In un libro pubblicato nel 1971, la cui riedizione sta circolando molto in Italia, lo storico, attivista e intellettuale australiano Dennis Altman scriveva che “ogni movimento ha un duplice impatto, su coloro che rappresenta e sulla società in generale”. “Questo è particolarmente vero – continuava Altman – per un movimento come quello della liberazione gay, che rappresenta un processo in cui gli omosessuali cercano di venire a patti con se stessi e, attraverso l’autoaffermazione, intraprendono il cammino verso la liberazione umana”. Il libro testimonia di un momento storico in cui il problema dell’autoaffermazione omosessuale, di quel “venire a patti con se stessi”, indicava la necessità e l’urgenza di fare dell’orgoglio e della visibilità di determinati comportamenti una rivendicazione pubblica e collettiva, in cui cioè la libertà sessuale non poteva essere più il problema di condotte individuali più o meno represse o tollerate, ma diventava la pratica di una sovversione di ruoli e gerarchie sessuali che informavano “la società in generale”.
L’ambizione di quel movimento di liberazione, fatto di omosessuali, lesbiche, trans*, queer, e al contempo donne, proletari, neri e migranti, era di scuotere le fondamenta patriarcali di una società capitalista e razzista che, attraverso determinate soglie di categorizzazione, stabiliva gerarchie di subordinazione, sfruttamento e oppressione. Tutt’altro che celebrativo della comunità, della socialità e della politica omosessuale come si era data fino a quel momento, il libro di Altman invitava il movimento omosessuale di allora a inventare, in dialogo con gli altri movimenti radicali dell’epoca, un processo trasformativo che non si accontentasse di riprodurre quel processo di istituzionalizzazione delle identità attraverso l’inclusione in una società sbagliata, che le avrebbe comunque integrate e fagocitate. Si trattava invece di essere una spina nel fianco di quella società, di attivare un processo di scardinamento del suo individualismo: “No pride for some of us without liberation for all of us” diceva Marsha P. Johnson. Oggi quella necessità di attaccare “la società in generale” è ancora presente, ma come fare in modo che la potenza sovversiva della libertà sessuale non si riduca all’etichetta di un’identità e quindi al nome di un destino?
Nella celebrazione contemporanea dei moti di Stonewall e della radicalità di un movimento di liberazione sessuale con cui ci si vuole porre in continuità, le parole e i miti fondativi andrebbero forse evitati. Eppure, più che le soluzioni del passato sono le domande che possono ancora servire. Una discussione su che cosa ne è di quel movimento di liberazione oggi può partire ad esempio dal chiedersi cosa ne è di quel “duplice impatto”. Osservando le manifestazioni oceaniche che attraversano mezzo mondo nella stagione dei pride, divenuti in alcuni luoghi grandiosi eventi commerciali, in altri duramente repressi insieme a ogni lotta che metta in questione le gerarchie del presente, possiamo chiederci che forza ha oggi quella pretesa di sovversione dell’esistente nella lotta per la libertà sessuale e che significato assume oggi questa espressione.
Libertà sessuale, oggi come allora, non è il nome di qualcosa che abbiamo. Libertà sessuale non è la sfera di possibilità dell’individuo che il diritto protegge o che le norme sociali consentono. Libertà sessuale è il nome di un problema che mette in discussione e agita il presente e le forme su cui si radica. La libertà sessuale è il movimento di costante messa a critica dei ruoli e delle identità sessuali e delle gerarchie che questi stabiliscono riproducendo la società identica a se stessa. In questo senso, quando viene agitata polemicamente in forma organizzata, la libertà sessuale diventa una forza d’impatto che attacca la riproduzione complessiva della società, cioè che cambia i rapporti sociali. Poiché non riguarda solo gli spazi certificati di libertà individuale o gli stili di vita ridotti a modelli di consumo, ma si scontra con le condizioni materiali in cui è o non è praticabile, la libertà sessuale può essere terreno di lotta contro il razzismo e lo sfruttamento perché la riconosciamo come una forza di cambiamento interna e connessa ad altre lotte. Proprio per questo la lotta per la libertà sessuale non può accontentarsi della trasgressione della norma, specie nel momento in cui questa norma prende la forma della violenza delle destre, o di politiche che riducono le pratiche sessuali e le identità di genere a opzioni equivalenti sul mercato. Quella violenza e la forma neoliberale della libertà devono essere attaccate in tutte le loro espressioni, stabilendo una comunicazione tra chi lotta contro di esse.
