Che strumento è oggi il sindacato? Abbiamo posto questa domanda a compagne e compagni che lavorano da anni nel sindacato, confederale e di base, impegnati in prima linea nelle lotte e, soprattutto, ostinatamente convinti che sia più che mai urgente discutere i problemi che attraversano il sindacato come strumento di organizzazione di lavoratrici e lavoratori. Un punto condiviso ci sembra emergere con chiarezza: se del sindacato oggi non possiamo farne a meno, dobbiamo poter fare una critica radicale della sua forma politica. Dalle interviste fatte nascono allora questi Appunti, che ruotano intorno a tre nodi politici fondamentali: come è cambiato il lavoro dentro il sindacato e il suo legame con i luoghi di lavoro; il sindacato di fronte al razzismo e alle lotte dei migranti; le possibili convergenze del lavoro vivo.
Pubblichiamo qui il primo intervento “Il lavoro nel sindacato” che guarda alle tensioni tra come si lavora dentro il sindacato e il modo in cui il lavoro e il suo antagonismo vengono rappresentati e governati dal sindacato stesso. Dalle interviste emerge il problema di una forma di organizzazione sindacale che appare sempre più integrata nella riproduzione sociale e nel governo della forza lavoro, e che per questo risulta sempre più separata dalla possibilità del conflitto di classe, al di là dell’impegno militante di compagne e compagni che fanno quotidianamente sindacato, della diversa impronta che singoli e singole danno all’azione sindacale, e delle risposte evidentemente molto diverse che caratterizzano i sindacati confederali e di base. La pretesa sempre più marcata del sindacato confederale di avere voce in capitolo sulle politiche industriali, anche a livello europeo, è la faccia più evidente di questa trasformazione.
Non si tratta allora di suggerire forme alternative di “sindacato sociale”, o di immaginare pratiche mutualistiche che vadano in suo soccorso, perché la forma del sindacato è già di fatto “sociale”. I processi di aziendalizzazione ne hanno riorientato la funzione nella direzione della gestione e conservazione dell’esistente, cioè della garanzia del rapporto di capitale. Una critica alla forma sindacato deve allora partire dalla critica delle sue trasformazioni oggettive e dalla sua costitutiva incapacità di organizzare i movimenti indisciplinati di precari, operai, donne e migranti.
Il sindacato fuori dal conflitto
Lo sciopero generale dell’autunno scorso ha mostrato il problema politico che attraversa il rapporto tra i movimenti del lavoro vivo e le trasformazioni delle sue tradizionali forme organizzative. D’altronde chi, come Maurizio Landini, auspicava che potesse essere il punto di partenza di una “rivolta sociale” contro il governo Meloni ha dovuto ridimensionare significativamente le proprie aspettative. Nonostante le manifestazioni siano state partecipate e abbiano mostrato la volontà di opposizione sociale, lo sciopero non è riuscito a incidere sulle scelte del governo, né a cambiare i rapporti di forza in campo, né successivamente CGIL e UIL sono riuscite a dare continuità alla mobilitazione.
Lo sciopero generale – non diversamente dalle consuete date autunnali del sindacalismo di base – ha mostrato semmai tutta la difficoltà che la forma sindacato incontra nel tentativo di organizzare le istanze di precari, operai, donne e migranti che quotidianamente lottano contro un presente di povertà, sfruttamento e oppressione reso ancora più violento dagli effetti della guerra e del militarismo. Se da una parte abbiamo assistito a una mobilitazione significativa, sia per i numeri sia per le molteplici figure del lavoro che l’hanno attraversata, lo sciopero dello scorso autunno indica in modo evidente come la forma sindacato sia oggi – dentro un processo di più lungo corso – svuotata della sua capacità di organizzare lavoratrici e lavoratori.
Le interviste che abbiamo fatto a funzionari, delegati, compagne e compagni di diversi sindacati, operanti specialmente nel settore privato, mostrano la frattura nel rapporto tra la struttura sindacale e la condizione materiale di sfruttamento di lavoratrici e lavoratori. Per questo il sindacato fatica a organizzare e rappresentare il lavoro o anche soltanto a praticare una comunicazione e discussione su come agisce il comando capitalistico e su che cosa significhi organizzare la lotta di classe oggi. L’antagonismo tra capitale e lavoro però non è scomparso, se non nelle segreterie sindacali confederali sempre più impegnate a far fronte al calo degli iscritti, al reclutamento e alla professionalizzazione dei funzionari, alla gestione dei servizi offerti e alle risorse economiche.
