Dove sono i nostri? La domanda si riaffaccia ogni volta che una destra con la bava alla bocca e il capitale in tasca prende il potere mentre i nostri stanno a guardare. O così pare, almeno. La domanda è comunque lecita, il modo in cui la si affronta meno: Meloni, Le Pen, Trump, Bolsonaro, Milei e compagnia sarebbero il sintomo di tristi pulsioni, un fascino fascista che avrebbe preso la società senza risparmiare la classe operaia. Le elezioni statunitensi sembrerebbero non solo confermare il quadro, ma addirittura allargarlo: come spiegare altrimenti le curvature autoritarie del voto non solo degli operai bianchi, ma anche di ispanici, donne per lo più bianche (che, recita il vangelo liberal, hanno votato contro le donne), minoranze arabe e perfino di una percentuale significativa di maschi afroamericani?
Fascino fascista?
I dati parlano chiaro: Trump ha una maggioranza politica nel paese. Fine della storia? No. Perché, nonostante i quasi 3 milioni di voti in più presi da Trump rispetto al 2020, i dati generano comunque una serie di illusioni ottiche che è bene rimettere in asse. La classificazione statistica della composizione demografica alla base delle statistiche del voto statunitense è la principale macchina di queste illusioni. Scomponendo la società in gruppi identitari omogenei, ricucendo artificialmente i tagli che li attraversano in corrispondenza della linea del salario, del sesso e perfino di un colore che non è uguale per tutti, si generano dei Frankenstein statistici privi di consistenza sociale che non dovremmo trattare come feticci.
Che cosa, se non un feticcio, sono i latinos che voterebbero in maggioranza per Trump per un atavico conservatorismo culturale? Un feticcio che nasconde, per esempio, come nel New Mexico il 46% della forza lavoro impiegata nell’industria fossile sia non solo ispanica, ma anche costretta a fare i conti con una transizione ecologica che finora è stata usata contro il lavoro vivo. Di questo stesso conservatorismo sono accusati gli arabi, ai quali viene evidentemente negata la possibilità di manifestare tutto il proprio legittimo disprezzo per il Partito democratico, legato anima e corpo al governo israeliano e responsabile della repressione poliziesca dei movimenti Pro-Pal.
D’altra parte, la principale imputata della vittoria trumpiana fin dal 2016, ovvero la working class maschia e bianca, viene, a seconda dei casi, statisticamente definita sulla base del reddito e del grado di istruzione. Il risultato di questa operazione è una classe che non è una classe, perché ha perso il suo rapporto di dipendenza conflittuale dal lavoro e dal salario e si è trasformata in un contenitore che può essere riempito con le ansie, i rancori e le paure più retrive: un mix perfetto per creare un capro espiatorio della vittoria trumpiana.
Non si tratta semplicemente di far valere la classe sulle identità, né di ignorare paura e risentimento che pure proliferano nelle fasce sociali più povere e neanche di sottovalutare i meccanismi di risarcimento alimentati da razzismo e patriarcato. Il punto, semmai, è mettere in discussione che a una maggioranza elettorale corrisponda un blocco sociale maggioritario e autoritario, di cui Trump sarebbe il sintomo: il fenomeno di superficie di una fascinazione fascista che risale dalla società e spiegherebbe l’affermazione globale delle destre.
Non un sintomo, ma una risposta
Conviene anche qui partire da un dato: le destre non sono né in ascesa, né alla ribalta. Semplicemente sono al potere. Questo non è un eterno interregno e i fenomeni morbosi non hanno bisogno di verificarsi perché, dopo l’Ucraina, Gaza, il Libano e i neonazisti a un passo dal governo in Germania, possiamo dire che si sono già ampiamente verificati. In altri termini, dalle tessere di un puzzle che va componendosi con tonalità sempre più nere emerge non soltanto un sintomo, ma una risposta.
Più precisamente, quella di Trump e delle destre è una risposta a un bisogno materiale e simbolico di protezione dalle manifestazioni di un transnazionale che, dopo aver scosso e trasformato le società sotto i colpi di processi globali, le ha fracassate prima sotto forma di una pandemia e, ora, di una guerra mondiale. Che si tratti di interruzioni nelle catene globali del valore e delle sue ricadute sul costo della vita, dell’imprevedibilità dei fenomeni legati alla crisi climatica o dell’incontrollabilità dei movimenti migratori, di guerre più o meno tradizionali o ibride, facciamo i conti con gli effetti di un transnazionale selvaggio, ovvero a processi che Stati e regimi politici tarati su un territorio nazionale non sono in grado di governare e che nessuna istanza pare capace di ordinare. È la terza guerra mondiale, bellezza!
Contro il disordine transnazionale, Trump ha promesso di erigere un muro a difesa dei suoi fellow Americans. Un muro razzista contro i migranti irregolari accusati di depredare il welfare, un muro tariffario contro la concorrenza cinese per proteggere il capitale statunitense, un muro fossile contro una transizione ecologica dai contorni incerti, ma che sta agendo come grimaldello per indebolire la forza sindacale di lavoratori e lavoratrici e fattore di accumulazione green. È una risposta che guarda sì in avanti, ma con gli occhi della reazione. A ben vedere, quello che Trump ha promesso è, nel complesso, un muro difensivo contro le instabilità prodotte dalla Terza guerra mondiale, che l’amministrazione Biden ha saputo solo armare a spese degli americani medesimi, senza riuscire a disinnescare né la furia assassina di Netanyahu, né i fatui sogni di gloria di Zelensky.
