venerdì , 22 Novembre 2024

Imparare da Oakland 2. Da Oakland a Wall Street

We support the strikeNei prossimi giorni dovremmo essere in grado di fornire una testimonianza diretta sullo sciopero generale del 2 novembre a Oakland. Oggi pubblichiamo un secondo sguardo su quanto sta accadendo negli Stati Uniti, spostandoci questa volta da Oakland a New York. Sono molti gli aspetti di un movimento che, mentre irrompe presentando se stesso come il 99%, sta iniziando ad affrontare le fratture e dinamiche che attraversano il 99%. Ne sono esempi la polemica avviata da alcuni gruppi afroamericani a Philadelphia contro il razzismo che è presente anche nel movimento, o la discussione avviata a Vancouver, in Canada, sul significato del termine ‘occupazione’ in realtà dal passato coloniale e dove popolazioni indigene sono protagoniste di lotte contro l’intervento delle multinazionali, come il caso dell’Assemblea Indigena contro l’estrazione mineraria attiva in Canada. Qui ci interessa però rilevare un problema, altrettanto poco dibattuto da queste parti, che emerge chiaramente dentro alla cronaca della manifestazione newyorkese e che era già chiaro nel primo intervento che abbiamo pubblicato, ovvero la rilevanza politica del rapporto tra movimento e sindacato. Va sottolineata in primo luogo la produttiva specificità della situazione statunitense. L’autonomia delle local ha permesso in questi anni (anche a Seattle, anche il mayday dei migranti, anche lo sciopero della TWA di New York) di vedere negli USA pezzi di sindacato coinvolti in lotte più radicali di quelle dei sindacati italiani che, invece, proprio perché unitari, confederati e centralizzati non possono fare altro che “coalizioni tra sindacato e movimento”, oppure nel solco tradizionale considerare i movimenti come sostegni e appoggi alle lotte sindacali. Insomma, i sindacati statunitensi sono strumenti più flessibili e permeabili, al di là della specificità del porto di Oakland. Questi problemi e questa situazione non sono in verità del tutto sconosciuti in Italia, dove per due anni il primo marzo c’è uno sciopero dei migranti appoggiato e sostenuto da molte “sezioni locali” del sindacato.  Se da un lato le RSU hanno osato dove le confederazioni non hanno potuto e voluto arrivare, infatti, l’intero movimento è stato sottoposto ad uguale tensione da una simile presa di parola da parte dei migranti. Il tema dello sciopero e quello del razzismo sono stati posti congiuntamente, e lungo queste linee ci sembra utile continuare l’analisi.

Una prima contraddizione sembra tuttavia emergere e non può essere ignorata. Ci sembra infatti di poter dire che la radicalità consentita dall’interazione tra movimento e sindacati locali sia sempre a rischio di rimanere confinata nell’ambito delle condizioni specifiche che permettono quella radicalità. In altri termini: come evitare il rischio del locale senza cadere nella trappola di un sindacalismo che ignora la frammentazione e la diversità – la precarietà – delle forme del lavoro contemporaneo? Come costruire unità politica senza ignorare che il razzismo non è un tema esterno al 99%? Anche da questa prospettiva dovremo continuare a  imparare da ciò che altri fanno a Oakland, a New York, altrove.

Forme di un movimento che sta scuotendo l’America

di Michele Cento, in connessione da New York

Tutto ha inizio a Oakland. Il 25 ottobre 2011 il sindaco democratico della cittadina californiana, Jean Quan, ordina infatti alla polizia di sgomberare Oscar Grant Plaza, dove il movimento Occupy Oakland si era stabilito. Data la resistenza passiva dei dimostranti, la polizia usa lacrimogeni, flesh grenades (granate accecanti) e proiettili di gomma per “ripulire la piazza”. Grant Plaza è libera, ma invece di dare una lezione a qualche “studente spiantato” o a un “disoccupato scansafatiche”, cosa che sarebbe stata anche passabile per certa opinione pubblica americana, la sfortuna vuole che il malcapitato sia tale Scott Olson, veterano della guerra in Iraq, finito in ospedale dopo essere stato colpito in testa da un proiettile di gomma. Inutile sottolineare che la storia personale di Olson ha certamente attirato i media, oltre che facilitato la condanna dell’operato della polizia e del sindaco Quan.