Il sindacato è sempre più aziendalizzato, cioè impegnato a riprodurre sé stesso governando una forza lavoro frammentata e continuamente in movimento alla ricerca di condizioni migliori di vita e lavoro. L’antagonismo continua, dunque, a muovere il lavoro, ma si presenta nella forma irrappresentabile di comportamenti singolari – migrazione e mobilità, indisponibilità a determinati tempi e modalità di lavoro, o alle condizioni della riproduzione sociale – che nella prospettiva sindacale sono ridotti a un problema culturale di “individualizzazione della visione del lavoro e della vita”.
Se non ci si vuole accontentare delle letture arrendevoli, e troppo spesso di comodo, per cui ormai i comportamenti di lavoratrici e lavoratori sono dettati dal trionfo dell’individualismo o dall’egoismo nella società neoliberale, bisogna guardare a che cosa è cambiato nella possibilità per lavoratrici e lavoratori di praticare anche forme collettive di rifiuto dello sfruttamento e dell’oppressione. Il riferimento all’individualismo per giustificare l’incapacità del sindacato di costruire organizzazione non convince. Siamo semmai di fronte a comportamenti soggettivi certamente nuovi, ma che continuano a esprimere un rifiuto dello sfruttamento che non intende quietarsi, nonostante le difficoltà del sindacato a intercettarlo.
Negli ultimi anni, d’altra parte, lo sciopero ha assunto un significato diverso, non riducibile nella tradizionale dimensione vertenziale del sindacato. I movimenti femministi ed ecologisti ne hanno reclamato il potenziale politico per opporsi a condizioni complessive di violenza, disuguaglianza, devastazione e sfruttamento oltre i posti di lavoro. Sciopero è stato anche lo strumento con cui, nella logistica come nell’agricoltura, è emersa una forza collettiva del lavoro migrante che, per quanto intermittente, ha aggredito il legame strutturale tra sfruttamento e razzismo. Durante la pandemia, gli scioperi nelle fabbriche e nei magazzini della logistica hanno segnato “un momento di autonomia” contro gli stessi sindacati per rifiutare la coazione al lavoro imposto come sacrificio della vita e della sicurezza in nome del profitto.
“Sciopero” è stata insomma la parola d’ordine che, sottratta all’azione sindacale o imposta a un sindacato riluttante, ha permesso da diverse posizioni sociali di organizzare collettivamente il rifiuto individuale delle condizioni complessive di sfruttamento e oppressione. Nonostante il suo andamento carsico, questo movimento dello sciopero ha mostrato praticamente non solo la difficoltà o indisponibilità del sindacato a far valere lo sciopero sul terreno della produzione, ma anche la sua incapacità di rappresentare il lavoro a fronte delle differenze che lo segnano tra produzione e riproduzione sociale.
Per lungo tempo – per dirla con Rosa Luxemburg – il sindacato è stato la “prima tattica operaia”. Questa formula ha indicato un persistente comportamento operaio che ha utilizzato il sindacato per ottenere risultati immediati. Oggi, tuttavia, non pare più corrispondere a una realtà del lavoro segnata dal completo “sfilacciamento della capacità del sindacato di rappresentare quello di cui i lavoratori hanno bisogno”. È allora nelle trasformazioni oggettive della forma sindacato che bisogna innanzitutto ricercare le cause di questa incapacità. Non siamo infatti di fronte a un vuoto sindacale. Emerge semmai un sindacato radicalmente diverso che, almeno nella sua forma confederale, è integrato nella produzione e nella riproduzione sociale. Mentre dinamiche aziendali di comando pervadono la sua struttura, il sindacato abbandona definitivamente il luogo di lavoro come terreno di conflitto, mettendo a regime una logica istituzionale e amministrativa del compromesso che accetta e riproduce un livello più o meno “tollerabile” di precarietà, sfruttamento e oppressione sempre più inaccettabili per chi li vive.