La risposta di Trump ha solo le parvenze di un Trump reloaded. In realtà, si innesta nell’onda lunga della destra neoliberale, che ora si presenta con vesti neoisolazioniste e neoprotezioniste. Non per questo, però, può o intende davvero usare uno Stato indebolito per addomesticare un capitale che non abbandonerà la sua brama globale di profitto e sfruttamento, né tantomeno per fermare una guerra mondiale che appare fuori controllo, come lo sfarinamento del regime di Assad nel giro di una settimana mostra in tutta la sua evidenza.
La socialdemocrazia impossibile
La risposta di Trump e delle destre è dunque una risposta debole. Eppure, è riuscita a insinuarsi nelle contraddizioni di una politica democratica svuotata di contenuti sociali, di cui l’amministrazione Biden costituisce la migliore esemplificazione. L’amministrazione presentata come la più pro-labor dell’ultimo mezzo secolo, quella che aveva promesso una rivitalizzazione del welfare come non si vedeva dai tempi della Great Society, è rimasta intrappolata nelle contraddizioni di una socialdemocrazia impossibile da riportare in vita. Una trappola scattata quando gli interessi di classe, che pure avevano portato al trionfo Biden nel 2020, sono stati diluiti nell’interesse generale della nazione. Il che, in fondo, equivale a dire che sono stati piegati ai diktat del capitale, di fronte a cui uno Stato irrimediabilmente azzoppato non riesce da tempo a prendere le misure.
Lo abbiamo visto con tutti i programmi varati dall’amministrazione, dall’Infrastructure Act all’Inflation Reduction Act, che hanno galvanizzato il capitale, dimenticato il welfare e l’ambiente e lasciato il costo della vita correre laddove fa più male alle classi più povere: cibo, affitti, energia. Lo abbiamo visto nell’azione congiunta tra amministrazione e grandi centrali sindacali, che ha imbrigliato l’insubordinazione operaia esplosa dopo la pandemia, lasciando che i salari arrancassero dietro un’inflazione che è la vera mattatrice di questa tornata elettorale.
Combinando difesa e produzione industriale in nome della democrazia, Biden e i democratici hanno caricato la società statunitense non solo dei costi economici della guerra, ma anche dell’obbligo di compattezza e unità che si richiede per vincerla. Hanno, in altri termini, socializzato la guerra, senza tuttavia mitigare gli effetti che un salario sempre più povero ha sul lavoro vivo. Il risultato è stato un rifiuto netto alle urne e non solo. La Bidenomics ha infatti prodotto risultati macroeconomici stellari. Ma il lavoro vivo americano si è rifiutato di pagare per le performance di un’economia che non gli appartiene.
La pacificazione delle destre
La risposta di Trump e delle destre parla di pace. E qui sta la formula del suo successo. Ma abbiamo visto in queste ultime settimane di che pace si tratta. È la pace armata che vorrebbe affidare il confine tra Russia e Ucraina agli eserciti europei. È, ancora, la pace con la pistola in tasca di Netanyahu, che non smette di tormentare il Libano e ha avuto il lasciapassare per finire il ‘lavoro sporco’ a Gaza.
Non è, però, solo questo. La pace trumpiana è, da un lato, il tentativo di isolare chirurgicamente alcuni circoscritti teatri di guerra, di chiuderne altri e di allargarne altri ancora a suon di politiche commerciali e competizione per il primato tecnologico con la Cina nel nome dell’interesse nazionale. Dall’altro, è però soprattutto una pacificazione imposta con forme apertamente autoritarie contro la guerra in casa. In altri termini, contro i movimenti dei migranti e delle donne, l’antirazzismo di Black Lives Matter e le insubordinazioni operaie che non si accontentano delle briciole e i movimenti Pro-Pal. Pensano di pacificare la società e chiamarla pace: ecco cosa vogliono le destre globali.
La pacificazione delle destre non si rivolge alla società per intero, se non altro perché una società siffatta non esiste più, se escludiamo le fantasie sconfitte dei democratici. Piuttosto, risponde e reagisce a una società già frammentata, puntando a consolidare le divisioni sedimentate negli anni dall’irruzione di quei processi transnazionali a cui abbiamo accennato sopra. Le destre lavorano a fare ulteriormente a pezzi la società, isolando specifici blocchi sociali e mantenendo una latente guerra interna contro un nemico che, di volta in volta, assume la faccia di migranti nuovi arrivati o irregolari, di femministe che attentano all’ordine naturale tra i sessi e minoranze ben poco minoritarie che attentano all’ordine naturale tra le razze, di ecologisti che si oppongono allo sviluppo economico del paese e di un lavoro vivo che non si accontenta di quel minimo che un salario può offrire.
