di VALERIO RENZI
Ripubblichiamo un articolo di Valerio Renzi uscito sulla newsletter Tempolinea alla fine di agosto. È un testo scomodo e per questo importante. L’autore affronta di petto una serie di problemi – emersi sottotraccia o nella forma di tensioni e rotture – che investono i movimenti dal 7 ottobre 2023, quando in un attacco guidato da Hamas diversi gruppi palestinesi sono penetrati in Israele abbattendo le recinzioni di Gaza per attaccare kibbutz, festival musicali e caserme dell’IDF, compiendo stupri e massacri e rapendo decine di uomini e donne, tra cui anche numerosi lavoratori migranti che sono stati uccisi o rapiti.
Renzi si chiede perché sia stato – è – così difficile per i movimenti stare dalla parte delle rivendicazioni palestinesi contro l’occupazione e l’apartheid israeliane, opporsi alla guerra genocida voluta dal governo Netanyahu e al tempo stesso avere chiaro che la prospettiva portata avanti da Hamas, comprese le stragi del 7 ottobre, non fanno parte di un orizzonte di emancipazione e liberazione. Renzi ci ricorda che il tema dell’antisemitismo va discusso dalla nostra parte per evitare che sia strumentalizzato e spiega molto bene i limiti di ogni visione che cristallizza gli ebrei e Israele, così come i palestinesi, in una entità compatta e accenna al fatto che le difficoltà di giudizio rispetto alle politiche di Hamas e l’enfatizzazione delle centralità della ‘resistenza’ palestinese – che in casi non isolati si è spinta fino all’aperto sostegno di Hamas, delle sue azioni e dei suoi alleati in Iran, Yemen e Libano – ha reso più difficile la costruzione di ampi fronti di protesta di massa contro le politiche israeliane e la distruzione di Gaza. Ma questa difficoltà è anche il segno di qualcosa di più profondo, che va oltre la lotta palestinese e riguarda il modo in cui alcuni approcci che hanno avuto un relativo successo o revival in questi anni – come quello decoloniale, del privilegio, delle identità, dell’antimperialismo o della resistenza – abbiano concorso ad incastrare i movimenti all’interno di un orizzonte che sospendendo il giudizio cristallizza i soggetti, impedisce la discussione politica collettiva, cancella il contenuto delle lotte, legittima posizioni ‘campiste’ e impedisce la ricerca di fronti transnazionali trasversali.
Con queste posizioni, che spingono i movimenti verso “falsi amici” e li condannano ad una sostanziale afonia rispetto all’orizzonte generale della guerra – che lega le vicende della Palestina con quelle dell’Ucraina – ci siamo confrontati e scontrati diverse volte in questi anni, non da ultimo all’interno del percorso del Transnational Social Strike e della’Permanent Assembly Against the War. Di fronte all’angoscia quotidiana del ripetersi di massacri e distruzioni, pensiamo infatti che solo affrontando collettivamente e sul piano transnazionale queste posizioni e i blocchi che esse producono i movimenti possano superarli e rilanciare una iniziativa all’altezza delle mutate condizioni del presente, trovando i giusti strumenti per pretendere la fine del genocidio a Gaza e per non lasciare che siano la guerra e il militarismo a dettare politiche e schieramenti.
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“E tu condanni Hamas?”, è stata la domanda posta ossessivamente dall’8 ottobre 2023 a chiunque osasse contestare la rappresaglia israeliana a Gaza e la successiva guerra di annientamento. È stato il ritornello che ha dovuto subire chiunque osasse dire che questa storia non è iniziata con gli attacchi delle milizie palestinesi in territorio israeliano dell’anno scorso. A questa domanda c’è una risposta che non sarebbe dovuta essere difficile per le sinistre radicali e che in effetti in molti sono riusciti ad articolare (tra cui l’EZLN): condanniamo la strage di civile innocenti e i crimini di guerra compiuti il 7 Ottobre, ma questi sono il risultato del regime di apartheid imposto da Israele, della speranza cancellata per milioni di palestinesi, delle politiche di colonizzazione e della violenza sistematica. Di contro in tantissimi, anche accanto a me, hanno aderito con entusiasmo alla carneficina di Hamas, sostenendo che in nessun modo eravamo in diritto di discutere le modalità con cui i palestinesi intendono liberarsi e resistere all’occupazione. Un punto tutto politico, non morale: non stiamo discutendo di comprendere l’origine della violenza scoppiata dieci mesi fa, tantomeno di negare il diritto alla resistenza dei palestinesi– tra l’altro sancito dal diritto internazionale – ma di aderire maldestramente al progetto politico che l’ha messa in atto.
