di EVELYN COUCH
I dettagli delle minacce di stupro e omicidio che la Presidente della Camera Laura Boldrini ha ricevuto in seguito alla sua nomina sono aberranti, e colpiscono almeno quanto la sua reazione composta, più preoccupata degli effetti sulla vita di sua figlia che non di ottenere la protezione di una nerboruta scorta di uomini in nero. I motivi delle minacce sono ovvi, e si affermano anche sul lindo orizzonte disegnato dai governi delle pari opportunità, che tingono di rosa le nomine per non nominare un mondo oscuro fatto di uomini che odiano le donne. Boldrini è semplicemente una donna che stranamente occupa una posizione di potere, insopportabile per molti nerboruti maschi italici.
Colpiscono anche, però, il suo intervento e le reazioni che ha suscitato. Boldrini ha posto il problema dell’uso della rete e della necessità di controlli che impediscano l’azione degli stalker. Ha chiarito che non proponeva misure censorie, ma di rendere efficace le possibilità di controllo e denuncia già esistenti, per consolidare una direzione che renda perseguibili i reati telematici e con ciò cambi la cultura del «femminicidio». Ha poi insistito sulla necessità – neppure questa censoria, a suo dire – di regolare la pubblicità, che ha trasformato il corpo delle donne in uno strumento di marketing sempre vincente. Josefa Idem ha sostenuto le sue posizioni auspicando l’istituzione di una «task force» governativa per «osservare» la situazione, mentre Cécile Kyenge, invitata dall’ineffabile Zaia a visitare la donna accidentalmente austriaca stuprata da due uomini accidentalmente migranti, ha ricordato che la violenza sessuale non ha colore né classe, ma solo un sesso, e che è senz’altro necessaria una nuova legge sulla violenza contro le donne. Alimentando l’idea illusoria che la rete sia il luogo della nuova democrazia, molti hanno gridato allo scandalo invocando la libertà del web. Orde di democratici tweet reclamano il diritto a esprimere un’opinione che non può e non deve essere compromesso da singoli individui corrotti e corruttori. Infine, negli spazi web della sinistra post-femminista e radicale, la libertà della blogsfera è stata contrapposta alle istanze di controllo governative, e quella di tutti i generi scagliata addosso alla pretesa di fare dei maschi gli unici carnefici in un universo dove il male prende il nome di «sessismo». Le linee di demarcazione sembrerebbero piuttosto nette. Eppure, tra coloro che auspicano la censura in favore della sicurezza delle donne e coloro che reclamano la libertà della rete facendo delle aggressioni alle donne un incidente di percorso, si può osservare una singolare continuità.
Invocare papà Stato contro quanti abusano della libertà che Egli concede è qualcosa che con fatica riesco a trattare come una politica in favore delle donne, o addirittura femminista. Con rassegnato realismo, sono convinta che leggi efficaci per punire la violenza contro le donne siano meglio di nessuna legge per punire la violenza contro le donne. Eppure, con rassegnato realismo, so bene in che modo le donne che subiscono violenza siano costantemente sul banco degli imputati, chiamate a sostenere l’onere della prova e a dimostrare di non avere incoraggiato la violenza maschile con i loro comportamenti, con il loro abbigliamento, con la loro stessa esistenza. So cioè di trovarmi in un mondo oscuro nel quale avere il corpo che ho mi pone in una costante condizione di rischio, o nell’effettiva posizione di oggetto disponibile alle parole e alle azioni di risentita vendetta di quei signori – non eccezionali criminali, ma il più delle volte ordinari mariti, padri, compagni – che pretendono di rimettermi al mio posto con brutali affermazioni di potere, soprattutto quando la mia posizione mette in dubbio quel potere. E la risposta non può certo essere quella di mettere il velo ai cartelloni pubblicitari, come se il problema (tutto d’immagine) fosse il corpo che viene esibito e le donne che lo esibiscono e non, invece, quanti pensano di poterne abusare e di fatto ne abusano. Non sono perciò così disposta a credere che papà Stato – luogo abitato da uomini eccellenti, che nessuna remora hanno a esibire la loro maschia potenza e a ricordare alle donne le loro adeguate funzioni socio-sessuali – mi possa infine proteggere con la sua voce legislativa. Non vedo nemmeno che cosa si debba «osservare», quando la cronaca rosa-nero ogni giorno mi ricorda quali rischi corro. D’altra parte, il dubbio che, quando si tratta di donne, la libertà e il potere stiano dalla stessa parte mi impone di vedere con quanta facilità gli strumenti a disposizione dell’opinione permettono fraternamente di denigrare, insultare, sistemare le donne, ricordando loro che non possono pretendere qualcosa di più. Nella rete tutti sono liberi individui. Persino le donne sono individui che possono dire la loro, e infatti sono molte le donne che contro ogni ipotesi di censura rivendicano la libertà della rete. E la libertà della rete è certamente più desiderabile di ogni ipotetica forma di censura, o di ogni invocazione dell’intervento punitivo della Polizia postale, divenuta negli ultimi giorni il vero baluardo del politicamente corretto. Ho però l’impressione che, nonostante la nuova democrazia telematica paia ormai dispiegata, essa non riesca ad arginare le ostinate esibizioni di potere maschile, né tantomeno le sue concrete pratiche. Il fatto sociale globale della violenza sessuale resiste nel mondo della libertà – un mondo di uguali diritti tra i quali, come è noto, vince la forza – e difficilmente la risposta potrà essere l’invocazione della colpa di individui isolati, passibili di querela o di moralistico scandalo. Col tollerare o col punire l’abuso di alcuni, la libertà di opinione è certamente fatta salva. Ma salvo è anche il potere maschile, che può continuare ad agire attraverso le parole, brutali o misurate, dei liberi opinionisti del web, dietro la faccia indifferente dell’individuo neutro, che di quella libertà è portatore tollerato, oppure colpevole.
Ritengo persino che sia davvero legittimo dubitare che parlare di «femminicidio», e trattare come una vittoria il riconoscimento giuridico di delitti che colpiscono le donne in quanto donne, sia un passo avanti contro la cultura che lo sostiene. Se a riconoscere quel delitto è papà Stato, o qualche protettiva e paternalistica istituzione internazionale, comincio a preoccuparmi. Devo osservare, con rassegnato realismo, che il «femminicidio» cancella in una parola il maschio che commette il delitto, sottolineando l’esistenza di una vittima identificata col suo sesso e cancellando il rapporto che la obbliga a essere tale. Sono più simpatetica col «sessismo», che denuncia e rifiuta ogni forma di violenza di genere, riconoscendo che sono molti gli individui che possono usare violenza contro altri individui per via della loro sessualità. Eppure, anche il «sessismo» mi lascia ugualmente sola nell’impossibilità di nominare il mio sesso, e il sesso di quelli che ostentano e affermano sulle donne il loro potere. Resto modestamente attaccata alla possibilità di non essere soltanto vittima, e neppure soltanto un individuo libero di enunciare qualsiasi opinione o essere indifferente al mio sesso in nome delle mie possibili sessualità. Affermo ostinatamente la possibilità che il mio corpo mi permetta di guardare al di là dei confini sottili che separano e congiungono papà Stato e fratello libertà.