di LUCA BASSO
Pubblichiamo di seguito l’introduzione al volume Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx, di Luca Basso, pubblicato presso la casa editrice ombre corte di Verona.
[Secondo Le Chapelier, relatore del decreto del 14 giugno 1791 in Francia] «[…] gli operai non devono […] accordarsi sui loro interessi, non devono agire in comune» moderando così quella loro assoluta dipendenza che è quasi schiavitù»
Karl Marx, Il Capitale, Libro primo
Dal momento […] che lo Stato è solamente un’istituzione transitoria, di cui nella lotta, nella rivoluzione ci si serve per reprimere con la forza i propri avversari, è pura assurdità il parlare di libero Stato popolare: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato non se ne serve nell’interesse della libertà ma della repressione dei suoi avversari, e non appena si può parlare di libertà lo Stato in quanto tale cessa di esistere. Perciò noi proporremmo di mettere ovunque al posto di Stato Gemeinwesen, una buona vecchia parola tedesca che può fare molto bene le veci del termine] francese commune.
Friedrich Engels a August Bebel, 18-28/03/1875
Negli ultimi tempi, anche in corrispondenza con la crisi economica globale, si è assistito a una ripresa di interesse per Marx, dopo anni di damnatio memoriae a causa del fallimento del «socialismo reale» e a causa dell’accettazione acritica del dominio capitalistico come unico orizzonte possibile. Ripensare i problemi che Marx pone significa sicuramente allontanare vecchie ortodossie, ma senza attenuare il carattere destrutturante della sua riflessione. Infatti l’analisi rigorosa, sul piano storico e teorico, dei testi marxiani non significa necessariamente l’adesione a una visione «spoliticizzata» di un Marx classico della filosofia, e la consapevolezza della crisi del plesso marxismo/movimento operaio/partito comunista non sfocia necessariamente in una contrapposizione manichea fra Marx e il marxismo, valorizzando il primo e ritenendo il secondo, già a partire da Engels, come una mera mistificazione di un presunto «messaggio» originario. Il riferimento a Marx ha sempre costituito un posizionamento non neutrale, non equidistante, e quindi i marxismi più vitali hanno sempre cercato di «rigiocare» la riflessione marxiana a partire dalla congiuntura storica e politica in cui si inscrivevano. D’altronde, la prospettiva delineata da Marx si rivela intrinsecamente politica, come emerge dal Poscritto alla seconda edizione del Capitale: «L’economia politica, in quanto è borghese, cioè in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico, invece che come grado di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all’inverso come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati». Il testo marxiano muove dal punto di vista «colpevole» del proletariato, non componibile rispetto a quello borghese, ed è volto a una trasformazione materiale della situazione presente, sulla base di un continuo «scambio» fra analisi del reale e destituzione di quest’ultimo.
Il riconoscimento del carattere «di classe» della riflessione e la tensione verso il rivoluzionamento dei presupposti esistenti non possono però far trascurare il piano teorico complessivo, su cui si fonda la critica dell’economia politica marxiana. La valorizzazione della classe operaia nella sua politicità non è svincolata dalla struttura concettuale della critica dell’economia politica: la soggettività operaia non può venir declinata e praticata senza percorrere fino in fondo la «spettrale oggettività» del modo di produzione capitalistico. Il rapporto teoria-prassi deve essere concepito tenendo conto del nesso di tali dimensioni, ma anche della loro non immediata componibilità: non si assiste alla deduzione di un elemento dall’altro. In tal senso, è necessario tenere presente anche la possibile separazione fra la teoria e la politica. La difficoltà della questione è fornita dal fatto che, per un verso, la critica marxiana dell’economia politica possiede una valenza politica, per l’altro, però, la politica non può venir immediatamente ricavata dalla critica dell’economia politica. Due prospettive, differenti e in parte addirittura inconciliabili fra di loro, ma che pongono con forza il problema del rapporto fra teoria e pratica, sono, da un lato, quella di Louis Althusser (e della sua scuola), dall’altro, quella dell’operaismo italiano. Inoltre ci si trova di fronte non solo alla possibilità di uno «scarto» fra gli elementi indicati, ma anche alla consapevolezza del fatto che il reale non si rivela immediatamente disponibile allo sguardo, e quindi trasparente, visto che il modo di produzione capitalistico presenta un carattere opaco, come risalta dall’analisi marxiana del feticismo, in polemica con l’economia politica classica.
Sulla base di queste coordinate il libro, articolato in quattro capitoli, indaga la relazione fra dimensione individuale e dimensione comune, e quindi l’intreccio fra individuo, classe, società, comunità nella tematizzazione marxiana a partire dagli anni Sessanta. Pur possedendo una sua piena autonomia, dal punto di vista cronologico costituisce una sorta di prosecuzione del precedente lavoro Socialità e isolamento: la singolarità in Marx (2008), incentrato sul percorso marxiano dai primi testi ai Grundrisse. Infatti, il presente libro trova a oggetto, da un lato, il Capitale, dall’altro, gli scritti storico-politici dell’ultima fase, attribuendo particolare rilevanza alla riflessione sulla statualità e sull’azione politica della classe operaia, con riferimento a eventi come la Comune di Parigi e a organizzazioni come l’Internazionale. Al riguardo emerge una politica «marxista» che risulta inconciliabile, non senza difficoltà interne, sia con l’anarchismo bakuniniano sia con lo statalismo lassalliano. Prendo poi in considerazione, oltre che numerosi testi legati a congiunture specifiche, fra i quali particolarmente significativi sono quelli incentrati sull’analisi della Russia, gli estratti sulle scienze naturali, e in primis i cosiddetti Ethnological Notebooks. In questo senso, il tema dell’antropologia non viene a rivestire solo una funzione astrattamente filosofica, risentendo di un continuo confronto con la politica sans phrases, ma anche con le scienze naturali e le scienze sociali dell’epoca. Inoltre, tali scritti risultano utili per indagare la questione delle forme del «comune», sulla base di una visione articolata dello scenario storico, non riducibile alla vicenda dell’Europa occidentale. Per connotare il periodo indicato, nel titolo del libro ho adoperato l’espressione «ultimo Marx», per quanto oggetto di analisi siano anche gli anni ’60, e non solo gli ultimi anni della sua produzione: ho ritenuto preferibile la terminologia utilizzata, per non ricadere nella statica (e, per certi versi, sterile) contrapposizione fra il «giovane» Marx e il Marx «maturo», a partire dalla convinzione di una sostanziale, anche se non aproblematica e lineare, continuità nel percorso marxiano.