Ma gli eventi di Oakland non sono affatto isolati ed esprimono il crescente fastidio delle amministrazioni cittadine e statali per il proliferare dei movimenti Occupy per il paese. Più che una spina nel fianco, questi movimenti sono infatti la rappresentazione visibile e costantemente esposta del disagio e della rabbia che montano nella società statunitense. Ragion per cui le autorità provano a neutralizzare, cancellandolo dalla vista, questo simbolo del cortocircuito che sta scuotendo la “pacifica” e “industriosa” nazione americana. I movimenti di Denver e Nashville hanno infatti subito la stessa sorte di Oakland, mentre a Richmond le forze dell’ordine hanno addirittura schierato i bulldozer. Insomma, il “potere mite” delle democrazie liberali in tutto il suo smalto.

Al di là degli altri focolai di protesta sparsi per il paese, è a Oakland però che dobbiamo guardare, perché qui la lotta ha raggiunto il punto più radicale convocando uno sciopero generale per il 2 novembre. Nonostante gli scettici, che avvertivano che “non si può organizzare uno sciopero generale in una settimana”, la mobilitazione è stata effettivamente un successo. I picchetti e le occupazioni dei marciapiedi hanno di fatto bloccato le operazioni delle principali banche,  da Wells Fargo a Citibank. Ma il vero obiettivo della protesta era quello di paralizzare il porto, centro nevralgico dell’economia cittadina. La strategia era quella di far partire un corteo alle 17 in maniera tale da convergere sul porto e bloccare il cambio di turno. I manifestanti, che secondo Occupy Oakland hanno raggiunto le 20mila persone, potevano contare sull’appoggio della Local 10 dell’International Longshore and Warehouse Union (ILWU, che è il sindacato dei portuali).

In realtà, l’ILWU già in mattinata aveva invitato i portuali a incrociare le braccia in solidarietà con Occupy Oakland. E l’appello aveva avuto un certo seguito, dal momento che, come l’attivista della Local 10 Jack Heymann ha dichiarato a «The Internationalist» (organo di stampa dell’Internationalist Group, movimento/partito di ispirazione leninista), “delle circa 300 offerte di lavoro a giornata, solo un centinaio sono state effettivamente assegnate. […] Con le autorità portuali che non sapevano dove sbattere la testa per cercare gente disposta a lavorare, l’attività del porto andava a rilento”. Tuttavia, lo stesso Heymann rileva come all’interno dell’ILWU sia in atto uno scontro tra i leader e i rank-and-file (la base sindacale), con i primi che solidarizzano con Occupy Oakland solo a parole e i secondi che vogliono radicalizzare la lotta. Cosa che d’altronde riflette una tendenza storica del sindacalismo americano, ben esemplificata dalle proteste dei rank-and-file contro il No-Strike Pledge, la promessa di non scioperare che i leader sindacali offrirono a Roosevelt all’indomani di Pearl Harbor, e ulteriormente consolidata via via che i sindacati si trasformavano in unità burocratiche prive di vitalità democratica.

Ad ogni modo, i lavoratori in serata incrociano le braccia. La massa dei manifestanti e l’opera di persuasione dei sindacalisti a favore dello sciopero centra infatti l’obiettivo: alle 8 le autorità del porto dichiarano che lo scalo è ufficialmente bloccato e invitano i protestanti a consentire che i portuali, anch’essi ad ogni evidenza parte del 99%, tornino a casa dalle loro famiglie. Regna l’entusiasmo tra la folla che ha paralizzato il porto, dimostrando così all’1% che il movimento può assumere una dimensione di lotta organizzata tale da bloccare il processo di accumulazione del capitale. Quello stesso entusiasmo, dopo decenni di sconfitte, ha portato nelle prime ore di giovedì 3 novembre un gruppo di manifestanti ad appiccare incendi e sfasciare vetrine per le strade cittadine. La risposta della polizia, fino a quel momento rimasta a guardare, non si è fatta attendere: gli arresti, secondo Mercury News, sono oltre 40 (Repubblica, che ha dedicato una fotogallery all’avvenimento, quasi si trattasse del matrimonio di William e Kate, parla di un centinaio di arresti. E ovviamente non si è fatta scappare l’occasione per titolare “I black block devastano Oakland”, scrivendo dei “soliti incappucciati” che hanno rovinato una “manifestazione pacifica”. Ma andate voi a spiegare ai dotti di «Repubblica» che lo “sciopero generale” è qualcosa di diverso…).

