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La Cina è lontana, la Foxconn è vicina

Foxconn-300x269di RUTVICA ANDRIJASEVIC, DEVI SACCHETTO

Pubblichiamo la versione integrale dell’articolo uscito su «Il Manifesto» del 10 ottobre 2012.

Il migliore dormitorio in città ha il nome evocativo di Hotel Harmony e ospita qualche centinaio di lavoratori migranti reclutati quasi esclusivamente dalla Xawax, una delle circa 1300 agenzie di reclutamento che vi sono nel paese. L’agenzia Express People, invece, colloca la propria manodopera in una pensione di infimo livello, il Veselka, a pochi passi dalla stazione ferroviaria. In entrambi i dormitori le stanze sono a quattro letti, ma quanti alloggiano all’Hotel Harmony possono contare su una piccola cucina e un bagno interni alla stanza, mentre gli altri si appoggiano a una cucina malmessa, due bagni maleodoranti e una decina di docce per quasi ottanta persone. Al Veselka i bagni sono intasati e le porte non dispongono di alcuna chiave. Qui qualcuno ha lasciato due scritte: la prima con un gioco di parole dice – Fuck Foxconn – «sto cercando la Foxconn»; la seconda invece è meno fantasiosa – Fuck Express People. Gli uni e gli altri lavorano in turni di dodici ore al giorno nello stabilimento della Foxconn. Non siamo in Cina, ma a Pardubice, un centinaio di chilometri da Praga, dove l’azienda all’inizio del nuovo secolo ha acquistato uno stabilimento. La città di Kutna Hora, qualche decina di chilometri più in là, ospita da circa cinque anni un altro stabilimento e se si scende fino a Nitra, passando il recente confine con la Slovacchia, si completa la presenza della Foxconn nell’Unione europea. È per la Hewlett & Packard che la Foxconn produce computer, laptop, server e cartucce a Pardubice e Kutna Hora, mentre gli ordinativi della Sony per le televisioni a schermo piatto alimentano le linee dello stabilimento di Nitra.

Certo, niente di comparabile in termini numerici con gli stabilimenti cinesi: meno di diecimila tra occupati diretti e indiretti. Tuttavia, la strada seguita nelle due fabbriche ceche dalla multinazionale taiwanese, la più grande società al mondo di produzione di manufatti elettronici, indica nuove frontiere nell’organizzazione e nella gestione della forza lavoro per il sistema di occupazione europeo. La Repubblica Ceca è una sorta di Zona di esportazione speciale all’interno della quale le multinazionali possono sperimentare varie modalità di gestione della forza lavoro con salari europei intermedi. Si tratta di una produzione manifatturiera sostenuta da una vera e propria macchina statale che diversi paesi dell’Europa orientale hanno messo in campo per attrarre gli investimenti stranieri.

Nei due stabilimenti una forza lavoro per i due terzi maschile opera in reparti rigidamente suddivisi per prodotto e, quando è il caso, anche per marchio. Questa separazione risponde a diverse esigenze: a Kutna Hora fino a qualche anno fa si produceva per la Apple, ma quando i lavoratori hanno iniziato a organizzarsi per chiedere migliori condizioni di lavoro, la divisione è stata chiusa: «hanno licenziato 29 persone per dieci mesi; se arrivano a 30 persone devono concordare i licenziamenti con il sindacato e con le autorità locali. Chi ha accettato di lasciare il sindacato ha continuato a lavorare», racconta Gabriel uno di quei licenziati, circa 300.

Nelle fabbriche ceche, accanto ai lavoratori locali, e in minor misura slovacchi, che svolgono solitamente le operazioni di controllo e gestione degli impianti, troviamo migranti provenienti da vari paesi: Bulgaria, Mongolia, Romania, Polonia, Ucraina, Vietnam. Gli storici legami tra gli ex-paesi del socialismo reale costituiscono la base su cui si innestano flussi migratori, spesso gestiti da agenzie di reclutamento con ramificazioni internazionali. Per i migranti europei, ucraini compresi, la mobilità è solitamente a basso costo, così come per i mongoli che emigrano all’interno di reti amicali e familiari.

