di LEONARDO RAVAIOLI
Lunedì 2 dicembre, per la prima volta dopo 8 anni, operaie e operai della più grande casa automobilistica tedesca hanno cominciato, con scioperi d’avvertimento, quello che si configura come il più importante conflitto industriale in Germania degli ultimi decenni. In nove dei dieci stabilimenti tedeschi della Volkswagen, quasi centomila lavoratrici e lavoratori hanno incrociato le braccia per almeno due ore e continueranno lo sciopero fino al 9 dicembre, quando riprenderanno i negoziati tra i rappresentanti sindacali e la dirigenza. In ballo non ci sono solo i destini di lavoratrici e lavoratori della più grande azienda tedesca (120 mila dipendenti solo in Germania, più di 600 mila nel mondo), ma un pezzo importante del conflitto di classe nella transizione energetica ai tempi della terza guerra mondiale, dove anche uno degli stati e uno dei sindacati tra i più potenti d’Europa sembrano avere perso capacità di mediazione nel disordine transnazionale.
L’ondata di scioperi arriva dopo il fallimento di tre round di negoziati tra la dirigenza e il sindacato dei metalmeccanici IG Metall. All’attacco da parte di una dirigenza decisa a spremere i salari il più possibile ha fatto seguito una posizione di retroguardia di un sindacato subito pronto al compromesso al ribasso. Ma questo evidentemente non è bastato. La storia recente del conflitto industriale che sta scuotendo la Germania comincia il 2 settembre quando Volkswagen annuncia la chiusura di un numero imprecisato di stabilimenti nazionali e la fine degli accordi sindacali in essere dal ’94. Questi accordi, già pagati dalle tasche dei lavoratori, avevano garantito finora la sicurezza dei posti di lavoro negli stabilimenti tedeschi. Si capirà poi l’entità del ridimensionamento che ha in programma la dirigenza: chiusura di 3 dei 10 stabilimenti in Germania, più di diecimila licenziamenti, riduzione dei salari del 10% e tagli al welfare aziendale.
Nonostante nel 2023 la Volkswagen realizzi 18 miliardi di profitti pagando 4,5 miliardi di dividendi, viene annunciato un taglio sui costi di 10 miliardi entro il 2026 per aumentare la competitività. La casa automobilistica con sede a Wolfsburg, infatti, non sta sul mercato, in particolare quello estero, su cui negli anni ha costruito la propria fortuna, e la sua produzione è calata del 22% in 5 anni. In molti, tra i politici e opinionisti più o meno a sinistra, hanno puntato il dito contro le cattive scelte del management nella gestione del passaggio dal motore a combustibile fossile a quello elettrico: dalla gestione dell’onda lunga del “dieselgate” ai modelli di e-suv poco appetibili, dalla scelta di software difettosi alla decisione di aprire stabilimenti negli Stati Uniti e in Cina per servire i rispettivi mercati nazionali.
La Volkswagen sconta infatti un ritardo tecnologico rispetto alla Tesla e alla BYD (la compagnia automobilistica cinese leader nell’elettrico) che si traduce in costi di produzione più elevati, tanto più che le competitor statunitensi e cinesi hanno potuto beneficiare negli ultimi anni di cospicui incentivi statali che hanno finanziato la transizione all’elettrico dentro una competizione accelerata dalla guerra. Più che le cattive scelte di un management che, da che mondo è mondo, si occupa degli affari del capitale e non degli interessi del lavoro vivo, la crisi dell’automobile tedesca sembra essere legata alla contraddizione tra la spinta del capitale a espandersi in un mercato mondiale, frammentato prima dalla pandemia e poi dalla guerra, e i tentativi scomposti degli stati di sostenere i capitali nazionali, magari scaricandoli di qualche costo, con la speranza di trattenerne una porzione dentro i confini.
Gli appelli al “derisking” e al “reshoring” di un cancelliere azzoppato come Scholz, o di una presidente della commissione di compromesso come von der Leyen, non possono certamente bastare a evitare che la Volkswagen continui a voler piazzare le proprie merci sul mercato mondiale e ad aprire stabilimenti anche in “territorio nemico”.
La transizione verde a marchio europeo, d’altra parte, sembra ormai giunta al capolinea, perlomeno nella forma in cui l’abbiamo conosciuta finora. Seguendo l’indirizzo della nuova commissione europea, anche per molti politici tedeschi la transizione non è più sostenibile, sia per i costi pubblici sia per quelli imposti a un’industria europea già in difficoltà per i crescenti costi di energia e materie prime dovuti alla guerra con la Russia. Non sono solo i nostalgici dell’AFD e della coalizione Wagenknecht a chiedere un ritorno ai combustibili fossili: anche la CDU di Merz, probabile futuro cancelliere, accusa la transizione all’elettrico (unitamente al costo del lavoro troppo alto) di aver messo in crisi l’economia tedesca. Non a caso, dopo l’annuncio della Volkswagen degli imminenti licenziamenti, Merz ha colto la palla al balzo per denunciare la scarsa competitività della Germania, facendo pregustare l’amaro boccone del suo programma elettorale all’insegna del ritorno del neoliberalismo del rigore.
