pensare la struttura e le modalità specifiche della formazione da parte degli unici soggetti che siano realmente in grado di farlo perché sono gli unici che conoscano davvero ciò di cui stanno parlando: i docenti stessi, che devono avere però la capacità di coinvolgere anche la componente studentesca. Questa capacità va attivata attraversando gli steccati generazionali e disciplinari, e cercando di ragionare al di là della stessa separazione tra scuola secondaria e università, toccando in modo autonomo e proprio per questo alternativo tematiche trasversali come quelle della valutazione, della didattica e del tempo scolastico. Su questo, ci risentiremo.