Lascerei comunque a loro queste sofisticate analisi sui black block e passerei a qualche riflessione sul 2 novembre di Oakland. Il primo dato è che uno sciopero può riuscire, anche nel paese dove il neoliberalismo ha reso la retorica antisindacale una continuazione con altri mezzi dell’“etica del duro lavoro”. Il 2 novembre ha altresì dimostrato che ci sono forze vive nel sindacato americano, che rifiutano la linea tradizionale del tradeunionismo moderato propria del vecchio leader dell’AFL Samuel Gompers. Queste forze sfidano i meccanismi di potere insiti nel processo di produzione capitalistica, colpendola attraverso lo sciopero generale. Uno sciopero che per altro va a incidere nelle dinamiche globali del capitale, perché paralizza un’infrastruttura dove operano multinazionali dell’agrobusiness come EGT e BUNGE Ltd e che rappresenta il quinto scalo commerciale degli Stati Uniti .

È questa una novità nello scenario americano: l’ultimo sciopero generale a Oakland risale al 1946, lo stesso anno in cui lo storico leader degli United Auto Workers  (UAW) Walter Reuther chiedeva alla General Motors di rendere pubblici i suoi bilanci, affinché potesse dimostrare di non essere davvero in grado di soddisfare la richiesta dell’UAW di aumentare del 30% i salari lasciando i prezzi invariati. Quella richiesta era un passo, sia pure modesto, verso la democrazia industriale, in quanto, se fosse stata accolta, avrebbe sancito il diritto dei lavoratori a partecipare ai processi decisionali del management, di cui la fissazione dei prezzi è un elemento fondante. Il finale di partita lo conosciamo: Reuther perse la sfida, il Taft-Hartley Act e la Guerra Fredda limitarono fortemente l’attività sindacale e Reagan fece il resto.

L’adesione alla protesta di alcuni sindacati americani potrebbe in questo senso essere il segnale di un rinnovamento interno alle unioni dei lavoratori, impegnate a ricostruire la propria immagine dopo anni in cui sono state associate a lobby moderate se non conniventi con il crimine organizzato, come nel caso dei Teamsters di Jimmy Hoffa. E non è un caso che la spinta verso i movimenti Occupy venga dalla base e non dai leader, i quali solitamente hanno legami con la politica locale, soprattutto democratica, e tendono a mantenere “rapporti di buon vicinato” con il management.

Sul fronte del movimento, nonostante l’affettata distanza nei confronti dei sindacati, l’adesione delle unions è ben accolta per un duplice motivo. Anzitutto, garantisce una maggiore rispettabilità ai vari Occupy, i quali, se alle spalle hanno il movimento dei lavoratori, saranno più difficilmente etichettati come hippie fuori stagione a cui indirizzare uno sdegnato “trovati un lavoro”. Questo comporta anche una polizza sulla vita per le occupazioni, perché l’avallo sindacale protegge i movimenti dagli sgomberi, come dimostra la situazione di New York. Qui l’appoggio dei sindacati è stato precoce. Già ai primi di ottobre una grande manifestazione a Fowley Square ha visto la sintesi di movimenti Occupy e sindacato dei trasporti e della scuola. Un legame rinnovato nella giornata del 15 ottobre. Al di là del fattore media, che scoraggerebbe chiunque dal tentare un atto di forza contro Occupy Wall Street, non ci sono dubbi che anche l’aura sindacale abbia indotto il sindaco Mike Bloomberg a confidare nel sempre efficace “generale Inverno” piuttosto che procedere a uno sgombero forzato di Zuccotti Park.

Insomma, sono in corso prove di dialogo tra movimenti e sindacati, i quali potrebbero sfociare in un’alleanza più stabile. Certo, la frammentazione e l’eterogeneità dell’universo sindacale americano, dove al di sotto dell’organizzazione nazionale AFL-CIO ogni sigla sindacale e ogni local segue percorsi in una certa misura autonomi, rendono difficile una coalizione tra movimento e lavoratori che faccia sentire il proprio peso politico. Tuttavia, qualcosa si muove e in una direzione che eccede non solo la linea (tuttora dominante) del populismo progressista, ma, almeno per quanto riguarda la convocazione dello sciopero generale di Oakland, anche gli schemi tradizionali del sindacalismo americano.