Il sindacato come professione
“I sindacalisti non discutono sui posti di lavoro, si segue la linea politica che arriva dall’alto, perché non puoi farti vedere diviso e perché il governo non ci mette niente a tagliarti i finanziamenti”. Il sindacato è descritto dai funzionari che ci lavorano come una struttura che non fa più i conti con il soggetto che ne ha storicamente determinato il senso, e che per questo non riesce ad aggredire i rapporti di forza nella produzione. L’intervento sindacale, comunque praticato contro le forme più gravi di sfruttamento, non affronta la separazione persistente tra strutture organizzative e lavoro vivo, presentandosi semmai come un tentativo di rendere più accettabile il comando sul lavoro. La fine della centralità del conflitto e l’incapacità di rappresentare il lavoro vivo vanno quindi inscritte in una trasformazione sostanziale nella quale il sindacato agisce innanzitutto per la sua riproduzione.
In questa direzione si collocano i processi di aziendalizzazione del sindacato e il ruolo professionale che i funzionari hanno assunto anche nel rapporto con delegati, lavoratori e lavoratrici, segnato dallo svuotamento di discorso politico. Il lavoro dentro al sindacato è frammentato, standardizzato e finisce per rispecchiare fedelmente il lavoro precario contemporaneo. Gli stessi funzionari, che si ritrovano davanti a figure del lavoro con problemi sempre più complessi e richieste sempre più diversificate, sono precari. Sempre più privi di una formazione o esperienza politica alle spalle, essi diventano professionisti di un mestiere burocratico e amministrativo, separato dalla specificità del posto di lavoro e dalle lotte.
Se, come emerge da diverse interviste, sempre meno lavoratori e lavoratrici vogliono fare i sindacalisti, il reclutamento dei funzionari non avviene più all’interno dei luoghi di lavoro. Esso non è più l’esito di un processo di politicizzazione e di formazione politica costruito attraverso le lotte sul lavoro. I nuovi funzionari sindacali provengono il più delle volte dall’università o da centri studi legati agli stessi sindacati, in cui la componente ideologica, quando c’è, non è accompagnata dall’esperienza diretta nei luoghi di lavoro. Ne consegue la perdita della conoscenza tanto dei processi produttivi, che pure è essenziale per rappresentare il lavoro vivo, quanto delle pratiche di lotta. Dal momento che il sindacato è esso stesso datore di lavoro e che non c’è, per il funzionario, un posto di lavoro in cui tornare, la professionalizzazione dei funzionari e la loro separazione dai luoghi di lavoro rendono i sindacalisti ricattabili dalle dirigenze sindacali.
Opporsi alla linea della segreteria diventa, talvolta, un lusso che i sindacalisti senza un rapporto continuo e diretto con lavoratori e lavoratrici non possono permettersi: “le epurazioni le fanno giorno dopo giorno, nel senso che chi non è allineato al gran capo oggi lo fanno fuori molto velocemente e ti fanno capire che non sei più parte del progetto”. Dove i rapporti tra funzionari e lavoratori e lavoratrici sono più stretti si arriva al paradosso per cui i funzionari tentano di contrattare con i dirigenti sulla base del numero di iscritti che possono vantare: “porto iscritti ma te ne porto anche via se mi metti alle strette”. Il cambio di casacca, talvolta un vero e proprio salto della quaglia, è frutto di un rapporto di “potere, che è un potere contrattuale anche dentro le federazioni sindacali”, nel quale è sempre più marcato lo scollamento tra il vertice delle segreterie e i delegati nei luoghi di lavoro.
Il rapporto dentro il sindacato diviene così sempre più individualizzato. Anche quando sono i delegati a essere reclutati come sindacalisti, gli accorpamenti settoriali e i frequenti spostamenti da un settore all’altro dei funzionari impediscono loro di sviluppare una conoscenza approfondita del settore in cui dovrebbero agire. In questa professionalizzazione del lavoro nel sindacato, “meno i delegati sanno, meglio il funzionario riesce ad agire, a condizionare, a far seguire le cose come preferisce farle andare”. Il compito del sindacato di organizzare il lavoro diventa così sempre più difficile, perché la comunicazione politica tra lavoratrici, lavoratori e delegati è continuamente mediata, quando non esplicitamente ostacolata, da funzionari di professione.
Questi garantiscono la riproduzione di linee politiche locali, regionali e nazionali che vengono applicate a prescindere dal contesto, sempre secondo un’ottica di mediazione del conflitto. Come emerge dalle parole di un sindacalista, infatti, “prima o poi sposteranno anche me in un settore diverso perché nella mia azienda, che per ora mi paga, si aspettavano più accondiscendenza e meno problemi, invece si rischia il contrario”. I funzionari in distacco, quindi, si trovano in una posizione ambigua: non possono farsi carico delle istanze di lotta di lavoratrici e lavoratori se queste entrano in contrasto con i vertici del sindacato o se il conflitto con l’impresa diventa eccessivo. Questo mostra una forte integrazione del sindacato nelle aziende, al punto che in alcuni casi i padroni possono scegliere con quale sindacato avere a che fare, fino a includere la tessera sindacale nel contratto stesso di lavoro.