Nel 2003 il movimento globale contro le guerre in Iraq e in Afghanistan si è battuto contro l’escalation militare, le sue ragioni e le sue prevedibili conseguenze, non certo per difendere il regime di Saddam Hussein o quello dei talebani. Le forze entro il movimento che sostenevano apertamente i gruppi islamisti o filo-iraniani venivano emarginate o allontanate (a volte anche in malo modo) dalle piazze, così come in generale restavano nell’irrilevanza gli “antimperialisti” e i discorsi “campisti”. Ad oggi, invece, le posizioni campiste sono diventate mainstream e estremamente più diffuse. Un effetto della crisi dei movimenti collettivi, ma anche della difficoltà di leggere cosa è accaduto nel mondo negli ultimi vent’anni, trovando chiavi di lettura adeguate e del venire definitivamente meno di un progetto politico come di referenti internazionali. Un processo che abbiamo visto in atto dalla difesa delle repubbliche “socialiste” del Donbass, al sostegno a Bashar al-Assad e di qualsiasi altro dittatore nominalmente schieratosi contro il diavolo americano. Molti degli elegiaci sostegni ad Hamas sono arrivati da queste aree politiche e dai gruppi rossobruni ma di questo universo si è scritto fin troppo, godendo esso di una sovra rappresentazione mediatica rispetto alla sua reale consistenza.
Quello che vogliamo qui affrontare è come si sia prodotta in questi mesi una inaspettata alleanza rosso-verde, dove il verde non è quello dell’ecologia ma quello dei Fratelli Musulmani. Un’alleanza che non ha nulla di politico o operativo naturalmente, ma che sta producendo un nuovo discorso politico che è bene discutere a viso aperto. Online quanto nelle piazze, si avvicinano sempre più universi ideologici e discorsivi apparentemente inconciliabili. Gli stessi soggetti che producono le identity politics in molti casi sono disponibili ad assumere in modo acritico il punto di vista dei soggetti politici arabi e palestinesi che arrivano qui da noi. Un discorso che va costruendosi sotto i nostri occhi nel mescolarsi delle ragioni dell’islamismo nazionalista dei Fratelli Musulmani e della retorica del cosiddetto “asse della resistenza” con l’approccio dell’identity politics così come sono state elaborate dalla sinistra occidentale.
Ci sono influencer che letteralmente nella stessa giornata condividono i comunicati dell’asse della resistenza, e poi postano uno sdegnato reel in cui spiegano cosa è uno spazio safe o si scagliano contro tale partito o esponente politico di sinistra per non essere in linea con le richieste del movimento transfemminista. Ci sono collettivi che sono pronti a giurare che il 7 Ottobre non siano stati commessi stupri e che non ci sono stati morti civili perché in Israele “non ci sono civili”, scommettendo semplicemente sulla superiorità morale, sulla bontà dell’oppresso che si ribella. L’attivismo occidentale, così, finisce spesso per applicare le categorie comode per la griglia di riferimento valoriale e morale delle identity politics a un contesto radicalmente diverso a quello in cui sono normalmente applicate.
Questo cortocircuito è reso possibile anche dall’affermarsi dell’uso esclusivo della categoria di colonialismo per riferirsi oggi a Israele – e di conseguenza di quella di lotta anticoloniale per riferirsi alla resistenza palestinese. L’azione dell’oppresso, qualsiasi essa sia, viene così a trovarsi giustificata dalla sua condizione, con tanto di una letteratura sulla violenza e la sua necessaria quanto liberatoria brutalità a nobilitare tale visione. I palestinesi in questo modo vengono ridotti ad un unico indistinto in cui risiede tutto ciò che è bene, non un popolo attraversato da tensioni e dibattiti interni, le cui forze politiche e militari sono inserite in un complesso intreccio di questioni internazionali, politiche, ideologiche. Le stesse azioni delle milizie e dei partiti palestinesi diventano moralmente indiscutibili, altrimenti bisognerebbe applicare al conflitto in corso le categorie della politica. Ad esempio: come si fa a non trovare una contraddizione tra l’esaltare le milizie filo-iraniane e scendere in piazza urlando “donna, vita, libertà”? Come si fa a utilizzare la critica più intransigente nelle culture wars su internet, e a non vedere la natura ideologica dei movimenti che si sostengono apertamente contro Israele? D’altronde abbiamo visto che nel posizionamento reputazionale su internet, per molti influencer che fanno delle politiche identitarie il proprio core business, prendere posizione sulla Palestina negli ultimi mesi è stato fondamentale, e lo hanno fatto seguendo esattamente la logica che già conoscono applicandola altrove: allo stesso modo in cui bisogna essere “alleati” della lotta di emancipazione di una minoranza, gli attivisti occidentali dovrebbero fare un passo indietro sostenendo come gli oppressi decidono di liberarsi. Nel mirino della polemica finisce chi manifesta sventolando la bandiera della pace, ma perfino BDS – il movimento a guida palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele.
