giovedì , 21 Novembre 2024

Oltre il 7 ottobre, fuori dal vicolo cieco

Corteo per la Palestina. Foto Ansa
Corteo per la Palestina. Foto Ansa

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A quasi un anno dal 7 ottobre la necessità di dare corpo a un movimento contro la guerra è sempre più urgente. La discussione, il confronto e persino lo scontro nei movimenti su quale sia la posta in gioco è ancora più urgente nel momento in cui il ministro Piantedosi vieta la manifestazione nazionale del 5 ottobre, perché la celebrazione di “un eccidio” non sarebbe compatibile con l’ordine pubblico. I temi e i termini del nostro dibattito non possono però essere stabiliti da un qualsiasi Ministro dell’Interno.

Riaprire la discussione è essenziale perché è sempre più indispensabile opporsi in massa alla violenza terroristica e genocida dello Stato di Israele a Gaza, sapendo che la lotta delle e dei palestinesi si inserisce in quella guerra mondiale contro la quale è altrettanto necessario mobilitarsi. Le modalità e i contenuti con i quali è stata convocata quella manifestazione sono stati indigesti a molti, e anche a noi. Per questo ci sembra necessario tornare sul 7 ottobre e su che cosa ha significato per il nostro movimento.

Da che parte stare e come starci

Recentemente lo ha fatto Valerio Renzi con un contributo pubblicato sulla newsletter «Tempolinea», che abbiamo condiviso sul nostro sito perché ha avuto il merito di porre questioni che nell’ultimo anno si sono bloccate nella gola di molte e molti. Confrontarsi con la domanda ma tu condanni Hamas? – come fa Renzi – sembra essere un tradimento della causa palestinese e come tale ha generato una levata di scudi che finisce per chiudere la possibilità stessa di capire non da che parte stare, ma come starci. Noi stiamo dalla parte di donne e uomini palestinesi senza avere l’arroganza di credere che coincidano interamente con Hamas, o che combattere al suo fianco significhi condividerne il progetto politico.

Di fronte al genocidio che lo Stato di Israele sta portando avanti a Gaza e a una guerra che irrompe in Libano, allargandosi oltre la Striscia e la Cisgiordania, ci pare invece necessario discutere proprio quale progetto politico sta dietro alle posizioni che identificano la liberazione con il martirio. E questa necessità non può rimanere bloccata in gola o soffocata da ripetute accuse di essere bianchi privilegiati, complici ereditari di ogni colonizzazione, femministe borghesi falsamente intersezionali e persino suprematisti atei. Questo non vuol dire dare lezioni di resistenza, ma provare a capire che cosa possiamo e dobbiamo fare noi, da qui. E se non siamo d’accordo dovremo almeno poterne discutere senza essere accusati di stare dalla parte del nemico. 

Farlo è tanto più necessario in vista delle manifestazioni annunciate, non solo in Italia, per l’anniversario del 7 ottobre. Visto retrospettivamente, quel giorno ha significato tante cose, o ha assunto significati diversi per soggetti diversi. Il 7 ottobre le ruspe palestinesi hanno divelto la recinzione attorno a Gaza. Il 7 ottobre c’è stata violenza sui civili e sono state stuprate delle donne israeliane. Meno violenza, meno stupri di quelli fatti da Israele contro i palestinesi civili, uomini e donne, meno morti, meno ostaggi e meno torture, ma la quantità non cambia la qualità di ciò che è stato fatto.

L’immancabile Fanon ci ricorda che una lotta di liberazione passa per la violenza. Ma il punto non è la violenza in quanto tale, ma la capacità di fare distinzioni mentre la si pratica e la possibilità di discuterne successivamente gli esiti. La violenza è un atto politico, non di fede: non azzera il giudizio, ma lo pretende. Essa impone perciò di capire qui e ora con chi possiamo lottare affinché il genocidio e la violenza interminabile che legittima e impone abbiano fine.