Centralizzazione e verticalizzazione delle decisioni accompagnano così un sindacato sempre più orientato alla riproduzione delle sue strutture, rendendolo sempre meno capace di conflitto.
Azienda della riproduzione
Un elemento centrale di questo processo di aziendalizzazione del sindacato è la sua attenzione quasi esclusiva alla riproduzione della forza lavoro fuori dal terreno della produzione. Si tratta, in altri termini, dell’abbandono del campo politico dell’organizzazione del lavoro e del salario, ovvero della quantità e qualità di lavoro che esso paga per lo sforzo richiesto.
Da anni ormai il principale approccio di lavoratrici e lavoratori al sindacato avviene tramite la richiesta di servizi: dai CAF e patronati ai fondi pensione e alle consulenze medico-legali, sino al permesso di soggiorno e alle questioni abitative per i migranti. Mentre questi servizi garantiscono entrate economiche sempre più esigue – soprattutto per i sindacati di base – la loro erogazione ridefinisce il senso e la funzione del sindacato stesso che di fatto passa gran parte del tempo a “sbrigare queste pratiche” in cambio di ritenute sindacali sulle pensioni e sulle buste paga, sempre più misere anche per i confederali.
La privatizzazione e la finanziarizzazione del welfare, insieme allo spacchettamento delle prestazioni sociali, ha trasformato il rapporto tra sindacati e lavoratori e lavoratrici in un rapporto di mercato. Ci si rivolge al sindacato per ottenere servizi amministrativi e burocratici, prodotti finanziari, o, nel migliore dei casi, per rivendicare la titolarità di qualche diritto individuale aumentando divisioni. Tutto ciò finisce non solo per sostituire la prospettiva della lotta sul salario, vanificando la possibilità di costruire forza dentro il rapporto di capitale, ma anche per assecondare quel processo di frammentazione che ha indebolito la capacità di organizzare lotte collettive nella riproduzione sociale: “più frammenti la società e più togli delle risorse per avere il servizio universale che può essere la pensione, la sanità, qualsiasi altro elemento avanzato in queste contrattazioni”.
Il welfare aziendale, incentivato spesso dagli stessi sindacati, è stato la strada con cui lavoratrici e lavoratori sono diventati semplici individui, titolari di specifiche prestazioni a seconda della posizione ricoperta dentro una specifica impresa o uno specifico settore. Tanto il welfare aziendale, quanto altre forme di integrazione del salario come bonus, premi di produttività e voucher permettono infatti di aggirare la questione della misura del prodotto sociale espropriato alla forza lavoro.
È proprio questa aziendalizzazione del sindacato, fattosi mero erogatore di servizi, a produrre una risposta individualizzata, anziché collettiva, al problema del miglioramento delle condizioni di vita e lavoro. Il sindacato agisce oggi in concerto con le varie parti sociali per assicurare una riproduzione sociale individualizzata. Questa dinamica raggiunge il suo culmine nella cosiddetta ‘contrattazione sociale’, attraverso la quale il sindacato si accorda con i comuni, per esempio, per la gestione di servizi e agevolazioni per i pensionati o diventa esso stesso imprenditore, assumendo la gestione di progetti di accoglienza per migranti. Non stupisce allora che “chi si rivolge oggi al sindacato dal punto di vista dell’iscrizione nel luogo di lavoro sono pochissimi, cioè o si iscrivono perché hanno bisogno, oppure si tratta di lavoratori consolidati, over 50”.
Possiamo cogliere la cifra di questa trasformazione nel rapporto tra sindacato e lavoratrici e lavoratori migranti. In questo caso, infatti, i sindacati erogano “non solo servizi, supporto per i rinnovi di permessi di soggiorno, ricongiungimenti”, ma sono diventati veri e propri agenti di sostegno e assistenza per l’accoglienza: “dalla ricerca della casa a problemi legati alle bollette, all’affitto, quindi tutto quello che li riguarda, attraverso le nostre associazioni”, tutto tranne l’organizzazione del lavoro, le sue condizioni e il salario che lo comanda.
