Pubblichiamo la corrispondenza di Valentina Longo, che sta vivendo direttamente ciò che sta succedendo in questi giorni a Madrid. Emerge un quadro complesso e difficile da interpretare, che proprio per questo vale la pena guardare.
Sono giorni piovosi a Madrid e lo scontento è generalizzato. La scorsa settimana le manifestazioni si sono moltiplicate dopo che il 25 settembre venticinquemila persone, un numero consistente rispetto alle consuetudini spagnole, avevano cercato simbolicamente di «accerchiare il parlamento», mettendo a nudo la scarsa legittimità del sistema politico e occupando la piazza contro un insieme di riforme prodotte a ritmo serrato dal governo del primo ministro Rajoy, che sta mettendo sul lastrico la popolazione secondo una strategia già vista all’opera negli altri paesi mediterranei.
L’attacco portato a lavoratrici e lavoratori europei attraverso la crisi sta colpendo in particolare i paesi dell’Europa mediterranea. In Grecia, Italia, Portogallo e Spagna la classe politica al governo garantisce la continuità di profitti e rendite anche in tempi di recessione. Diversamente dall’Italia, paese che sembra narcotizzato dalle burocrazie sindacali e di partiti di sinistra, la Grecia, il Portogallo e la Spagna si stanno mobilitando contro una classe politica ormai largamente delegittimata. L’ultima settimana di settembre, allo sciopero generale greco e portoghese hanno risposto manifestazioni quasi quotidiane in Spagna. Cittadine e cittadini si sentono in balia di un governo che continua a obbedire agli ordini dei potentati finanziari, invece che difendere gli interessi della popolazione. Una sorta di accumulazione primitiva fatta di tagli allo Stato sociale, educazione e sanità in primis, riduzione di diritti legati al lavoro e di mantenimento dei livelli di profitto e rendita. In questo processo è stato inevitabile per il governo mettere in campo una strategia di criminalizzazione dei movimenti.
Il 25 settembre ad assediare Madrid vi erano 1.500 poliziotti che bloccavano in particolare le strade circostanti il parlamento. La trama è nota, non solo in Spagna: dopo un inizio pacifico della manifestazione scattano le cariche dei poliziotti, i colpi dei fucili che sparano pallottole di gomma risuonano per tutta l’area, i manifestanti tentano di uscire precipitosamente dalla piazza, frastornati e impauriti. È una sensazione di incredulità e di rabbia analoga a quanto in molti abbiamo provato più di dieci anni fa a Genova, anche se fortunatamente in tono minore. Il vento è cambiato in Spagna: il partito socialista di Zapatero non era certo migliore dell’attuale, ma evitava di arrivare a questo livello di violenza. Il 25 settembre si è invece concluso con una caccia al manifestante. Le premesse, d’altro canto, c’erano tutte: Mercedes de Cospedal, la segretaria generale del Partido Popular, comparava la manifestazione a un colpo di Stato, esasperandone i toni. Nei giorni precedenti l’arresto di alcuni promotori della manifestazione e lo sgombero del centro sociale Casablanca, uno dei principali luoghi di riunione del movimento madrilista, erano chiari segnali della strategia governativa atta a creare un clima teso e di paura.
Non a caso, uno degli slogan del 15M è sin miedo. Ma durante il 25 settembre, una volta dissolta la manifestazione a suon di cariche, le auto della polizia sfrecciavano nel Paseo del Prado, da dove i manifestanti stavano defluendo, seguite da poliziotti che distribuivano manganellate a chiunque incontrassero sul loro cammino. In altre parti della città non sono mancate intimidazioni e percosse all’indirizzo di qualche manifestante o semplice passante. Ma la solidarietà, anche da parte di chi ha votato il Partido Popular al governo, non si è fatta attendere, come quella di un anonimo barista – le cui immagini hanno fatto il giro del web – che si è opposto all’entrata nel suo locale dei poliziotti in assetto antisommossa che volevano rincorrere qualche manifestante rifugiatosi nel bar.
All’evidente volontà del governo di bloccare il movimento di protesta, si sommano perplessità sulla praticabilità e l’incidenza politica di forme di lotta come le grandi manifestazioni di piazza. Il segno distintivo del movimento, cioè l’occupazione dello spazio pubblico, deve ora trovare altre espressioni. Il giorno seguente, il 26 settembre, nonostante la paura e il clima teso, l’appuntamento in piazza Nettuno viene confermato: non casualmente esso coincide con lo sciopero generale greco. Alle 19.00 la piazza è ancora aperta al traffico e i manifestanti occupano solo un esiguo spazio. Le persone arrivano però alla spicciolata e dopo una mezzora il concentramento si allarga, prendendo l’intera piazza. Nel frattempo giunge il corteo, programmato da tempo, dei sindacati minoritari (Cgt e Cnt, tra gli altri) che stanno sostenendo lo sciopero generale indetto nei paesi baschi e nella regione della Navarra contro la riforma del lavoro, i tagli e il cosiddetto «patto sociale». In quel momento l’età media si alza e ricompare quell’arcipelago sceso unitamente in piazza a luglio, quando il movimento 15M stava ampliando le alleanze, articolandosi con i pensionati, gli impiegati pubblici e della sanità, gli insegnanti, cioè tutti quei soggetti confluiti insieme, a partire dalla manifestazione a sostegno dei minatori a Madrid.
