di GIORGIO GRAPPI
Ripubblichiamo dal sito congiunturadiguerra.blog la trascrizione dell’intervento di Giorgio Grappi al seminario ‘Guerra nell’età ibrida. Caos sistemico, zone grigie, connettività’ che si è tenuto a Bologna il 5 novembre con la partecipazione di Sandro Mezzadra, Damiano Palano, Cristina Basili, Giorgio Grappi e Maurilio Pirone. Il seminario fa parte del ciclo ‘Una Congiuntura di Guerra’. Sul sito dedicato al progetto si possono trovare tutti i materiali relativi a questo e agli altri appuntamenti.
Partirei […] provando ad evitare una estetizzazione geopolitica del declino del mondo unipolare, che coinvolge, secondo me, sia la teoria sia una parte dei movimenti sociali, di cui già si è parlato negli interventi che mi hanno preceduto. Partirei dal chiedermi: quale genealogia possiamo vedere del disordine o del multipolarismo di cui stiamo parlando? Penso che per guardare in questa direzione sia necessario guardare all’incrocio tra trasformazioni degli Stati e processi materiali che hanno riguardato la produzione, la formazione della rete del valore, i processi di accumulazione, tra cui anche il ruolo delle infrastrutture e delle connettività già menzionate.
Questi sono tutti terreni sui quali l’azione degli Stati insiste ma che non sono a loro piena disposizione: guardando alla logistica, all’infrastruttura, alla finanza, ai processi di globalizzazione, alle catene produttive e della cura, alla migrazione, alla riproduzione, possiamo sostenere che le tendenze multipolari cui assistiamo appaiono come un effetto politico di questi processi, piuttosto che come azioni pienamente nelle mani degli Stati che le attuano. Si tratta di un tentativo di registrare e ridefinire gli equilibri tra Stati, a partire dai risultati di questi processi, avvenuti negli scorsi decenni. Per dirlo in una battuta: non c’è multipolarismo senza rivoluzione logistica, senza globalizzazione delle supply chains, senza processi di digitalizzazione, senza il ruolo della mobilità.
Questo mi fa dire che non si tratta di un multipolarismo di politiche di potenza, ma di qualcosa di diverso. Questa situazione ci parla di una ridefinizione del rapporto tra Stati e processi di valorizzazione, piuttosto che semplicemente di una ridefinizione dell’ordine internazionale, che comporta anche una ridefinizione interna agli Stati che molto spesso rimane in secondo piano in molte delle analisi che si concentrano sulle relazioni internazionali in particolare. Quindi vale la pena chiedersi: quali sono quegli Stati che fanno della connettività un’arma? Quale forza e capacità di controllo hanno su quei processi? Cosa cambia nelle possibilità di azione e potere degli Stati? Io penso ci siano dei differenziali enormi nelle modalità in cui gli Stati interagiscono con questi processi, e nella possibilità di interferire in questi processi: disequilibri e differenze di potere attribuiscono anche a soggetti sulla carta poco potenti delle carte da giocare all’interno dei conflitti, mentre magari altri più potenti si trovano più condizionati, nel non poter fare del tutto a meno di certi rapporti.
Credo che un modo per guardare a questi processi sia anche domandarsi in che tipo di spazio politico siamo immersi e in che tipo di spazio politico insistono la guerra e questa fase di declino egemonico. Questo spazio politico potremmo definirlo in qualche modo geometrico, mi verrebbe da dire digitale, non nel senso dei processi di digitalizzazione che insistono sui territori ma per il modo in cui il digitale vede lo spazio, attraverso una serie di variabili e parametri piuttosto che un insieme di punti focali e uno sguardo diretto. All’interno di questo spazio politico ci sono spazi operativi – per usare un’espressione che utilizzano anche Sandro Mezzadra e Brett Neilson nel loro ultimo libro –, agglomerati dove si condensano processi particolari.
Un esempio che potremmo fare è quello dell’economia dell’intelligenza artificiale. Recentemente un articolo su Foreign Affairs sottolineava come ci si riferisca spesso all’economia dei dati e all’intelligenza artificiale come a un nuovo petrolio, osservando però che sono gli Stati e non la natura a decidere dove si costruiscono i data center, e che la costruzione dell’infrastruttura per l’intelligenza artificiale è un test geopolitico sia per le aziende che per gli Stati. Allo stesso tempo possiamo vedere come la supply chain della computazione, anche tralasciandone il dato materiale delle materie prime, comprenda architetture complesse e gerarchiche degli spazi, in cui è difficile stabilire una determinante assoluta. Ci sono processi all’interno dello stesso sviluppo dell’IA che richiedono diverse forze computazionali, che sono gestiti da diversi tipi di processori, e sono collocati in diversi spazi territoriali. Il cloud si basa su una territorialità topologica, dispiegata in diverse giurisdizioni. Lehdonvirta parla di cloud empires, che insistono sui territori ma in un qualche modo non sono territoriali, e questi non sono sganciati dai poteri degli stati ma allo stesso tempo non sono neanche necessariamente sovrapponibili. Guardando da questa direzione, i rapporti tra nord e sud del mondo sono intersecati da geografie non equiparabili necessariamente a come intendiamo il nord e il sud globale.