Non è vero, come sostengono i Giovani Palestinesi, che ogni israeliano è un colono, in nome di un diritto naturale alla terra che spetta ai palestinesi e li autorizza a cacciare chiunque lo usurpi. Ci sono donne e uomini israeliani che non si identificano con i progetti di Netanyahu, altre e altri che protestano e scioperano, o che disertano, fuggono e chiedono asilo per non dovere sostenere l’occupazione sionista con le armi. Essere nati in Israele fa di loro dei nemici? Qualcuno crede davvero che fare di milioni di israeliani dei profughi sia la soluzione ai milioni di profughi palestinesi? Di sicuro, comunque, non erano coloni i migranti ammazzati e rapiti dai miliziani di Hamas il 7 ottobre, ma lavoratori impiegati da Israele attraverso patti bilaterali con paesi molto poco occidentali come la Thailandia. Non accettiamo di considerarli solo “danni collaterali”.

Quale rivoluzione? Per la Palestina senza garanzie

Il 7 ottobre è stato allora l’attesa, se non la speranza, di fronte a una breccia finalmente aperta, ma è stato anche il terrore che ritorna e un cinico calcolo in un conflitto di potere regionale. È comunque impossibile dare un giudizio univoco sul 7 ottobre e a questo punto sarebbe anche di troppo. Quello che vediamo è che non ha portato la liberazione promessa a donne e uomini palestinesi, non ha interrotto la conta delle migliaia di vittime palestinesi che lo hanno preceduto e che, dopo il 7 ottobre e il genocidio che ne è conseguito, non sappiamo quando smetteremo di contare. Il punto non è il passato, ma se davvero è una liberazione rovesciare il terrore contro la parte che lo ha praticato per decenni.

Fare riferimento in maniera trasandata alla Rivoluzione d’ottobre, alla conferenza di Baku e ai bolscevichi non serve in alcun modo a stabilire che il 7 ottobre è stato un “atto rivoluzionario di decolonizzazione”. Si può praticare l’ateismo politico senza negare che nella religione ci sono stati e possono ancora crescere i semi della ribellione. Lo abbiamo visto nelle banlieues e lo abbiamo visto quando i contadini siciliani – che molti riconoscono come i nostri subalterni ‘originali’ – facevano la lotta di classe portando in corteo la statua della Madonna insieme all’effige di Marx. Ma ciò non toglie che quei contadini volevano liberarsi non solo dai padroni ma anche di quei preti che alle tavole dei padroni ci mangiavano, e che per gli stessi motivi le donne disertavano la messa e non battezzavano più i loro figli.

L’accusa di “orientalismo” – di sminuire le pratiche di resistenza delle e dei palestinesi in nome di un supremo modello occidentale – va rivolta a quelli che affermano che solo riscoprendo gli strumenti che “attingono alla loro storia e cultura” i palestinesi possono resistere a una più ampia prigione coloniale, quella del pensiero occidentale di cui Israele sarebbe l’esecutore materiale. Con buona pace di Fanon, che rivendicava di non essere schiavo di nessun passato e che non credeva che la liberazione si concludesse con l’indipendenza nazionale, sono questi gli orientalisti che rendono la resistenza palestinese un mito che non lascia spazio non tanto alle critiche da fuori, ma alle voci che vengono da dentro.

L’apologia della resistenza crea il suo popolo e ne fa una comunità di martiri per la propria terra, senza chiedersi se alle donne e agli uomini palestinesi basti solo la terra o non possano aspirare a qualcosa di più o di diverso dall’Islam politico che lo Stato di Israele ha fatto di tutto per rendere l’unica via praticabile per poi legittimare, come sta già facendo in Libano, un’estensione della sua guerra di sterminio e i suoi deliri messianici.

Se la rivoluzione è un ritorno a un tempo mitico in cui la Palestina era posseduta per diritto naturale dai palestinesi, allora è già persa. È chiaro che l’attacco di Israele su Gaza e le violenze in Cisgiordania devono immediatamente finire, che questa è la prima cosa per cui dobbiamo lottare, che donne e uomini palestinesi devono avere un posto dove vivere e non solo sopravvivere. Proprio perché abbiamo il privilegio di non rischiare la vita sotto i colpi di un caccia israeliano possiamo reclamare qualcosa di più della sopravvivenza, quando ci schieriamo al loro fianco.

