di FELICE MOMETTI
Shock and awe e rapid dominance: annichilire il nemico con un domino rapido. I mezzi, con buona pace di Clausewitz, vanno dalla politica alla guerra ma anche viceversa. A prima vista sembra essere questa la strategia di Trump nelle prime settimane del suo secondo mandato. Il diluvio di ordini esecutivi, di direttive, di memorandum ha il doppio scopo di limitare, in alcuni casi azzerare, l’azione dei centri decisionali dello Stato federale e al tempo stesso stabilire una connessione diretta tra il Presidente e il suo “popolo” mantenendo costantemente l’iniziativa politica e mediatica.
Strategia tentata e fallita da Trump, nei primi mesi del mandato precedente, insieme a Steve Bannon, l’ideologo della “decostruzione dello Stato federale”. Ma allora scontava l’inesperienza politica e la scarsa conoscenza dello Stato profondo insediato nel palazzi di Washington, così si dice. Oggi è diverso. Il governo che si sta formando ha una maggiore coesione interna e una visione unitaria dettata dal Progetto 2025 della Heritage Foundation. Sempre si dice.
A uno sguardo più ravvicinato le cose appaiono meno nitide e definite. La coalizione elettorale che ha eletto Trump ha idee e interessi diversi, piuttosto lontana da assumere la forma ed esprimere la mobilitazione di un blocco sociale. Sommando il trans umanesimo degli oligarchi hi-tech con la devastata America rurale, con alcune sette religiose, l’estrema destra MAGA, gran parte della piccola e media impresa, settori di lavoratori anche sindacalizzati e una generica opinione pubblica razzista e sessista si ha il quadro di una crisi profonda non di un progetto politico. Una crisi della società e della rappresentanza politica che viene da lontano.
Dalla crisi economica-finanziaria del 2008 passando attraverso movimenti come Occupy e la George Floyd rebellion, da una serie di lotte sindacali fino ad arrivare alla pandemia e allo scenario attuale che prefigura una terza guerra mondiale. Trump, essendo il prodotto della crisi e non la causa, per stabilizzare il proprio potere deve proiettare sia all’interno che all’esterno le cause. La lista provvisoria si conosce: Groenlandia, Panama, Cina, Colombia, Messico, Canada e poi il wokismo, le agenzie dello Stato federale, la pluralità dei generi, le dichiarazioni dello stato di emergenza ai confini e nella produzione di energia, le espulsioni di massa dei migranti. Tutto ciò fino a quando e con quali risultati? Per ora, senza avventurarci in difficili previsioni, l’amministrazione Trump, con Elon Musk compreso, deve operare continui stress-test interni e internazionali puntando sul fatto che già l’annuncio produca effetti in tempi brevi.
Sta, purtroppo, funzionando con i migranti senza documenti che temono di essere arrestati per strada. Funziona poco o nulla con la deportazione dei palestinesi da Gaza. Pesano innanzitutto le difficoltà di un’opposizione politica e sociale per non dire di quella istituzionale. Quest’ultima, nella figura del Partito democratico, ha già dato una pessima prova con il voto di 46 deputati e 12 senatori a favore della prima legge della seconda era Trump. Il Laken Riley Act che estende la detenzione obbligatoria di migranti anche solo accusati di furto o taccheggio. Una legge che include anche una disposizione che autorizza i procuratori generali dei singoli stati a citare in giudizio il governo federale sostenendo che i residenti, anche pochi, sono stati danneggiati dalle politiche sull’immigrazione. In poche parole basta essere solo accusati dal droghiere di aver rubato un pacchetto di biscotti per finire in centro di detenzione, o che quattro cittadini del Texas che si sentono danneggiati dai migranti possono fare causa al governo federale.
Non va meglio se si guardano le prese di posizione di alcuni sindacati considerati conflittuali nell’immaginario di una certa sinistra americana. Sean O’Brien, presidente dei Teamsters, dopo che in luglio è intervenuto alla Convention repubblicana, che ha incoronato Trump, sta facendo una forsennata campagna pubblicitaria a favore della Segretaria al Lavoro nominata da The Donald. Il presidente del UAW, principale sindacato dei lavoratori dell’automotive, in una lettera al Washington Post ha dichiarato di essere disponibile a “lavorare” con Trump e favore di “tariffe e dazi aggressivi” nei confronti di Cina, Canada e Messico per salvaguardare diritti e salari degli operai americani e… messicani.
Le manifestazioni di protesta nei giorni dell’insediamento di Trump sono state al di sotto delle aspettative e di qualsiasi confronto con quelle del 2017. In questi ultimi giorni con i blocchi stradali a Los Angeles, Phoenix e in Texas, alcuni picchetti di lavoratori delle agenzie pubbliche che Musk vuole chiudere, con presidi davanti agli ospedali per garantire i diritti delle persone trans non si stanno aspettando le elezioni di medio termine del 2026 per combattere Trump com’è nella testa dell’establishment del Partito Democratico. Con diverse azioni che si sono tenute il 3 febbraio nel nome della “giornata senza immigrati“, spesso simboliche ma che hanno coinvolto anche diverse scuole, è stato evocato lo sciopero dei migranti.
Un altro segnale positivo si è avuto il 5 febbraio, con manifestazioni, presidi, cortei non autorizzati in un’ottantina di città convocate sui social media dal Movement 50501, che si definisce di base e decentrato, e dalla rete appena nata Build the Resistance. Decine di migliaia di persone che hanno bloccato strade, protestato davanti a sedi di governo e di multinazionali. Certo, segnali ancora piccoli che però mostrano che la posta in gioco è soprattutto a livello sociale e politico prima che elettorale e istituzionale.