Il sindacato diventa così una struttura volta a garantire la riproduzione individualizzata, ma complessiva della società capitalistica: da un lato assicura che le condizioni materiali di lavoratrici e lavoratori non scendano al di sotto della soglia di sussistenza, dall’altro disattiva ideologicamente qualsiasi processo organizzativo sul terreno della produzione. Questo risulta evidente anche se guardiamo al modo in cui i sindacati hanno risposto alla riorganizzazione transnazionale del capitale, cioè attraverso l’istituzione dei Comitati Aziendali Europei (CAE), organi di rappresentanza del lavoro a livello europeo. Di fronte a imprese multinazionali che sfruttano i differenziali politici e salariali tra Stati, i CAE non sono solo un’arma “inutile” in mano a sindacati impegnati a riprodurre le proprie strutture nazionali, ma replicano a livello transnazionale gli stessi processi di aziendalizzazione e professionalizzazione secondo la logica istituzionale e amministrativa che stratifica e frammenta la forza lavoro. Sono organi attraverso cui le segreterie scambiano informazioni sulle politiche industriali e sociali europee, non strumento della comunicazione transnazionale tra lavoratori e lavoratrici. Così, per il sindacato, “la questione internazionale che prima era solidarietà, adesso è politica, politica industriale”.
L’impossibilità della rappresentanza
Il rapporto tra sindacato e iscritti è allora cambiato drasticamente. La competizione tra sindacati per accedere a quote di rappresentanza sindacale non si basa più sulle capacità di garantire un maggior potere di contrattazione nel rapporto salariale. Poiché oggi le tessere si fanno soprattutto attraverso l’erogazione di servizi, i numeri risultano gonfiati rispetto alla reale presa del sindacato nei luoghi di lavoro e si traducono nel mantenimento di posizioni di forza fittizie. Ma è la rappresentatività stessa del sindacato a cambiare: presentandosi come interfaccia per fare valere prestazioni individuali, il sindacato diventa strumento di governo di una forza lavoro frammentata.
La competizione tra sindacati per acquisire nuovi iscritti produce infatti una corsa alla riduzione dei tempi di attesa per l’erogazione delle prestazioni, secondo un criterio di efficienza ulteriormente incentivato dalla competizione con agenzie private e studi legali specializzati nelle pratiche di malattia professionale, infortunio o invalidità. In questo modo viene meno la possibilità di organizzare lotte orientate alla costruzione di una forza collettiva capace di trasformare i rapporti sociali dentro i luoghi di lavoro. L’azione sindacale rimane infatti schiacciata sulla risoluzione di problemi immediati e individuali, secondo tempi sempre più brevi che rispondono alle logiche di mercato delle prestazioni sociali.
Se l’aziendalizzazione del sindacato è anche la risposta più immediata alla precarietà e all’alto turnover di un lavoro in costante movimento, nelle imprese di più ampia dimensione i possibili miglioramenti delle condizioni di lavoro sono lasciati alla contrattazione di secondo livello, cioè agli accordi a livello aziendale o territoriale che, a loro volta, consolidano ulteriormente la divisione e stratificazione del lavoro. La contrattazione di secondo livello riguarda soprattutto il nord Italia, le grandi aziende, il settore manifatturiero, il settore pubblico e quello dei servizi, dove i sindacati hanno già una posizione di forza. Essa è stata poi il modo di affidare alle aziende la possibilità di determinare le condizioni di messa al lavoro delle donne, come mostrano gli accordi sulle misure di conciliazione lavoro-vita privata e la tutela della maternità, che si limitano a compensare con servizi e welfare, senza contestarla, la divisione sessuale del lavoro, lasciando di fatto intatte le condizioni che determinano le differenze salariali tra uomini e donne.
Anche dove si sono ottenute stabilizzazioni delle posizioni lavorative tramite l’internalizzazione, questo non ha risolto l’impossibilità del sindacato di organizzare in forma continuativa il lavoro precario. Se il lungo ciclo di lotte della logistica ha prodotto accordi nazionali migliorativi, le recenti internalizzazioni delle multinazionali della logistica mirano a normalizzare i rapporti sindacali depotenziando la forza accumulata dai sindacati di base. Tutto questo, infatti, “ha consentito di omogeneizzare le condizioni anche creando una forma di relazioni sindacali basate su un principio di lealtà, ma se si fa un accordo migliorativo è chiaro che poi nei rapporti all’interno dei posti di lavoro c’è meno conflittualità”.