Mentre a Oakland si registrano tendenze incoraggianti, a New York il movimento appare più frammentato e i gruppi più radicali devono fare i conti con l’anima populista e progressista del movimento. Cionondimeno, Occupy Wall Street ha marciato in solidarietà con i compagni di Oakland. A New York il corteo è partito da Washington Square, cuore del Village e del campus della New York University, con direzione Police Plaza, dove ha sede il quartiere generale della polizia cittadina. È prevista una tappa intermedia a Zuccotti Park, dove il corteo si unirà al resto del movimento.

Il corteo inizia la marcia al grido di “studenti e lavoratori bloccano la città”, a dimostrazione che anche a New York, dove, come si diceva prima, l’endorsement sindacale è arrivato ai primi di ottobre, sono in corso prove di dialogo tra il movimento e il mondo del lavoro. In realtà, il grosso del corteo è formato da studenti, in larga maggioranza bianchi. Le poche facce di colore che si incontrano durante la manifestazione non sono evidentemente universitari e militano sotto le insegne di sparuti gruppetti marxisti internazionalisti, che hanno tanto l’aria dell’organizzazione clandestina. D’altronde, in un paese dove le rette universitarie sono altissime e la linea del colore e quella della classe spesso coincidono, non potrebbe essere diversamente. Negli Stati Uniti, scioperare e/o studiare sono entrambi lussi che non tutti possono permettersi.

Rispetto alle poche centinaia di persone che formano il corteo, a stento credo si raggiunga il migliaio, l’assembramento delle forze di polizia è quantomeno inquietante. Come è noto, le regole per manifestare a New York sono molto rigide e molto diverse dalle nostre: tutti i manifestanti devono camminare sul marciapiede e non possono invadere la strada, pena l’arresto. Bontà loro, i poliziotti creano una vera e propria barriera umana tra il corteo e la carreggiata, in maniera tale che i manifestanti non possano “distrattamente” incorrere in tale spaventoso reato!

Il percorso scelto dagli organizzatori, che si inoltra per le stradine del Village, non è però l’ideale per una manifestazione da cui si pretende una così stretta disciplina. Così, dopo pochi minuti di marcia scatta l’arresto. Ci sono attimi di tensione, sia pure abbastanza controllata, con i manifestanti che insultano i poliziotti: “Cani da guardia di Wall Street”, “Voi proteggete l’1%” e il sempreverde “Porci” si sentono distintamente in mezzo al chiasso generale. È qui che uno studente ha un colpo di genio: tira fuori la tromba e intona il silenzio, per commemorare, credo, il diritto di manifestare appena passato a miglior vita. Poi un poliziotto intima al corteo: “Continue to march”, il cui sottotesto dovrebbe essere “continuate a marciare, altrimenti la gente qui intorno si accorge che la democrazia americana esiste solo nei libri che gli facciamo studiare a scuola”. Ma, sottotesto a parte, quel “continue to march” implica che manifestare non solo è un lusso per pochi, ma che perfino per quei pochi non è affatto un diritto, ma solo un permesso gentilmente accordato dalle autorità. E se l’esercizio di un diritto è una sfida al potere costituito, è chiaro che il godimento di un permesso serve solo a consolidare i meccanismi di potere operanti nella democrazia liberale.

Il corteo comunque riparte e, mentre attraversiamo la città, sembriamo essere una sorta di attrazione turistica, bersaglio di macchine fotografiche e di sorrisi divertiti. Non mancano però gli applausi di incoraggiamento, soprattutto dalle persone più anziane, memori forse delle lotte di un tempo. Ma è Canal Street che dà maggiori soddisfazioni: la “strada che non dorme mai”, popolata di negozietti di ogni tipo e i cui marciapiedi sono costantemente occupati da venditori ambulanti, sembra fermarsi e sostenere il corteo. Siamo dalla parte opposta rispetto a Chinatown e qui gli afro-americani e i latinos applaudono e incitano alla lotta. La situazione cambia una volta presa la direzione del Financial District e, via via che ci si avvicina al World Trade Center, la gente sembra molto meno amichevole.