Ripetiamolo prima di andare avanti: quello che si vuole discutere qui non è la liceità o meno della resistenza da parte palestinese all’occupazione e alla violenza israeliana, ma di come questa viene recepita da parte dell’opinione pubblica di sinistra. La riflessione sulla categoria di colonialismo applicata al conflitto tra Israele e Palestina, sembra portare con sé un’ambiguità che non possiamo non affrontare. Lottare contro la colonizzazione della Cisgiordania e lo sterminio di Gaza, vuole dire oggi opporsi alla crescita di insediamenti israeliani all’interno dei territori palestinesi e chiedere di rispettare quanto sancito dalle risoluzioni dell’Onu, fermare la violenza razzista e suprematista, e abbattere il regime di apartheid vigente. Se invece si intende lottare per “smantellare” la “colonia d’insediamento israeliana” o “l’entità sionista” che dir si voglia, se si sostiene che in Israele “non ci sono civili”, è evidente che bisogna capire che fine dovrebbero fare le 7 milioni di persone che vivono nella colonia. Dove dovrebbero andare? Chi dovrebbe “riprenderseli”? La maggior parte dei cittadini israeliani ormai non ha scelto di vivere in Israele, non è emigrata, c’è nata. La violenza della criminalizzazione delle proteste non è una ragione sufficiente per non affrontare con chiarezza per cosa e in quale nome si lotta. Per arrivare gradualmente a uno stato binazionale dove tutti possano essere liberi? Se è così andrebbe spiegato, senza paura di dirlo. “Chi siamo noi per dire ai palestinesi come resistere?”, ho letto più volte in questi mesi. Nessuno, ovviamente. Ma sarebbe utile che si possa affrontare una discussione politica sugli obiettivi delle manifestazioni. Invece il dibattito si riduce al posizionamento sulle identità. In un documento rivolto al mondo della solidarietà italiana da parte di un’associazione della diaspora palestinese, si legge della necessità di prendere “coscienza del proprio privilegio” come primo passo per “costruire alleanze”. Il linguaggio elaborato dall’attivismo woke si abbina inaspettatamente bene con gli slogan dei comunicati delle milizie islamiste. Come si può pensare ad Hamas come a un movimento anticoloniale, senza inserirlo nel quadro di rapporti non solo con l’Iran, ma con una potenza regionale come la Turchia di Erdogan, con Bashar al-Assad in Siria e con le petro-monarchie del golfo? È evidente che la logica del 7 Ottobre risiede nel far saltare gli accordi di Abramo che, con la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo, avrebbe sancito la scomparsa della questione palestinese dallo scacchiere del Medio Oriente. In sintesi: “tu condanni Hamas?” è una domanda la cui risposta è bene articolare in modo esaustivo. Non per fornire ragioni o alibi al genocidio di Israele, ma per riuscire a costruire e articolare un discorso coerente. “Decolonizzare lo sguardo”, non vuol dire rinunciare a percepirsi come soggetti politici e non solo definiti da dispositivi di identità (bianchi/neri, occidentali/orientali, uomini/donne, etero/non-binari e così via).