Secondo il rapporto complesso delineato fra teoria e politica, si tratterà di esaminare la relazione individuo-comunità, così come si dà concretamente all’interno del modo di produzione capitalistico, nelle sue caratteristiche determinate, nella sua differenza specifica rispetto alle forme produttive che l’hanno preceduto. Se queste ultime si contraddistinguevano per l’unità dell’uomo con la comunità, il sistema capitalistico si fonda su un elemento strutturale di separazione: la scissione concerne non solo il rapporto fra gli individui e i mezzi di produzione, ma anche quello fra ogni individuo e la propria capacità lavorativa. In tale scenario gioca una funzione cruciale la questione della classe, che non può venir ipostatizzata né sul piano ontologico né su quello sociologico, configurandosi come una nozione intrinsecamente politica. D’altronde, il capitalismo è il primo modo di produzione in cui l’antagonismo (che, però, spesso è latente, non in actu) non costituisce solo un effetto, ma la condizione stessa del suo darsi: la società si fonda su una divisione in due, su una «contraddizione in processo», non passibile di composizione, fra capitale e lavoro. All’interno di tale scenario emerge una declinazione potenzialmente espansiva del lavoro vivo, in quanto valore d’uso della forza-lavoro che, per un verso, è finalizzato alla valorizzazione del capitale, per l’altro, però, può costituire un’opposizione dirompente al capitale, «spezzando» il suo «meccanismo morto».Infatti, la forza-lavoro non viene posseduta, ma venduta come disposizione temporale da un soggetto, l’operaio, che risulta privato dei mezzi di produzione: il capitalista compra qualcosa che esiste solo come possibilità, rivelandosi però indisgiungibile dalla personalità vivente dell’Arbeiter. Permane quindi un elemento «irrisarcibile», consistente nel fatto che il corpo operaio non può mai venire «catturato» pienamente.
L’orizzonte indicato è continuamente attraversato dal riferimento al comunismo, per quanto raramente Marx ne fornisca una descrizione dettagliata e per quanto esistano una serie di ambiguità al riguardo. A grandi linee due sono le modalità con cui viene articolata la questione. La prima, per riprendere la formulazione dell’Ideologia tedesca, è il comunismo come «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», e quindi come destrutturazione dello status quo, sulla base di un continuo «investimento» politico sui momenti di soggettivazione della classe operaia. La seconda consiste nel comunismo come organizzazione, istituzione in grado di dare vita a un governo comune che faccia «sedimentare» le pratiche indicate, onde evitare che si disperdano in direzioni incomponibili. Dal momento che non si può pensare che gli «individui sociali» possano agire in modo puramente spontaneo, si fa riferimento alla presenza di un loro controllo della produzione sociale secondo un piano. Sulla base di questo approccio, si tratta, da una parte, di assumere il carattere anticipatorio delle lotte, all’interno del capitalismo, volte al comunismo, dall’altra, però, di rimarcare la discontinuità di quest’ultimo rispetto al capitalismo.
Il tentativo è di articolare l’«agire in comune», il Gemeinsam handeln (per riprendere l’espressione presente in un passo, citato in calce all’Introduzione, del capitolo marxiano sull’accumulazione) delle singolarità operaie nella loro differenziazione, e quindi nella loro non-serialità, in antitesi rispetto all’elemento del lavoro salariato e alla forma-Stato, in cui gli individui risultano sussunti al «potere sociale» del denaro. Nella situazione presente occorre avere consapevolezza del fatto che non esiste un soggetto unico, universale, e che quindi la questione della soggettività si rivela estremamente complessa e articolata, irriducibile a una soluzione immediata, a una facile individuazione di una «via d’uscita». Inoltre, all’interno di tale scenario, si deve assumere fino in fondo la dimensione globale delle lotte, rifiutando qualsiasi tipologia di comunitarismo, che risulta o funzionale alla dinamica statuale o comunque puramente reattivo rispetto ad essa. Per Marx il comunismo non si configura come un esito astorico, ma al contrario si cala nella storia: per questa ragione, l’«essere comune», il Gemeinwesen non può venir determinato una volta per tutte, dovendo ogni volta venir ricalibrato all’interno delle situazioni in cui si inserisce, sulla base di una continua apertura alla rettifica del proprio percorso. In ogni caso, la tensione verso la realizzazione delle singolarità operaie non implica una sorta di «etica» del lavoro, ma al contrario costituisce una radicale messa in discussione di tale logica, adeguata a un dominio capitalistico potenzialmente sempre più onnipervasivo:
Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a occuparsi dell’apprendimento dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione […] Dunque, essere lavoratore produttivo non è una fortuna, ma una disgrazia (Il Capitale, libro I).