La crisi della Volkswagen si inserisce nel mezzo di una crisi di governo caduto proprio sul punto dello sforamento del vincolo di bilancio, ovvero sulla possibilità da parte del governo federale di contrarre nuovo debito in un momento di congiuntura economica negativa. L’intervento da parte dello stato (che pure partecipa a livello di Land nella proprietà) per salvare l’azienda con più dipendenti in Germania sembra al momento essere piuttosto irrealistico, non solo per il ritorno di una destra rigorista che non ha alcuna intenzione di estendere l’intervento pubblico nel sociale. La gestione complessiva della crisi dell’automobile mette infatti a nudo la crisi che investe nel profondo i resti delle socialdemocrazie occidentali nella loro capacità di mediare il conflitto di classe, lasciando alla politica poco più che gli appelli accorati alla responsabilità del padronato.
D’altro canto, l’offerta arrivata alla dirigenza Volkswagen da parte di IG Metall, impegnato in una battaglia su più fronti vista le serie di annunci di ridimensionamenti in altre importanti aziende come Ford e Thyssenkrupp, già mostrava segni di una debolezza ormai acclarata: salvare i posti di lavoro in cambio di aumenti salariali versati in un fondo di solidarietà come strumento di flessibilità per gestire i cali di produzione. Che siano ormai mutati i rapporti di forza lo racconta anche il fatto che con un’inflazione a più del 7% il salario nominale degli operai della Volkswagen, storica roccaforte del potere operaio, è aumentato negli ultimi anni di appena il 3%.
Oltre a prendersela con le pessime strategie del management o con la cattiva volontà della politica nazionale, come fa grossa parte della sinistra tedesca, molto indignata ma con scarsa immaginazione, sarebbe forse politicamente più utile chiedersi quali siano stati i limiti nell’organizzazione e nella strategia del sindacato e dei movimenti degli ultimi anni e se è ancora possibile, nella congiuntura segnata dalla guerra e dalla crisi del capitalismo neoliberale globale, affidarsi a soluzioni nazionali che rischiano di essere se va bene inefficaci e se va male controproducenti, cioè alleate delle destre conservatrici.
Negli anni, una fetta del lavoro, quello più precario e sottopagato, è rimasta fuori dalla contrattazione collettiva e dal modello di co-determinazione tedesco (Mitbestimmung) – ovvero la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori alle decisioni aziendali, un modello in crisi già da un pezzo – anche nei settori più sindacalizzati come i metalmeccanici. D’altra parte, l’indebolimento della capacità di lotta del lavoro vivo è legato a una frammentazione (economica, giuridica e quindi anche politica) che ha a che vedere con il piano transnazionale della vicenda.
Non si tratta solo della pratica di delocalizzare la produzione nei paesi con il costo del lavoro più basso, dentro e fuori la UE. La fabbrica della Tesla aperta pochi anni fa fuori Berlino è diventata il maggior competitor sul territorio nazionale nella produzione di auto elettriche grazie ai costi di produzione più bassi e una compressione dei diritti dei lavoratori. La forma giuridica della Tesla, quella della “Societas Europea” – un prodotto della normativa comunitaria – garantisce infatti all’azienda la libera circolazione del capitale dentro l’UE anche grazie alla maggiore libertà dal controllo della propria attività da parte dei lavoratori e dei sindacati che, infatti, sono in minoranza nel consiglio di rappresentanza.
I lavoratori della Gigafactory berlinese hanno denunciato da tempo il “clima di terrore” che si respira dentro la Tesla, per le pratiche antisindacali già consolidate negli stabilimenti statunitensi, con tassi d’infortunio più alti della media. Tuttavia, la competizione a ribasso sulle condizioni di lavoro sta pagando: mentre le grandi aziende automobilistiche tedesche annunciavano chiusure e licenziamenti, la Tesla ha comunicato che assumerà altri 500 dipendenti a tempo indeterminato e aumenterà i salari del 4%.
La crisi della Volkswagen non è chiaramente un problema solo tedesco, tanto per il suo significato materiale che simbolico. La crisi del settore dell’automobile travolto dalla transizione sta avendo chiaramente i suoi effetti anche in Italia, per esempio, come testimonia la tormentata vicenda Stellantis tra minacce di licenziamenti e continue richieste di aiuto da parte dello stato. Questa crisi sembra piuttosto il segno che quello a cui stiamo assistendo è il canto del cigno del modello di socialdemocrazia europea come lo conoscevamo, messa definitivamente in crisi dalla terza guerra mondiale che richiede un comando ancor più serrato sulle condizioni di produzione e riproduzione della società.
Questo ha preso la forma di un attacco senza precedenti al lavoro vivo e alle condizioni di vita di milioni di proletari, non solo quelli dentro i cancelli delle aziende in crisi, che passa dalla compressione dei salari alla precarizzazione del lavoro, dai tagli al welfare all’irrigidirsi di gerarchie patriarcali e razziste. Come le lotte dello scorso anno degli autoworkers negli Stati Uniti avevano riportato lo sciopero e la lotta per il salario al centro dello scontro sul destino della transizione, oggi la lotta degli operai Volkswagen anticipa quella che sarà la posta in gioco sulla lotta per il clima e per i salari in Europa. Formulare una risposta che sia all’altezza della sfida posta dalla lotta di classe dentro la transizione ecologica non può passare per la riedizione di quanto abbiamo già visto finora.