L’altra accusa che viene mossa ossessivamente per tentare di silenziare e delegittimare le proteste contro la guerra in corso e le politiche messianico-suprematiste di Israele è quella dell’antisemitismo. La violenza della criminalizzazione del dissenso verso il genocidio, le politiche di apartheid e la colonizzazione dei territori, ha trasformato tale accusa in una clava con cui colpire chiunque non condivide il doppio standard che sta consentendo a Israele l’annientamento della società palestinese. Una tanto infamante denominazione, rivolta con nonchalanche a chiunque critichi le politiche genocidarie israeliane, ha creato una cortina fumogena che rende ancora più difficile discutere di come si presenta il pregiudizio. Il rischio è che nel denunciarne la strumentalizzazione, si finisca per pensare che l’antisemitismo non esista più. Non è così neanche per le sinistre, soprattutto in un contesto così drammatico, in cui molti di noi provano rabbia e impotenza davanti al massacro in corso. Il rischio di uno scivolamento su posture antisemite delle persone che manifestano in solidarietà con la Palestina e nella lotta contro la guerra di Israele esiste, e risiede largamente proprio nell’applicazione delle categorie identity politics al conflitto: se ebrei e palestinesi sono due insiemi omogenei e distinti, e al primo viene attribuito come principale attributo il male, e al secondo il bene, il rischio che si finisca per non riuscire più a distinguere tra ebrei, comunità ebraiche, Stato di Israele, governo di Israele esiste. Ora di fronte a quanto sta accadendo è necessario tenere a mente questo: gli ebrei e le ebree non coincidono con le istituzioni dell’ebraismo della diaspora (le comunità ebraiche sono associazioni a cui ci si iscrive liberamente), le comunità ebraiche non sono delle succursali dello stato di Israele, e questo (inteso come la totalità dei cittadini di nazionalità israeliana) non coincide con le azioni del proprio governo. Nonostante il sostegno delle istituzioni ebraiche della diaspora a Israele sia andato crescendo a partire dagli anni Ottanta, e nonostante l’agenda delle comunità ebraiche sia sempre più marcatamente sovrapponibile a quella del governo israeliano, è essenziale ricordare che non tutti gli ebrei della diaspora fanno parte delle associazioni comunitarie, e che non tutti gli iscritti alle comunità condividono le scelte delle proprie dirigenze né la propria posizione nei confronti delle politiche di Israele. Allo stesso modo, nonostante il dissenso sia sempre più assottigliato e criminalizzato, la totalità della società israeliana non è identificabile nel governo di Israele. Sovrapporre le quattro dimensioni sopra indicate porta inevitabilmente a ritenere tutti gli ebrei responsabili del genocidio in corso a Gaza, nonostante l’evidenza che decine di migliaia di ebrei in tutto il mondo stiano protestando contro la guerra. Come già i palestinesi, anche gli ebrei, cittadini di Israele o della diaspora, diventano un uno indistinguibile, senza differenze. Un indistinto omogeneo che ne essenzializza l’identità alla sola identità religiosa – e, visto che per molti degli ebrei del mondo questa è assolutamente un aspetto marginale della propria identità e della propria vita, ne fa di fatto una razza. Non importa l’orientamento politico, l’adesione ideologica al sionismo, la posizione di classe.
Con la guerra e il genocidio sullo sfondo, qualcuno potrebbe trovare sgradevole e fuori luogo un articolo che parla di antisemitismo. D’altra parte, un tema così importante non può divenire un tabù, intanto per evitare che venga strumentalizzato, ma anche per una ragione tattica: la dissidenza ebraica e la dissidenza israeliana sono i migliori alleati per chi vuole la fine della guerra, la convivenza interetnica, la fine dell’apartheid e la sconfitta del progetto politico millenarista-suprematista del governo Netanyahu. Alexander Langer – in un documento che quest’anno ha compiuto trent’anni – parlava della necessità di “veri e propri “traditori della compattezza etnica”, che però non si devono mai trasformare in transfughi, se vogliono mantenere le radici e restare credibili”. L’alleanza immaginaria tra alcuni settori della sinistra o dell’internet left con gli islamisti, rischia infine di avere scarso successo, e di nuocere prima di tutto alla capacità mobilitativa della società civile. Se il perimetro attorno a cui costruire coalizioni è il sostegno incondizionato alla resistenza armata palestinese e dei suoi sponsor, è una posizione apparentemente radicale ma più ideologica che pratica, che rischia di non allargare il bacino della mobilitazione e dell’impegno per un cessate il fuoco. Se con gli slogan si può chiamare all’intifada, nei fatti fatichiamo a costruire una lettura della guerra in corso e una pratica in grado di inceppare la macchina bellica o di far pressione su governi e istituzioni, limitandoci per lo più a essere “alleati” di soggetti politici e militari con cui la sinistra non ha nulla a che fare.