Manager inglesi e cinesi sono coloro che gestiscono questa forza lavoro multinazionale occupata per lo più in mansioni ripetitive da svolgere con cadenze di  40-60 secondi. Si tratta di un lavoro generico dove la manodopera è facilmente sostituibile: «vogliono solo persone dai 20 ai 35 anni perché il lavoro è molto veloce», ci racconta Madalena, una giovane rumena che ha già lavorato in Slovacchia e in Spagna, prima di arrivare fin qui. Madalena proviene dal Delta del Danubio, Tulcea, dove lavorava per una ditta tessile italiana: «meglio alla Foxconn che là in Romania. Guadagno 4-500 euro al mese e dormo in questa stanza, pagata dall’agenzia, con mio marito». Madalena, come altri, fa parte di quell’ampio bacino di forza lavoro dotata di esperienze lavorative a livello europeo. Queste diverse esperienze non sembrano, al momento, in grado di produrre un riconoscimento tra gli stessi lavoratori della medesima condizione di classe; piuttosto emerge l’idea che occorra cogliere le opportunità lavorative in diversi paesi. Petre, un trentenne rumeno, alterna lavori all’estero e nel paese di origine: «Ho lavorato in Ungheria come muratore, in Slovacchia nella fabbrica TPCA (una joint venture tra Toyota, Peugeot, Citroen), in Italia lavoravo in agricoltura e adesso sono arrivato qui. A Imola sono arrivato nel settembre 2011 e il salario era di 6 euro, a marzo2012 mi davano 3,5 euro e ho deciso di tornare in Romania. Poi ho saputo che un’agenzia cercava persone per la Foxconn, e sono venuto».

Le nazionalità dei lavoratori immigrati presenti alla Foxconn riflettono la situazione generale della Repubblica Ceca dove essi nel 2011 contavano per il 5,4% degli occupati, pari a circa 310 mila persone. Si tratta in particolare di slovacchi (114 mila), ucraini (70 mila), vietnamiti (34 mila), polacchi (21 mila), bulgari (8 mila), rumeni (7 mila). I mongoli, che nel 2008 erano arrivati a essere oltre 13 mila, si sono ridotti a 3300; una contrazione che ha coinvolto anche ucraini e vietnamiti, per effetto della nuova politica migratoria verso i cittadini dei paesi terzi e dell’entrata nell’Ue di Bulgaria e Romania, che non a caso vedono un netto incremento dei loro esodi verso la Repubblica ceca proprio a partire da quegli anni. Nell’area di Pardubice così come in quella di Kutna Hora il numero di permessi di soggiorno si è incrementato progressivamente dal 2001 fino al 2008 per poi decrescere in modo altrettanto rapido: nel 2001 nelle due città vi erano 621 immigrati non Eu, arrivati nel 2008 a 9457, ma ridotti nel 2011 a soli 1937. Se i lavoratori comunitari possono muoversi ormai senza particolari restrizioni, i non comunitari devono invece rinnovare il permesso di soggiorno ogni sei mesi al costo di 100 euro. La normativa, entrata in vigore nel gennaio del 2012, impone poi che i lavoratori non-Eu non siano più prestati alle aziende attraverso le agenzie di reclutamento. Per scansare questa normativa la Foxconn stipula contratti di servizio affittando qualche reparto direttamente alle agenzie che si ritrovano investite di nuove responsabilità datoriali, soprattutto quando qualche timido ispettore del lavoro si affaccia in fabbrica.

Appoggiandosi ad agenzie di reclutamento, la Foxconn si assicura una notevole flessibilità a seconda degli ordinativi. Nel momento di picco, quando il Natale si avvicina e i negozi occidentali si affollano di clienti alla ricerca dell’ultimo ritrovato della tecnica, a Pardubice lavorano solitamente circa 4500 persone, contro i 2500 di Kutna Hora. In entrambi i casi, il 40% di questi sono interinali, per lo più migranti, una parte dei quali ritornerà presto a casa o dovrà cercarsi un altro posto di lavoro. I lavoratori che dispongono di un contratto con un’agenzia non possono, salvo eccezioni, essere assunti immediatamente dalla Foxconn, ma devono rimanere fuori dallo stabilimento almeno per sei mesi. Non mancano le agenzie che mettono in campo truffe ai danni dei lavoratori, ma questi sono strappi alla regola.

Negli stabilimenti quindi è presente una forza lavoro multinazionale che, al momento, non sembra essere riuscita a trovare convergenze significative e rimane spesso separata da linee «etniche». D’altra parte l’uso da parte aziendale dell’elemento comunitario sembra cruciale sia per favorire la cooperazione tra una manodopera che spesso non conosce la lingua locale, sia soprattutto per controllare e gestire i comportamenti lavorativi attraverso la catena di intermediari: capilinea, capireparto, interpreti e dipendenti delle agenzie. Lavoratori diretti e indiretti quindi co-esistono senza particolari interazioni a causa sia dei problemi linguistici sia soprattutto delle reciproche false percezioni prodotte da entrambi i gruppi sulla pelle degli altri. I lavoratori sia interinali sia diretti lamentano che ai membri dell’altro gruppo  è permesso svolgere lavoro straordinario e quindi guadagnare di più.