Poche centinaia di metri dopo Ground Zero c’è Zuccotti Park, dove raggiungiamo il nucleo di OWS. Qui lo scenario è diverso rispetto al gruppo di universitari partito da Washington Square. Varia umanità popola Zuccotti Park. Si vedono tanti uomini e donne di mezza età, di colori diversi ma in prevalenza bianchi, presumibilmente disoccupati e/o ridotti sul lastrico dall’era del credito facile. Ogni tanto spunta qualche anarchico e qualche comunista sopravvissuto alla caccia alle streghe, oltre a un paio di “figli dei fiori” ormai ingrigiti dall’età. Ma a OWS le parole d’ordine di Bakunin e di Marx non fanno tanta presa, perché a dominare è lo schema populista del popolo dei produttori contro i parassiti della speculazione finanziaria. Il carattere moralista e non sistemico della loro critica al capitalismo è ben esemplificato da una serie di manifesti che ritrae come “home-grown terrorists” (terroristi cresciuti in casa) i manager di banche e corporations, insieme alle alte sfere della Fed e dell’amministrazione responsabili del bailoutSi invocano anche progetti di mutual responsibility, che riflettono sotto certi aspetti i piani corporativistici del New Deal. E, a riprova della popolarità di cui il vecchio FDR gode da queste parti, c’è poi chi crede che il salvataggio del sistema passi semplicemente per una riedizione del Glass-Steagall Act, che, approvato dall’amministrazione Roosevelt nel 1933, separava le attività bancarie tradizionali da quelle di investimento.

In altri termini, se lo sciopero generale potrebbe aver incanalato Occupy Oakland lungo un crinale realmente antagonista, OWS, come sostiene giustamente Slavoj Zizek, è al momento uno spazio vuoto che catalizza le molteplici forme di malessere che attraversano la società americana. È cioè un movimento troppo composito per essere definito una volta per tutte e che, tuttavia, non è corretto liquidare superficialmente come un movimento della piccola borghesia. Almeno in una fase embrionale, l’eterogeneità del movimento potrebbe non essere necessariamente un male e potrebbe indicare l’apertura e la disponibilità a ricevere – e successivamente a rielaborare – idee in una direzione realmente conflittuale. Per parafrasare un vecchio politicante, se ad oggi OWS non è nulla, proprio per questo, domani potrebbe essere tutto.

Certo, la retorica del movimento non organizzato e senza leader non aiuta a imprimere una linea chiara, né tantomeno a definire una strategia di lotta che superi gli appelli populistici e/o moralistici e si concentri su obiettivi definiti e immediati. Esempio del grado di disorganizzazione che regna a Occupy Wall Street è la posizione in merito alla giornata globale di protesta prevista per l’11 novembre. Mentre molte persone intervistate mi rispondono che l’11 è il Veterans Day (che, per definizione, non è proprio un giorno di protesta!) solo qualcuno mi dice che circolano voci relative a un’occupazione di Central Park. Ma, in realtà, il movimento non ha ancora una posizione ufficiale. E questo ci dà la misura della differenza tra Oakland e New York: se nel primo caso un’assemblea non rappresentativa ha autoconvocato uno sciopero generale, nel secondo abbiamo un movimento che non riesce a prendere una decisione su una giornata di protesta di cui in Europa si parla ormai da giorni.

Nella direzione di un movimento più strutturato sembra andare la delibera che dota OWS di uno Spokes Council, cioè di un organismo intermedio che dovrebbe coordinare le relazioni tra i Gruppi Operativi e i vari sottogruppi per rendere più efficaci e immediati i meccanismi decisionali. Vedremo quali saranno gli effetti di questo nuovo organismo sulla struttura di OWS.

Insomma, al momento grande è il disordine sotto il cielo. Ma la situazione è davvero eccellente?

leggi anche...

Organizzarsi a livello transnazionale: limiti, sfide e prospettive

di TRANS-BORDER.NET Traduciamo in italiano e pubblichiamo il dialogo sull’organizzazione transnazionale che abbiamo avuto con …