In modo diverso da un tempo, la libertà sessuale resta oggi quel potere sovversivo che spaventa, e non a caso essa è al centro degli attacchi di una destra sempre più reazionaria che tenta di ristabilire la famiglia come istituzione cardine della società. La libertà sessuale è sotto attacco perché donne e queer che la praticano devono essere rimessi “in ordine” anche con la violenza per garantire la riproduzione della società. La libertà sessuale è sotto attacco perché è in corso una guerra mondiale che oltre a uccidere e distruggere, porta con sé a tutte le latitudini il suo corredo di discorsi nazionalisti e patriarcali che pretendono di stabilire il posto “naturale” di donne e uomini in nome del sacrificio per la patria o della religione. La libertà sessuale è sotto attacco perché precariato, povertà e disuguaglianze fanno della libertà di ciascuno una questione di classe e una funzione del denaro di cui si dispone, frammentando così ulteriormente le nostre lotte e rendendole più deboli. La libertà sessuale è sotto attacco perché il razzismo istituzionale stabilisce a partire dal colore della pelle o della provenienza geografica la possibilità o meno di praticarla, sulla base di un documento che si ha in tasca o di un pregiudizio razzista. Anche davanti a governi non apertamente ostili, o persino progressisti, la libertà sessuale è sotto attacco, perché le istanze che esprime vengono costantemente irretite e mercificate da un capitalismo che mette a valore le differenze rendendole prodotti da vendere e comprare.
Riattivare il portato sovversivo della libertà sessuale è quindi un’urgenza, perché urgente è il rifiuto di quella violenza che prende la forma di un comando sulla sessualità, pretendendo di stabilirne ruoli, divisioni e gerarchie. Non basta dire apertamente chi si è, se non si decide anche da che parte stare. Riattivare la sovversione significa allora anche rivoltarsi contro il conformismo delle formule e delle parole d’ordine con cui finora si è cercato di nominare quell’indisponibilità alla coazione. Abbiamo bisogno di liberarci del gergo che ci rassicura di appartenere a comunità già liberate, quando le parole che usiamo rischiano di perdere la capacità di generare uno schieramento o addirittura riproducono la nostra frammentazione e stabiliscono identità date, anziché permetterci di rovesciare le condizioni che le producono come identità oppresse.
Le manifestazioni di massa che continuano ad attraversare mezzo mondo mostrano senz’altro che quella pretesa di libertà sessuale è tutt’altro che pacificata, che donne e uomini, queer e lgbtq, continuano a praticare collettivamente il rifiuto di un determinato ordine sessuale. Eppure, l’insufficienza delle parole e dei discorsi che oggi dovrebbero organizzare quella pretesa sembra un limite che difficilmente si può negare. È innanzitutto un limite pensare secondo la logica della rappresentanza o della visibilità delle identità, come se al problema dell’espansività di un movimento si potesse rispondere moltiplicando il riconoscimento di istanze e posizioni tanto diverse quanto astrattamente uguali.
Non a caso, di fronte al moltiplicarsi di istanze e di bisogni, pur assolutamente reali, la risposta prevalente è venuta dal linguaggio dei diritti, di cui a fatica si può fare a meno, ma che ha ormai perso non solo il portato emancipatore, ma anche un’efficacia politica. Dalla pretesa di un diritto al godimento si è finiti ad accontentarsi del godimento dei diritti. Ci si dovrebbe allora chiedere come, di fronte ad anni di politiche neoliberali e al ritiro dello stato sociale, la rivendicazione di diritti, anche quando qualificati come sociali, abbia qualche possibilità non soltanto di ottenere qualcosa ma anche di dare spazio a una politica di schieramento che non ripropone la frammentazione e l’isolamento che proprio i diritti producono, essendo sempre solo per alcuni. Vestiti di tanti diritti quante sono le posizioni che ciascuno occupa, le istanze di libertà si riducono alla tutela del proprio privato. Vale però ricordare ancora una volta il vecchio adagio per cui tra uguali diritti decide la forza, così che alla fine a guadagnarci è chi di forza già dispone. Questo sembra tanto più vero dove il neoliberalismo ha assecondato e incentivato la realizzazione individuale, ammantandola di diritti, ma solo nella misura in cui essa passi dalla disponibilità a pagare.