Liberazione e progetto politico

Protesta donne iraniane, Donna Vita LibertàChi afferma che per donne e persone lgbtq palestinesi la lotta contro il patriarcato viene dopo quella contro il colonialismo ha perfettamente ragione. Le bombe di Israele, infatti, non lasciano loro alcuna scelta. Ma questa verità finisce per essere l’ammissione di una sconfitta: quella delle stesse donne e persone lgbtq che hanno dovuto rinunciare alla loro lotta contro il patriarcato – quello israeliano e quello nativo – perché Israele ha spazzato via quella lotta con le bombe. Quindi, dovrebbe avere fine l’antifemminismo sfacciato di chi dice che le femministe bianche non possono parlare perché sono portatrici sane di colonialismo o perché darebbero ‘lezioni’ alle donne palestinesi, cosa che peraltro nessuna ha il potere di fare e molte, anche se non tutte, nemmeno l’intenzione.

“Femminista bianca” è diventato l’insulto rivolto a qualunque donna non accetti che la dirigenza maschile di Hamas debba essere l’unica a decidere che cosa devono o non possono fare donne e persone lgbtq palestinesi, o anche solo di chi non pensa che le donne e persone lgbtq siano tutte d’accordo quando si tratta di stabilire la priorità delle lotte o in che rapporto stanno tra di loro. Chi agita la clava del “femminismo bianco” dimentica colpevolmente che sono state le donne palestinesi, durante la prima Intifada, a dire che “non può esserci liberazione nazionale senza la liberazione delle donne dal patriarcato”. E sono state le donne iraniane e curde le prime a dire che la liberazione della Palestina deve essere sostenuta dal grido “Donna, vita, libertà” perché rivoluzione non è solo avere una terra, ma rovesciare dei rapporti di potere che ci poggiano sopra i piedi.

C’è allora un problema di progetto politico e di un’idea di società che la semplice lotta per l’autodeterminazione non risolve. La questione non può essere sciolta appellandosi al diritto innegabile delle e dei palestinesi di scegliersi il regime che preferiscono. Di quale autodeterminazione stiamo però parlando? Quella del mitico popolo che fa la resistenza, o di quella di uomini e donne, bambine e bambini che adesso stanno scappando da bombe, fame e malattie, e quando le bombe avranno cessato di cadere dovranno fare i conti con la povertà devastante lasciata dalla guerra, con la violenza maschile intensificata dalla disperazione, con il furto insopportabile di un futuro talmente chiuso da essere inimmaginabile? E quale autodeterminazione stanno praticando i proletari di ogni genere e colore nell’Occidente che certo non è sotto occupazione coloniale, ma è devastato dal militarismo che, per effetto della guerra di Israele contro Gaza e di quella in Ucraina, sta dilagando come un gas asfittico che ci toglie l’aria presente e futura?

Abbattere i muri, rompere i fronti

Tutto questo ci riguarda perché abbiamo il problema di chiederci che cosa possiamo e dobbiamo fare noi se vogliamo fare la nostra parte per mettere fine a questo incubo che infesta il passato, il presente e il futuro di Gaza e anche il nostro. Dopo il 7 ottobre la rivolta contro il genocidio israeliano ha lasciato intravedere la possibilità di un movimento contro la guerra che era rimasto tiepido – e non meno diviso in fronti geopolitici e ideologici – di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, anche se questa non solo ha prodotto centinaia di migliaia di morti e feriti, ma ha anche radicalmente cambiato lo scenario politico transnazionale nel quale ormai tutti viviamo.

Il progetto e la pratica genocida del governo israeliano hanno stabilito una chiara linea di demarcazione tra gli oppressi e gli oppressori e su quella linea si è attivato un processo di mobilitazione politica. Ne sono seguite manifestazioni imponenti, il coinvolgimento in massa di antiche diaspore e nuove generazioni migranti, e perfino il risveglio del movimento studentesco nelle acampadas di mezzo mondo. Negli stessi Stati Uniti le organizzazioni dei lavoratori si sono schierate per il cessate il fuoco, rispondendo alla spinta che dal basso chiedeva che Israele cessasse l’assalto a Gaza. Nel mentre, però, qualcosa si è rotto, in Italia come altrove.

