di MATILDE CIOLLI e MARCO MELITI
→ #1: Le ragioni della nostra lotta
Le ragioni della nostra lotta sono legate alla ridefinizione della funzione sociale dell’università e della ricerca, delle trasformazioni che mettono in scacco facili soluzioni. Rifinanziare l’università è fondamentale, ma non possiamo coltivare l’illusione che più soldi e fondi pubblici ci riporterebbero a un passato che non c’è mai stato, ovvero a un tempo in cui l’università era un luogo puro e incontaminato di trasmissione di conoscenza e sapere fuori da logiche politiche e di mercato. Allo stesso modo, non dobbiamo commettere l’errore di considerare la riforma e i tagli come un tentativo di liberarsi dei e delle precarie per espellerli in massa dall’Università. Sebbene molti saranno costretti ad abbandonare l’accademia, magari per entrare nelle fila della pubblica amministrazione, come auspicato dal governo, gli atenei e la loro fitta rete di scambi, collaborazioni e committenze dipendono completamente dal lavoro dei precari e delle precarie, e la precarizzazione ulteriore è un modo per tenerli in piedi.
Tutto ciò è stato reso evidente dal gioco delle parti tra CRUI e ministra seguito all’annuncio di sospensione della riforma. Anche se questa riforma venisse infine ritirata, cosa per la quale ovviamente lottiamo, dovremo comunque confrontarci con una qualche altra misura che confermerebbe la vita precaria degli atenei. Più che chiedere una soluzione che tamponi il danno, dunque, la scommessa deve essere quella di rendere il carattere essenziale – ma spesso invisibile – del nostro lavoro il punto di forza di un processo politico espansivo e incisivo.
La sfida dello sciopero
In questo senso, la costruzione di uno sciopero generale dell’università è per noi una questione aperta ed è la sfida che ci attende nelle prossime settimane. Lo sciopero può essere l’arma per esprimere prima di tutto il rifiuto del destino di precarietà e povertà in cui le misure del governo vorrebbero costringere ricercatrici e ricercatori, chiedendo soluzioni immediate e rivendicando la possibilità di insegnare, fare ricerca e studiare senza subordinare tutto ciò ai vincoli dei finanziamenti a progetto, delle committenze e degli interessi politici. Allo stesso tempo, crediamo che l’attivazione del processo dello sciopero debba mostrarne anche il carattere sociale superando gli steccati dell’università e rendendo chiaro che non è possibile contestare la precarietà del lavoro accademico senza rifiutare al contempo le condizioni sociali, economiche e politiche che la impongono a livello locale e transnazionale.
Per costruire uno sciopero all’altezza di questa sfida non possiamo limitarci a pratiche simboliche, né possiamo ricondurre meccanicamente sotto la voce “sciopero” altre forme di lotta e protesta. Allo stesso tempo, non possiamo ambire a replicare lo sciopero nella sua forma tradizionale di astensione dal lavoro, perché uno sciopero immaginato e messo in pratica dalle e dai precari/e deve riconoscere e confrontarsi con la specificità del lavoro accademico. Come è emerso più volte dalle voci di chi partecipa alle Assemblee, astenersi dal portare a termine alcuni tra i tanti incarichi e consegne di cui si compone il nostro tempo di lavoro rischia di non rompere l’isolamento e l’invisibilità, di danneggiare solamente noi stessi, senza riuscire a rendere visibile ed efficace il nostro rifiuto collettivo.
Lo sciopero generale dell’università deve funzionare come uno strumento nelle mani delle Assemblee precarie per rispondere alla domanda di mobilitazione e lotta che viene dagli atenei, per ampliarla e rafforzarla. Per questo occorre spiazzare i tentativi di limitarne la capacità espansiva pretendendo di lanciare lo sciopero senza nessuna preparazione e senza nessuna considerazione sulla nostra capacità attuale di comunicare con tutti quelli che lavorano nell’università. In più città, infatti, vediamo all’opera chi prova a dirottare il discorso politico delle assemblee sulle proprie istanze particolari, oppure chi si ostina a perseguire la stessa rotta settaria di sempre, o ancora chi prova a occupare lo spazio politico dell’assemblea per ottenere un po’ di visibilità. Questo rischia solo di produrre ulteriore frammentazione, andando nel senso opposto della costruzione di un processo verso lo sciopero.
Sciopero significa fare della precarietà un terreno di lotta comune dove possano riconoscersi e connettersi tutte le figure del lavoro universitario colpite dalla riforma, dai tagli, e dalla guerra: chi studia, insegna o fa ricerca in università, chi negli uffici amministrativi gestisce una mole sempre più ingente di burocrazia, lavoratori e lavoratrici che puliscono i dipartimenti sotto il ricatto di contratti forniti da cooperative in subappalto e che da un giorno all’altro vengono lasciati in strada e licenziati, come recentemente successo alle lavoratrici dei musei di Unibo.
D’altra parte, sarebbe semplicistico credere che l’obiettivo delle Assemblee precarie di organizzare uno sciopero generale dell’università possa essere risolto con un supporto esterno, con la semplice indizione o con la rappresentanza sindacale. Nella foresta di contratti e frammentazione in cui ci muoviamo, non basta proclamare uno sciopero per realizzarlo. La stessa esistenza delle Assemblee precarie come luoghi di organizzazione e lotta evidenzia l’insufficienza dei sindacati, che si è mostrata con massima chiarezza quando la CGIL, a Bologna come a Torino, ha rifiutato di farci parlare dal palco dello sciopero del 29 novembre.
Prendere sul serio questa spinta vuol dire anche riconoscere che lo sciopero come arma politica non può ridursi al supporto di un tavolo di contrattazione o di una piattaforma vertenziale. Più fondi pubblici e piani straordinari possono sicuramente tamponare una situazione ormai diventata insostenibile ed è auspicabile che offrano una boccata d’aria a precari e precarie. Tuttavia, mentre rischiano di lasciare indietro una parte di loro, essi non possono soddisfare la nostra pretesa di una ricerca e di una didattica stabilmente ricche. La precarietà dei ricercatori e delle ricercatrici non è una situazione provvisoria che si può risolvere con un rifinanziamento una tantum o con reclutamenti straordinari: essa è legata a trasformazioni profonde del lavoro di ricerca che è necessario attaccare, anche perché riproduce una condizione strutturale del lavoro contemporaneo anche fuori dall’università, che la guerra sta contribuendo ad aggravare.
Limitare la costruzione dello sciopero alla ricerca della copertura sindacale o al supporto di una vertenza vorrebbe quindi dire rinunciare all’apertura di nuovi e più efficaci spazi di comunicazione politica fra studenti, studentesse, precari/e, strutturati/e, lavoratrici e lavoratori esternalizzati e in subappalto, ma anche precari e precarie esterne all’università. Solo sfidando la frammentazione delle condizioni del nostro lavoro in università possiamo mostrare la nostra forza collettiva e usarle per incidere sulle trasformazioni in corso. Sono quindi le Assemblee precarie lo spazio su cui scommettere affinché uno sciopero generale dell’università acquisti la forza necessaria per essere un efficace strumento di lotta e rivendicazione politica.