D’altra parte, davanti ai bisogni individuali (di relazioni, di stabilità, di futuro) il capitale non si tira indietro, anzi offre sempre più servizi specializzati di assicurazione e previdenza, di accesso alla genitorialità o di impiego del tempo libero, indirizzati alle donne o alla comunità lgbtq, trasformando così di fatto una pretesa di libertà in una esigenza di consumo, un desiderio di emancipazione in una merce da scambiare. La stessa fortuna riscossa a certe latitudini dalla sigla lgbtq dovrebbe essere pensata in relazione dall’affermazione del capitale neoliberale nel produrre identità messe a valore, dove a ciascuno è garantita la propria rappresentazione purché non si mettano in discussione le fondamenta razziste, patriarcali e capitaliste su cui si struttura la società. Anche quando si è presentato nella sua veste più conservatrice, il capitale neoliberale ha fatto del governo delle identità il proprio contrafforte, riducendo il loro rapporto a una forma di concorrenza. È in particolare il caso delle rivendicazioni intorno al diritto di famiglia, dove la lotta condotta sulla linea dell’inclusione o dell’esclusione ha finito per nascondere la funzione di riproduzione sociale che proprio la famiglia è chiamata a svolgere.
Mentre nella sua faccia più conservatrice il neoliberalismo si mostra apertamente ostile alla libertà sessuale, facendo della difesa della famiglia “tradizionale” il proprio cavallo di battaglia, nella sua faccia più progressista non si fa problemi ad includere forme potenzialmente alternative di composizione familiare, ma solo nella misura in cui esse non mettono in discussione la divisione pubblico/privato con il carico di lavoro riproduttivo non retribuito che essa comporta. Per lo stesso motivo, potenzialmente non c’è riconoscimento di forme alternative di cura o di affettività che, per quanto trasgressive o non conformi, non possa trovare il proprio posto e accomodamento nel governo neoliberale delle identità, e nella gestione privatizzata della riproduzione della vita e dei suoi rischi. Anche qui il problema è la forza sovversiva di queste forme, perché nei fatti si ritrovano a non poter scardinare come vorrebbero la logica a cui si contrappongono. Riattivare il portato sovversivo della libertà sessuale significa allora anche rifiutare questa alternativa, lottando tanto contro il conservatorismo più reazionario quanto contro l’inclusione in una società fatta di sfruttamento, oppressione e diseguaglianze.
Quel “duplice impatto” del movimento sui soggetti e sulla società in generale va ancora coltivato nella convinzione che una possibilità radicale di trasformazione passa necessariamente dalle forme e formule che ci diamo e dalle possibilità di creare connessioni che queste stabiliscono. Per fare questo i pride e le forme di critica che nascono dentro e contro la loro deriva istituzionale o commerciale non possono limitarsi alla riaffermazione di sé e delle proprie identità, come se la libertà sessuale fosse qualcosa che deve essere solo riconosciuto, anziché qualcosa per cui è necessario combattere. La sua repressione violenta nei contesti in cui il patriarcato neoliberale usa le armi dell’autoritarismo e della criminalizzazione sta insieme alla sua liberalizzazione individualistica e commerciale. Tra questi estremi vanno create le condizioni di una lotta che permetta di trasformare la battaglia per il riconoscimento in una pretesa di sovversione delle gerarchie che sostengono il mondo in guerra, liberandosi anche dal carattere totalizzante dell’identità e dalla frammentazione che producono, alimentando il desiderio che continua a motivare milioni di queer, donne e uomini, a non essere schiacciati in ruoli, identità e gerarchie prestabilite.