EPA/BRENT LEWIN AUSTRALIA AND NEW ZEALAND

Non è solo la tremenda assuefazione all’orrore degli spettatori della guerra a Gaza. Qualcosa si è rotto anche perché quella linea, chiara e per questo capace di mobilitare, è alla fine diventata un muro. Un muro che impedisce di rompere i fronti per mettere in comunicazione le israeliane e gli israeliani che fuggono o rifiutano la leva per non servire il progetto sionista con le palestinesi e i palestinesi che non accettano che il martirio sia il loro unico destino. Un muro che ha fatto della lotta in Palestina uno scontro di civiltà, tra l’Occidente e il suo ‘resto’ in ebollizione, senza considerare che l’Occidente è squartato internamente dal suo ‘resto’ e quel ‘resto’ è a sua volta governato dalle logiche transnazionali del capitale.

Israele sta reclutando richiedenti asilo, promettendo loro la cittadinanza se non moriranno per conquistare un lembo di terra per il progetto sionista. Quei richiedenti asilo provenienti dall’Africa che fu colonia sono vittime o agenti della colonizzazione occidentale? E davvero è questa la domanda che dobbiamo farci, o dobbiamo invece chiederci come fare a lottare contro una guerra che scompone le identità, e un razzismo che non corre solo sulla linea coloniale, ma ti insegue ogni volta che pratichi la libertà di movimento?

Opporsi alla terza guerra mondiale

La Palestina ha una lunga storia di orrori che nessuno può o dovrebbe dimenticare, ma a lottare per la Palestina non possono essere soltanto gli specialisti che conoscono a menadito quella storia, e il significato di quella lotta non può riguardare solo chi ha un’identità autenticamente palestinese. Non tanto perché la Palestina si fa globale, ma perché la sua dimensione di scontro territoriale o regionale è travolta dalla guerra mondiale inaugurata dall’invasione russa dell’Ucraina.

Il nesso tra le due guerre è un altro tabù che bisogna rompere. C’è una differenza tra l’invasione di uno Stato da parte di un altro Stato che ha la sua sovranità riconosciuta e il suo esercito ufficiale, e l’aggressione di uno Stato verso una popolazione senza Stato, senza sovranità e senza esercito, che vive sotto occupazione da più di 75 anni. Ma davvero è l’ossessione per la sovranità a fare la differenza? Quale forza aggiunge alla lotta contro il genocidio o a quella per la liberazione, qualunque cosa la liberazione possa significare?  Di fronte all’immane sproporzione di forze militari tra lo Stato di Israele e le molteplici forme di resistenza che si danno a Gaza, in Cisgiordania e ora in Libano, che cosa ci guadagna quella resistenza dalla certificazione della sua unicità? Siamo ben consapevoli delle differenze, ma vediamo anche come questa guerra mondiale pretende oggi di normalizzare e legittimare ogni distruzione e ogni uccisione, siano di massa, puntuali, di civili o soldati, a Gaza o nel Donbass.

Mentre tutela il mito della resistenza dalle voci del disaccordo, l’eccezionalità della questione palestinese ne comprime anche lo slancio espansivo. Noi pensiamo che il disaccordo debba avere voce perché ci sia espansività, perché la mobilitazione per la Palestina non sia solo un affare da specialisti. Non serve una specializzazione o un’identità certificata per opporsi al genocidio nella lotta contro la terza guerra mondiale che dispiega i suoi effetti materiali non solo in Ucraina o in Medio Oriente, ma anche sulle vite di chi vive, lavora e lotta in ogni parte del mondo. Questo è ancora più importante se coltiviamo il progetto di fare dell’opposizione alla guerra e ai massacri che essa produce una politica di massa e di parte, che sappia anche fare fronte comune contro le logiche repressive che dovremo affrontare e guardare oltre quelle.

Pensare di monopolizzare il significato che deve avere la nostra lotta a fianco di uomini e donne palestinesi non va in questa direzione né aiuta ad allargare il fronte di chi rifiuta il genocidio. Se vogliamo parlare di rivoluzione, pensiamo che la risposta alle domande “come, perché e con chi” la si fa non possa essere cercata solo in un passato da far rivivere e che elaborare una opposizione comune alla guerra mondiale in corso sia oggi dirimente. Di una grande, grandissima manifestazione c’è bisogno, in Italia e in ogni parte del mondo. Pari a quella del movimento planetario contro la guerra in Iraq del 2003 ma capace, più di quello e diversamente da quello, di accumulare e mantenere la forza di cui abbiamo bisogno per opporci al genocidio in Palestina, alla violenza patriarcale, al razzismo imperante e allo sfruttamento infinito che la guerra promette e di fatto impone.

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