I protagonisti di questa fase, però, non sono solo gli Stati e il capitale, le imprese e i processi produttivi, ma anche i soggetti sociali, che hanno in qualche modo destabilizzato l’ordine della globalizzazione, contribuendo alla connettività da altre prospettive. Penso ai migranti, ai movimenti delle donne, agli scioperi che abbiamo visto attraversare diversi punti delle catene del valore e che hanno spinto anche alla trasformazione delle politiche cinesi o di altre aree del globo: nell’insieme sono comportamenti che si sono scontrati con la pretesa di una valorizzazione ottimizzata e globalizzata.
In questo senso penso che il farsi mondiale della guerra, il suo imporsi come logica dei rapporti sociali, come anche traspare da alcuni elementi delle relazioni precedenti, non è solo una chiamata a combattere i nemici ma anche un modo per gli Stati di imporre sul sociale una volontà economica, irreggimentandone gli spazi, rafforzando gerarchie, stringendo alleanze con pezzi di capitale. La guerra, potremmo dire, è rivolta alla società come principio di ordinamento, ma è anche rivolta ai processi di valorizzazione di cui sposta equilibri, geografie, alimentandone alcuni e sfavorendone altri. Gli elementi ibridi di cui si parlava mi sembra rafforzino entrambe queste dimensioni; forse, tra questi elementi ibridi, possiamo far rientrare la riemersione della dimensione coloniale e razziale, come la vediamo in Palestina e nelle politiche sui migranti, ma anche nei linguaggi utilizzati da alcuni esponenti – da Borrell a Draghi, con l’immagine della giungla che è tornata a circolare. Questa dimensione ibrida si riflette anche nel fatto che la guerra, per quanto estesa, non assume le forme di una mobilitazione di massa: non c’è neanche in Ucraina e in Russia, nonostante lì eserciti di massa stiano combattendo e morendo. Allo stesso modo, l’economia di guerra non è unicamente una economia bellica: si tratta di un’economia spinta dalla guerra ma che non punta necessariamente alla guerra, mentre cerca di raccogliere quelli che un articolo citato dall’ultimo rapporto di Draghi chiama gli intellectual spoils of war, un bottino di guerra intellettuale che riguarda produttività, ricerca, possibilità di trovare nuove forme di valorizzazione.
Tutte queste sono cose che credo possano aiutarci a guardare una tensione produttiva che vediamo, in questa fase particolarmente, tra gli Stati e pezzi di capitale, tra Stati e capitalisti, che sono coinvolti in queste dinamiche di connettività già nominate prima. Gli esempi possono essere tanti, si può pensare a Musk – che è il più visibile e pacchiano –; si può pensare alle modalità diverse con le quali la Cina si intreccia con importanti aziende delle comunicazioni; si può pensare anche al modo in cui il chips Act americano interviene nella filiera dei chips, o alla differenziazione industriale dei chips prodotta dalle tensioni geopolitiche – che non significa arresto, significa che in alcuni luoghi sono utilizzati alcuni chip, in altri luoghi altri. Si può anche osservare come il ruolo della ricerca sia sempre più parte di questa tensione, di questa ridefinizione di rapporti.
Per chiudere con un’ultima battuta: forse più che al decoupling, che ha suscitato tante fascinazioni e che credo descriva alcune cose senza però descrivere un orizzonte necessario, per come è inteso, possiamo pensare ad un’epoca del dual use come principio industriale di valorizzazione, e non esclusivamente militare. Dovremmo provare a guardarlo più dall’angolatura che ci permette di vedere come rientri nelle nuove modalità di riorganizzazione industriale e di ricerca di processi di valorizzazione, non semplicemente come il militare che si impone su ricerca e produzione, come spesso viene affrontato.
Come ultima cosa, visto che la questione è stata sollevata prima da Cristina, pensare la pace credo sia una questione molto legata alle ultime osservazioni di Damiano Palano: pensare la pace significa pensare un orizzonte di lotta che contrasti da un lato la militarizzazione del conflitto sociale e dall’altro lato immagini un orizzonte di trasformazione che guardi ai processi cui ho accennato brevemente e che contrasti le strutture di potere già approfondite.