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La messa a fuoco di un lessico resistente

di MAURIZIO RICCIARDI

VorticeRecensione di Daniel Bensaïd, Elogio della politica profana, Edizioni Alegre, 2013, pubblicata su «Il Manifesto» del 16 marzo 2013.

Ripetutamente, dopo la sua recente rielezione, il presidente Obama ha dichiarato che un decennio di guerra deve considerarsi concluso. Guardandosi attorno è difficile credere che la guerra sia davvero finita. Quello che è certo, e che risulta confermato da quella dichiarazione, è che per un lungo decennio la guerra è stata la scena su cui si è giocata la trasformazione globale della società capitalistica. Sebbene dal punto di vista militare essa sia stata paradossalmente meno mondiale di quelle del XX secolo, come spesso è accaduto in passato, la guerra ha stabilito le coordinate lungo le quali l’ordine della società del capitale si è riconfigurato, dispiegandosi violentemente su una scala globale. Il ritorno della guerra non ha solo cancellato ogni criterio di giustizia apparentemente consolidato, ma come in un vortice ha messo in discussione anche le più solide convinzioni sulla dimensione storica della politica. L’Elogio della politica profana di Daniel Bensaïd è una lunga e appassionata riflessione dall’interno di questo vortice.

Il riferimento immediato del termine profano è l’uso che ne fa Marx nella Questione ebraica. Profana è la sfida che pretende di pensare la rivoluzione senza attribuirle il carattere unico dell’evento salvifico. Profana è la politica che punta a una trasformazione radicale dello stato presente delle cose, senza attribuirle il carattere assolutamente oggettivo e necessario di una storia sacra. Profana è la politica che, sottraendosi alla mistica della tendenza, assume su di sé il rischio dell’iniziativa accettando però di mettersi alla prova della dura replica dei fatti. Profana è in definitiva una politica che, non pretendendosi assoluta, è in grado di sottrarsi all’ipoteca teologica che ancora oggi grava sull’azione soggettiva. Una politica che riporti sulla terra le possibilità dell’azione collettiva sfugge all’urgenza di presentarsi come eretica. Essa accetta fino in fondo la propria storicità, ovvero che anche la propria intenzione sovversiva sia determinata dal quadro materiale in cui viene concepita. Nonostante la sua crisi conclamata, Bensaïd si colloca esplicitamente all’interno del marxismo, rifiutando però di intenderlo come tradizione. Il suo tentativo è piuttosto quello di assumerne il carattere costantemente provvisorio, riconoscendo il bisogno di un confronto inesauribile con le trasformazioni materiali in atto.

Dall’interno del vortice dell’ultimo decennio si snoda così una riflessione che è allo stesso tempo un confronto con molte e rilevanti posizioni politiche e filosofiche e una critica del tempo della guerra. È impensabile restituire in poche righe l’ampiezza e l’intensità di questo confronto. Il suo punto di partenza è che l’avvento del tempo della guerra sembra negare la possibilità stessa della storia, contrapponendo l’unicità dell’evento e il predominio assoluto della contingenza al movimento che sovverte le strutture. L’irruzione della guerra ha dato centralità a tutte quelle riflessioni che hanno indicato nell’evento il senso proprio della storia, come pure a tutte le teorie che hanno affermato la sovranità dell’eccezione quale effetto più rilevante e incontrovertibile della guerra stessa. Di fronte a queste posizioni divergenti ma concomitanti, Bensaïd insiste nel collocare l’evento all’interno del processo che lo produce, consapevole che la politica profana non può aspettare il miracolo per la sua realizzazione, così come non può consistere in una serie ininterrotta di eccezioni, pena la sua stessa ineffettualità. Egli riafferma la presenza di alcune strutture storiche che la guerra come storia non è riuscita a destituire di significato.

