lunedì , 24 Marzo 2025

Un tempo sospeso. Possibilità e limiti delle lotte contro Trump

di FELICE MOMETTI

Non è facile opporsi a Trump quando una decina di senatori democratici, su iniziativa del portavoce Chuck Schumer, sostiene una legge di bilancio che permette alla coppia Trump-Musk di continuare l’assalto alla sanità, all’istruzione e di aumentare di 6 miliardi di dollari le spese militari. Non è stata la prima volta. Già alla fine di gennaio, con Trump appena insediatosi, una quarantina di deputati e dodici senatori democratici non hanno trovato di meglio da fare che votare a favore del Laken Riley Act, prima legge del Trump 2.0, che criminalizza i migranti senza documenti.

Con l’arresto di Mahmoud Khalil, palestinese nato in Siria, da dicembre neolaureato della Columbia University, che lo scorso anno è stato tra gli attivisti più impegnati del Gaza Solidarity Encampment, l’amministrazione Trump vorrebbe operare un salto di qualità non solo nella repressione delle lotte contro i finanziamenti e la vendita di armi allo Stato di Israele ma anche, e soprattutto, dare un segnale forte che il conflitto sociale e politico non è tollerato.

La modalità del suo arresto – senza un mandato e con accuse tanto vaghe da essere modificate in corso d’opera – sono state seguite dal trasferimento veloce in centro di detenzione a migliaia di chilometri di distanza per ostacolare la difesa legale, e dalla revoca della green card – che dovrebbe garantire tutti i diritti costituzionali – appellandosi a una legge del 1952, varata durante il maccartismo e la caccia ai comunisti, che permette al Segretario di Stato, in questo caso Marco Rubio, di espellere anche i titolari di green card se “costituiscono un pericolo o una minaccia alla politica estera degli Stati Uniti”. Un modus operandi che forza sistematicamente le norme in vigore con l’obiettivo di scardinarne l’efficacia, la cui origine è possibile rintracciare nel doppio stato di emergenza sui confini e in campo energetico dichiarato nei primi giorni di insediamento.

La scarsa o nulla opposizione del Congresso alla dichiarazione dello stato di emergenza ha consentito a Trump di riesumare una legge del 1977 che gli dà mano libera nell’imporre o revocare dazi e tariffe facendone un uso politico e un’arma di ricatto. La crisi costituzionale, di cui tanto si parla negli Usa, inizia da lì e sta assumendo i contorni di uno scontro tra il potere esecutivo e quello giudiziario. L’amministrazione Trump sta testando la possibilità di arrivare a un punto di non ritorno nel trasgredire le ingiunzioni dei giudici e delle corti federali sostenendo che “non hanno giurisdizione sulla condotta degli affari esteri del Presidente”.

Il caso di Khalil ma anche quelli della deportazione di 230 migranti venezuelani in Salvador – dietro compenso di 6 milioni di dollari al Presidente di quel paese – invocando l’Aliens Enemies Act, una legge di guerra del 1798, oppure l’espulsione di Rasha Alawieh, cittadina libanese e docente alla Brown University in possesso di un visto valido, non imputata di alcun reato, nonostante un’ordinanza di una Corte federale che ne vietava l’espulsione, fanno parte delle intenzioni dell’attuale ristretta governance trumpiana di saturare e delegittimare l’apparato giudiziario. Pensare, o peggio credere, come sta facendo l’establishment democratico che l’unica strategia di sopravvivenza alla torsione autoritaria trumpiana sia fare affidamento a presunti anticorpi previsti da una Costituzione in gran parte inservibile, oppure aspettare fiduciosi le elezioni di mid-term del novembre 2026, significa perseverare diabolicamente nell’errore di ritenere che Trump sia una parentesi, la seconda, di una democrazia inscalfibile nei suoi valori fondamentali.

Detto nei termini, più prosaici, dei think tank di riferimento democratico che guardano alle trasformazioni del capitalismo contemporaneo: l’amministrazione Trump non può irregimentare la finanziarizzazione del capitale e tanto meno le catene globali del valore e prima o poi ne pagherà il conto. In breve, Trump si sconfigge percorrendo una strada in parte istituzionale e dall’altra facendo affidamento sulle contraddizioni politiche generate dai processi di valorizzazione del capitale.

Non la pensano così le decine di migliaia di persone scese in strada in molte città, dopo l’arresto di Khalil, con blocchi stradali, occupazioni temporanee, che hanno organizzato inoltre una raccolta di oltre 3 milioni di adesioni a una petizione per il suo rilascio. Tuttavia se guardiamo l’ultima settimana a New York, epicentro delle proteste, si ha la sensazione che ci sia un divario evidente tra una formale adesione dell’opinione pubblica e la necessità di dispiegare un conflitto sociale e politico. Dopo una prima risposta significativa il giorno successivo all’arresto, le mobilitazioni hanno coinvolto solo settori, pur importanti, di attivisti, a parte alcuni episodi come l’occupazione dell’atrio principale della Trump Tower per il rilascio di Khalil, con un centinaio di arresti, organizzata dall’associazione ebraica di Jewish Voice for Peace.

La stessa manifestazione sindacale, la prima dell’era Trump 2.0, contro i tagli, i licenziamenti e il rispetto dei diritti democratici, promossa dalla SEIU – sindacato presente soprattutto del settore pubblico – ha visto una discreta partecipazione ma con due assenze significative al di là di una formale adesione. L’AFGE, il sindacato dei dipendenti federali – i più colpiti dalla scure della coppia Trump-Musk – che dichiara 800 mila iscritti su circa 2 milioni di addetti, praticamente non c’era. Ha concentrato la sua azione esclusivamente sui ricorsi legali e si attiene rigorosamente al divieto di sciopero e di picchettare gli uffici federali, divieto che ha sottoscritto ormai decine di anni fa.

L’UAW, sindacato non solo dell’automotive perché più di un quarto dei suoi iscritti sono studenti-lavoratori delle università, non ha partecipato nonostante due giorni prima il presidente della sezione UAW della Columbia University sia stato espulso dal campus con l’accusa di antisemitismo per aver criticato il governo israeliano e partecipato alle proteste. Sembra che si stia vivendo un tempo sospeso: ci sono concrete possibilità per l’affermazione di un movimento di massa contro le politiche dell’amministrazione Trump ma mancano le condizioni e le forme di espressione di una lotta sociale che possa allargarsi e diffondersi.

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