Il che, però, mostra pure le contraddizioni che attraversano la pace delle destre. Quanto queste contraddizioni premano già per uscire, quanto esse impediscano di trasformare una maggioranza elettorale in un blocco sociale maggioritario, emerge dalle vittorie nei referendum per l’aborto in Stati storicamente repubblicani, così come nei referendum per il salario minimo in Alaska e Missouri e per le ferie e le malattie retribuite in Nebraska, anch’essi saldamente repubblicani. Al contempo, la bocciatura del referendum per portare da 16 a 18 dollari il salario minimo nella democratica California mostra l’impossibilità di riproporre una politica democratica che tenga unita la società attorno a un principio di equità condiviso.
Dalle elezioni statunitensi affiora, al contrario, la società in frammenti del neoliberalismo. Ma anche il disordine e le contraddizioni che ciascuno di questi frammenti sociali porta con sé. In particolare, il voto a favore dell’aborto è la migliore risposta a quei giovani maschi arrabbiati che hanno votato Trump, in reazione a un’avanzata delle donne che temono stia avvenendo a loro spese. La rivoluzione, si sa, non è un pranzo di gala, ma non lo è neanche minare le fondamenta del patriarcato, come il movimento femminista ha fatto in questi anni. Il disordine portato dalle donne è d’altronde uno dei più potenti fattori di destabilizzazione della pacificazione trumpiana, che reagisce distillando odio misogino e omofobo per ristabilire l’autorità di una figura maschile acciaccata.
Che le donne abbiano disertato il loro sesso per favorire questo rigurgito di mascolinità, che abbiano, cioè, votato contro sé stesse, non ci convince. Perché, d’altra parte, avrebbero dovuto votare in massa democratico? Non per tutte le donne il tetto di cristallo è a portata di mano. Il femminismo neoliberale predicato dai Democratici, che offre libertà individuali – fondamentali, certo, ma astratte se slegate dal salario – non fa per tutte. Per alcune donne, l’alternativa è tra una vita di lavoro domestico e di cura e una vita di lavoro sottopagato, svolto in condizioni umilianti, se non sotto ricatto o sotto molestie. Per altre, l’alternativa neanche esiste e quelle vite tocca viverle entrambe. A queste vite non basta l’offerta liberal di diritti riproduttivi declinati in chiave individualistica e di mercato, se non altro perché molte donne povere, bianche, nere o latinas, non possono neanche permettersi di pagarli.
Il rompicapo della pace
È comprensibile che in Ucraina ci sia chi abbia accolto con un sospiro di sollievo la vittoria di Trump. La promessa della pacificazione trumpiana suona evidentemente più rassicurante di un presente bideniano di guerra, che continuerà invece a pesare come un incubo su Gaza e il Medio Oriente. Meno comprensibile è il fatto che abbiamo lasciato alla destra l’opportunità di appropriarsi della pace o, quantomeno, della sua pace: quella stessa pace su cui l’AfD in Germania e l’estrema destra in Romania stanno costruendo le loro fortune elettorali.
Il movimento Pro-Pal ha avuto il merito di scuotere il mondo dall’assuefazione alla guerra. Nonostante la repressione, ha fatto risuonare la forza transnazionale del suo rifiuto del genocidio di Gaza. In alcuni casi, è riuscito a rompere i fronti, alleandosi con chi indipendentemente dall’identità etnica o nazionale si oppone alla guerra. In altri, tuttavia, ha ceduto a un campismo che non solo arruola entro certi limiti, ma alimenta una logica di guerra che non parla a un bisogno di pace. Quello stesso bisogno di pace che le destre, al contrario, blandiscono costantemente.
Non c’è nella società statunitense ed europea una fascinazione fascista collettiva, ma una pluralità di istanze e rivendicazioni che da tempo non trovano le parole per darsi una forma politica coerente nel rifiuto dello sfruttamento, del patriarcato e del razzismo. A queste si aggiunge una diffusa domanda di pace che, risucchiata nelle accuse tra blocchi contrapposti, rimane senza voce. Oggi quella domanda è sotto ostaggio delle destre. Costruire la nostra opposizione politica alla guerra significa non solo guardare ai movimenti reali che lottano in casa nostra contro gli effetti della guerra stessa. Significa anche fare i conti con la difficoltà di trovare linguaggi comuni per mettere in comunicazione lotte che si muovono su coordinate diverse: per trovare, cioè, un terreno di convergenza in cui tali lotte possano essere non solo episodi isolati di conflitto sociale ma potenza collettiva e, per questo, dirompente.
Questo è il rompicapo politico che abbiamo di fronte. Il che non significa ignorare che c’è una guerra fatta di bombe e di sangue, di pulizia etnica e sterminio, di scuole, ospedali, vite e un futuro finiti in macerie. E che questa guerra non è la stessa contro cui combattiamo qui, sotto i colpi dello sfruttamento e della subordinazione. Si tratta di condizioni incommensurabili. Eppure, il rompicapo della pace è uno solo e non lo risolveremo finché non faremo fronte comune contro le molteplici facce della Terza guerra mondiale in cui viviamo.