Contro le teorie che hanno pronosticato la dissolvenza dello Stato e della sua territorialità, Bensaïd sostiene molto realisticamente che entrambi sono fattori costituzionali dei processi di valorizzazione capitalistica. D’altra parte è ormai chiaro che il postfordismo e la guerra non hanno prodotto uno spazio liscio, omogeneo e vuoto grazie alla dissoluzione dei confini. La destrutturazione di specifici assetti sovrani ha invece confermato la necessità capitalistica del confinamento, portando alla proliferazione interna ed esterna di confini e di frontiere. La ridefinizione della sovranità sembra, però, aver ormai consumato anche l’opposizione tra il paradigma imperiale e quello dello Stato nazionale classico. Mentre rimane fortunatamente lontano e improbabile lo Stato mondiale, assistiamo al progressivo consolidarsi all’interno della stessa forma Stato di strutture sovrane tali da garantire allo stesso tempo il governo territoriale e la governance globale. Questa persistenza dello Stato nonostante le sue profonde trasformazioni non consente tuttavia di riaffermare le modalità classiche di soggettivazione politica. Bensaïd riconosce che la politica profana ha bisogno di un nuovo lessico. Trovare nomi nuovi per le cose può però avvenire solo all’interno di una critica storica dei concetti e della loro costruzione. Se non devono essere nomi arbitrari, e in fondo inventati, popolo, proletariato, moltitudine, classe possono diventare politicamente significativi solo grazie agli specifici contenuti che riescono a esprimere sia dal punto di vista della descrizione delle condizioni materiali di vita di miliardi di persone, sia da quello delle possibilità di contestazione e sovversione di quelle stesse condizioni. Si tratta cioè di concetti che devono esprimere storicamente tanto la struttura quanto il movimento. Proprio questa necessità teorica impedisce di utilizzare concetti politici classici come argine alla loro stessa dissolvenza globale. Il popolo, anche quello della migliore tradizione repubblicana, può difficilmente stabilire un ambito di soggettivazione tale da opporsi alla spinta alla destituzione di diritti propagata dal capitale globale. Come l’Europa chiaramente mostra, il popolo in quanto unità politica non è più una palestra di soggettivazione democratica né la base di legittimazione di politiche sociali. Lo stesso ritorno del populismo pare più funzionale al processo di destrutturazione del concetto politico di popolo che alla sua riaffermazione. In America latina il processo ha caratteri diversi, ma resta la questione che l’unità politica – l’ossessione più imperiosa della modernità – non può essere risolta con un ragionevole richiamo al pluralismo. Unità e pluralismo sono due facce della stessa medaglia.

La politica profana deve dunque scendere nel caotico inferno del movimento globale, dove i nomi si caricano di significati ed emergono i volti di proletari, che spesso incuranti dei nomi agiscono come classe, praticano la lotta di classe, sperimentano rivoluzioni. Essa deve giustamente porre la questione del potere lì dove esso s’istituzionalizza, perché è lì che esso viene anche contestato. Il potere non circola casualmente, non risponde alla logica della contingenza, ma ciò non significa affermare una sorta di primato della politica interna e della sua successiva dimensione internazionale. Riconoscere che i luoghi e gli spazi del potere sono tutt’altro che indifferenti dovrebbe portare a connettere in maniera non casuale differenza e disuguaglianza. La politica globale è tutt’altro che aliena dal riconoscere le differenze, essa ne fa anzi la condizione di possibilità per mettere a valore e di sfruttare ogni condizione particolare. Eppure ci sono differenze che valgono come diseguaglianze globali. I migranti, per esempio, che Bensaïd nomina solo incidentalmente come funzionali alla regolazione del mercato del lavoro, irrompono nel mondo globale mettendo in discussione convinzioni, intenzioni e lessici. Per loro definire il significato della legittimazione democratica è un compito urgente assolto ogni giorno. La loro quotidiana profanazione delle forme politiche classiche è buon esempio e un buon banco di prova per la politica profana.

 

 

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