Sabato 29 di settembre si rinnova l’appuntamento in piazza, a cui si sommano altre 30 città spagnole e che coincide con la manifestazione di Lisbona verso il parlamento portoghese, appuntamento che segue la marcia moltitudinaria del 15 di settembre. Mentre in piazza si rivendicano le dimissioni del governo e l’apertura di un processo costituente, arriva la notizia dell’imminente approvazione della legge finanziaria che prevede ulteriori tagli, non ancora dettagliati, e dei 39 miliardi di euro che la Spagna dovrà versare come interessi sul debito, cifra che supera di quasi 10 miliardi quella del 2012. La manifestazione trascorre tranquilla, con migliaia di persone. Tuttavia come nei precedenti appuntamenti, la polizia continua a malmenare presunti manifestanti e a intimidire quanti si fermano nei bar una volta dissolta la concentrazione.
Le mobilitazioni che ruotano intorno al 25S rivendicano la dimissione in blocco del governo e l’apertura di un processo costituente. I primi slogan che circolavano alcuni mesi fa erano del tono: «prendi il parlamento» e «occupa il parlamento»; successivamente, l’impraticabilità di tale proposta ha trasformato le parole d’ordine in più modesti: «accerchia il parlamento» e «riscatta la democrazia». Il progressivo mutamento di parole d’ordine riflette il percorso tortuoso di un appuntamento che è andato profilandosi all’inizio dell’estate: promosso inizialmente dalla piattaforma En pie, in un secondo momento adotta le pratiche dell’orizzontalità e del consenso, basi fondamentali del 15M così come del Coordinamento 25S, in cui è confluita anche la piattaforma. Molti gruppi che afferiscono al movimento hanno però preso le distanze dalla convocazione e dalle pratiche organizzative su cui si è fondata, mentre altri ne hanno rifiutato i contenuti, ritenuti vaghi e improbabili. L’assemblearismo del 15M ha limiti evidenti: le riunioni sono lunghissime perché le decisioni si prendono sulla base del consenso e quindi in modo estremamente lento, mentre la militanza 24 ore al giorno comporta chiari problemi di conciliazione. I limiti fisici e politici dell’assemblearismo diventano manifesti quando si guarda alla composizione sociale delle assemblee del movimento: dove sono le e i migranti, per esempio? Se in alcune piattaforme, come quella contro gli sfratti, vi è una presenza importante, nelle assemblee generali la loro quasi totale assenza chiama l’attenzione. D’altra parte l’avanguardismo – che il 15M pareva aver superato – è una scorciatoia difficilmente percorribile. Nel caso del 25S, inoltre, sembra che si stia confondendo la capacità di mobilitazione con quella organizzativa: oggi sembra difficile motivare lavoratrici e lavoratori a lotte prolungate in cui servono interventi organizzati con molta cura e che non sempre dipendono dalla capacità di convocare manifestazioni.
Nonostante le incerte premesse per quanto riguarda sia la partecipazione sia la reazione dello Stato, le manifestazioni di questi giorni, a partire da quella del 25 di settembre, sono state massicce, così come ampio è stato l’appoggio di chi in piazza non è sceso, ma che si è trovato coinvolto, suo malgrado, nella barbarie perpetrata dalla polizia. Le giornate intorno al 25S segnano il passaggio da un generico richiamo alla battaglia finale – proposta iniziale della manifestazione – all’impulso per un cambio strutturale nella consapevolezza che si tratta di un processo lento e da inventare giorno dopo giorno. Intanto qui a Madrid l’appuntamento intorno al Parlamento è rinnovato per quando si discuterà la prossima legge finanziaria. Dopo tre giornate (il 25, 26 e 29 settembre) di intense manifestazioni, i nuovi tagli che pesano su una popolazione già fortemente colpita dalle politiche del Partido Popular delegittimano ancora di più il governo di Mariano Rajoy. Il movimento dovrà però saper costruire nuove pratiche e rivedere le proprie modalità organizzative; un percorso che è in parte già iniziato e che mostra una volontà indiscutibile di continuare. E, speriamo, esso sappia coniugarsi con i movimenti greci e portoghesi. Oltre che italiani.