L’omogeneizzazione delle condizioni nella logistica attraverso l’internalizzazione ha significato un drastico ridimensionamento del conflitto sindacale e la marcata tendenza a marginalizzare i sindacati di base: dal padronato della cooperativa costretto a rispondere ai blocchi dei lavoratori in sciopero si è passati alla struttura complessa delle aziende multinazionali che possono aggirare le richieste dei lavoratori decidendo con quali sindacati interfacciarsi e contrattare le normali condizioni di sfruttamento.
Il sindacato diventa allora tanto lo strumento con cui lavoratrici e lavoratori continuano a strappare una posizione di vantaggio nel breve e medio periodo, facendo della mobilità sul lavoro e di quella tra sindacati anche una tattica contro il sindacato stesso, quanto il limite oggettivo nella possibilità di accumulare forza. Attraverso l’internalizzazione il comando del capitale prova, infatti, a rimettere in riga la riottosità di lavoratrici e lavoratori che erano riusciti a interrompere i flussi delle merci. Il ritorno al normale sfruttamento, grazie al superamento dei subappalti e alle assunzioni con regolare contratto a tempo indeterminato alle dipendenze di multinazionali, produce paradossalmente l’ingabbiamento della capacità operaia di forzare continuamente la contrattazione collettiva. La centralizzazione del comando riorganizza le relazioni industriali, assorbendole dentro il quadro delle cosiddette compatibilità, dove a essere sacrificato è sempre il lavoro vivo.
Individualismo e lavoro vivo
La crisi del sindacato non è quindi imputabile alla cultura del lavoro, né tantomeno a una questione generazionale che toccherebbe i più giovani, privi di un senso collettivo di organizzazione. Non si tratta di una vocazione individualista, figlia dei tempi moderni, che colpisce tutti indistintamente. L’individualismo che denunciano funzionari e delegati si configura piuttosto come reazione allo sfruttamento e alle condizioni di lavoro sempre più precarie, ai bassi salari e all’erosione delle tutele, nonché alle stesse trasformazioni del sindacato e della sua specifica funzione sociale.
La trasformazione del sindacato rispecchia infatti una crisi più generale della contrattazione, della materia stessa su cui esso contratta. La questione salariale – sia come quantità di salario, sia come quantità e qualità del lavoro che si svolge per quel salario – che un tempo era al centro della contrattazione oggi è scomparsa. In un contesto di crescente impoverimento, lo sciopero inteso come astensione dal lavoro diventa un lusso che solo pochi possono permettersi, dal momento che comporta un’ulteriore perdita di salario. L’abbandono della questione salariale da parte dei sindacati, che deriva dalla fine di una contrattazione sull’organizzazione del lavoro e sui rapporti sociali dentro i posti dove questo si svolge, ha prodotto una frattura netta tra sindacato e lavoratori e lavoratrici. Questi hanno reagito in modo autonomo, con un aumento della mobilità, cercando di migliorare individualmente le condizioni di vita e lavoro, magari riuscendo a strappare qualche buonuscita.
In conclusione, prima di continuare questi Appunti con una riflessione sul sindacato di fronte al razzismo e alle lotte dei migranti, e sulle possibili convergenze del lavoro vivo, pensiamo che l’individualismo che il discorso sindacale denuncia possa essere considerato un rifiuto politico tanto dell’organizzazione del comando sul lavoro e delle condizioni salariali, quanto di un sindacato che non ne tiene più conto. Il problema dell’individualismo andrebbe cioè colto nella sua rilevanza politica dal lato di chi è sfruttato.
Esso è infatti espressione di una individualità operaia che risponde a una trasformazione oggettiva del sindacato e che in nessun modo può essere considerata un problema di psicologia del lavoro, come sembra fare oggi un sindacato alla ricerca di rassicurazioni. Un sindacato che, incapace di rappresentare il lavoro, ambisce a governarlo. Di fronte al governo senza rappresentanza del sindacato, operai, precari, migranti e donne oppongono alla propria esistenza di precarietà, sfruttamento e oppressione un movimento costante alla ricerca di un miglioramento autonomo della propria condizione in termini di salario, tempo e intensità del lavoro. Le tracce del loro rifiuto costituiscono allora il problema politico di organizzazione che abbiamo di fronte.