Gli orari di lavoro si modificano sulla base delle quotidiane urgenze aziendali. I lavoratori diretti operano solitamente su turni di 8 ore per circa 40 ore a settimana, ma i lavoratori interinali svolgono sempre turni di lavoro di 12 ore giornalieri, sebbene raramente lavorino cinque giorni alla settimana: «Lavoro in media 165 ore al mese. Di solito lavoro tre giorni, qualche volta quattro giorni a settimana per dodici ore al giorno. Non sono tante ore a settimana, io vorrei lavorare di più», afferma un lavoratore bulgaro. Uno degli elementi centrali nel sistema della Foxconn è il suo potere insindacabile di gestire una massa flottante di forza lavoro, come ben racconta un lavoratore polacco: «Lavoro in Foxconn con un’agenzia, ma il problema è che non lavoro sempre. Il mese scorso ho lavorato solo 51 ore e ho guadagnato 3.000 corone (€ 120). Ogni mattina andavo allo stabilimento per vedere se c’era lavoro, ma mi dicevano che non c’era niente per me. Eravamo qualche centinaio di persone, ma il boss ne chiamava solo una decina e così tornavamo nel dormitorio».

Alla differenziazione oraria si somma quella salariale: per gli operai della Foxconn la paga oraria è di circa 3,5 euro per 600-700 euro mensili, ma i lavoratori interinali devono accontentarsi di 2,5 euro all’ora per una busta paga mensile di 4-500 euro. È pur vero che la Foxconn sborsa circa 6 euro all’ora alle agenzie di reclutamento, ma queste oltre a pagare il lavoratore devono occuparsi del trasporto e dell’alloggio. In effetti, le agenzie di reclutamento sono un elemento essenziale nella gestione degli aspetti produttivi e riproduttivi. Alcuni migranti dotati di una buona conoscenza della lingua ceca lavorano per conto delle agenzie controllando le prestazioni lavorative interne alla fabbrica, mentre altri si concentrano sulle dinamiche della vita quotidiana, fino ai dormitori: «almeno una volta al mese qualcuno viene a controllare che non ci siano altre persone che dormono qui; hanno le chiavi delle stanze e aprono anche se non ci siamo», ci racconta Alina. In questi dormitori, differenziati spesso per nazionalità, i lavoratori migranti interinali sono ospitati a spese dell’agenzia che trattiene circa 150 euro dalla busta paga. I pochi che cercano sistemazioni autonome possono così contare sui 150 euro, ma i costi in città solitamente sono tre volte più elevati.

I lunghi turni di lavoro e la frenesia produttiva che in alcuni momenti attraversano la fabbrica provocano un elevato turnover lavorativo. Un delegato sindacale afferma: «il problema principale per il sindacato è il turnover lavorativo dei lavoratori migranti e dei cechi perché il lavoro è molto ripetitivo e veloce. Il turnover annuale è intorno al 20%, ci sono almeno 30 persone che vengono assunte ogni mese». In realtà il turnover è difficile da stimare: il numero di lavoratori è connesso strettamente alle esigenze produttive sicché i lavoratori interinali possono essere rispediti a casa quando il lavoro cala: «a metà agosto hanno mandato a casa 300 rumeni perché non c’era più lavoro», ci racconta Marius. Il ruolo del sindacato rimane marginale e non solo per i bassi livelli di sindacalizzazione – 250-300 iscritti a Pardubice e meno di 100 Kutna Hora – ma specialmente per il fatto che esso si preoccupa solamente dei dipendenti diretti: «non abbiamo accesso ai lavoratori migranti anche perché non parlano ceco… noi non ci occupiamo dei permessi di soggiorno perché c’è un lavoratore della Foxconn che si occupa di queste pratiche burocratiche». Eppure l’ufficio del sindacato, al piano terra di una delle palazzine della Foxconn, è adiacente alla più importante agenzia di reclutamento, la Xawax. Non a caso, le lamentele dei lavoratori interinali vengono raccolte pressoché esclusivamente dalle associazione e organizzazioni solidali con i migranti. L’esclusione di fatto dei lavoratori migranti interinali rende incerto il ruolo futuro dei sindacati visto che, come ci spiega un ex-lavoratore da poco licenziato: «Alla fine in produzione c’erano solo lavoratori interinali». Un sintomo che può fare tendenza e che forse, in altri paesi europei, occorrerebbe considerare con crescente attenzione.

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