di GIORGIO GRAPPI
La versione abbreviata di questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 12 giugno 2024
The Politics of Migrant Labor Exit, Voice and Social Reproduction, di Gabriella Alberti e Devi Sacchetto (Bristol University Press, 2024), sistematizza un percorso di ricerca nel quale i due autori sono impegnati da anni e che li ha portati a interrogarsi sulla politicità dei comportamenti del lavoro vivo visti dalla prospettiva del lavoro migrante. Questo percorso parte dall’insoddisfazione rispetto al ruolo di comprimari in cui le teorie economiche e di sociologia del lavoro, non di rado anche quelle critiche o ‘marxiste’, relegano i lavoratori e lavoratrici migranti. Alberti e Sacchetto sostengono invece che attraverso il lavoro migrante sia possibile mettere in luce caratteri distintivi dei comportamenti complessivi del lavoro vivo contemporaneo. Il volume ruota intorno a quattro questioni fondamentali: il processo lavorativo, la logistica della mobilità, la riproduzione sociale e le relazioni industriali, avendo al centro il tema del turnover lavorativo, che i due autori affrontano andando a colmare una serie di gap degli studi sul tema. Questi sono infatti spesso limitati da una visione che assume il punto di vista delle aziende e si limita a considerare il turnover come questione interna a un mercato del lavoro sostanzialmente compreso entro i confini nazionali. Per superare questi limiti Alberti e Sacchetto propongono di guardare al turnover dalla prospettiva del lavoro migrante e della riproduzione sociale assumendo una sensibilità intersezionale verso le condizioni concrete del lavoro vivo.
Come misura generale oggettiva di comportamenti soggettivi il turnover, inteso come insieme dei “movimenti in ingresso e in uscita dai posti di lavoro in un dato periodo di tempo”, può essere misurato in modi più o meno statisticamente asettici. Al centro vi è tuttavia un elemento fondamentale di tensione, poiché esso costituisce anche “una prima, grezza, risposta” non solo nei confronti di condizioni di lavoro “degradanti e inaccettabili”, ma anche “alle forme di segregazione razziale e di genere a cui [i lavoratori] sono soggetti dentro e fuori i posti di lavoro”. Forme che, mettono in guardia i due, non sono applicate solamente dai datori di lavoro, ma anche spesso riprodotte dalle pratiche sindacali. In questo senso quelli che appaiono come meri effetti di strategie aziendali o come comportamenti individuali atomizzati assumono i contorni di una strategia collettiva messa in atto dai migranti. Ma c’è di più: segnalare l’elemento di tensione che si esprime nel turnover permette di mettere a fuoco lo scontro costante tra le spinte soggettive del lavoro vivo e il tentativo da parte di governi e datori di lavoro di “coordinare le risposte dello Stato e del capitale alle continue incertezze che circondano la mobilità del lavoro”. Questo sforzo si esprime attraverso politiche di governo della forza lavoro migrante che tengono assieme le più variegate leggi sull’immigrazione e i più fantasiosi schemi di reclutamento to the point o sulla migrazione temporanea.
In un percorso storico e geografico che non nasconde i propri debiti con il lavoro di Yann Moulier-Boutang, l’analisi di Alberti e Sacchetto attraversa così la schiavitù e l’ascesa del lavoro di fabbrica per arrivare ai diversi programmi di reclutamento transnazionale come il programma bracero e gastarbaiter, fino al sistema di sponsorizzazione kafala. Queste esperienze mostrano che, se è vero che il turnover e il reclutamento di lavoratori migranti fanno parte delle strategie organizzative del capitale, queste devono sempre fare i conti con la fondamentale risorsa operaia della mobilità, contro la quale continuano a scaricarsi le forme più brutali di intrappolamento e imbrigliamento.
Contro l’alternativa tra azione individuale e collettiva, gli autori invitano a considerare il rapporto tra mobilità e protesta andando oltre il classico schema di Hirschman di una voice che si esprime anche attraverso la exit. Lungi dal rappresentare un fattore esterno rispetto a una presunta normalità sedentaria della classe operaia, la mobilità è invece il sito uno scontro costante tra i tentativi di irreggimentazione e valorizzazione e la “logistica del lavoro vivo”. Guardando da vicino le dinamiche di segregazione e le pratiche di rifiuto che attraversano quelle che Alberti e Sacchetto definiscono le “enclave di lavoro differenziato” che punteggiano le reti transnazionali del valore tanto nel Sud quanto nel Nord globali, essi mettono anche in luce la rilevanza delle specifiche composizioni di forza lavoro, di cui razza e genere sono dimensioni determinanti. Questa osservazione empirica porta i due autori a considerare la riproduzione sociale come terreno di conflitto in continuità con quello della produzione. Non solo perché le politiche migratorie intervengono sempre di più nel tentativo di controllare e indirizzare anche la riproduzione – dalle politiche dei ricongiungimenti all’accesso a servizi, dalle politiche abitative ai costi della sanità e della formazione – ma perché l’azione dei lavoratori va compresa guardando anche fuori il posto di lavoro. Ecco allora che emergono comportamenti che segnalano l’uso operaio di alcuni siti specifici, come i dormitori, da parte di una classe operaia “transnazionale” che fa della lontananza o assenza di famiglia, e dei conseguenti minori costi della riproduzione, una risorsa per migliorare la propria condizione. Per quanto esistano contesti, come le grandi fabbriche cinesi, nel quale il rapporto fabbrica-dormitorio si presenta come un circuito sostanzialmente chiuso, nel contesto di reti di mobilità allargate, in cui i migranti accumulano conoscenze e “competenze” condivise sulle opportunità e le condizioni di lavoro, i dormitori possono essere compresi come parti di più ampie “reti di alloggio” alle quali i lavoratori migranti si appoggiano nel perseguire i propri obiettivi. Se il turnover ‘registra’ questi comportamenti, risulterà evidente come le condizioni della mobilità e dell’immobilità, e i regimi migratori, siano un elemento centrale in grado di comprimere o aumentare gli spazi di azione dei lavoratori e delle lavoratrici.
Come ripensare, dunque, il potere dei lavoratori dalla prospettiva della migrazione? Il libro di Alberti e Sacchetto permette di pensare il conflitto sulla mobilità come sintomo di una forma di potere del lavoro migrante, che si esprime e si accumula attraverso una “pratica critica di fuga e resistenza” nel contesto di un mercato del lavoro transnazionale, segnato dallo scontro logistico sulla mobilità, dalla crisi della riproduzione sociale e dal proliferare di regimi differenziati di im/mobilità attraversati da gerarchie di razza e genere. In questo contesto, che vede la disarticolazione delle forme collettive, i rapporti di potere si determinano all’interno di un continuum tra pratiche individuali e collettive, così come tra produzione e riproduzione e tra dimensioni locali e processi transnazionali. Lo sguardo suggerito da Alberti e Sacchetto invita così a compiere una mossa ulteriore e politicamente rilevante: riconoscere come anche le forme e le pratiche soggettive del lavoro vivo, e non solo l’operato del capitale, mettono in discussione gli spazi e i tempi dell’organizzazione politica, in primis quella sindacale.
Il turnover incontrollato dei migranti e la loro “mobilità incerta” contribuiscono ad alimentare l’imprevedibilità in un contesto caratterizzato da costanti squilibri e forze in competizione tra loro, tra le quali imprese e Stati, che vorrebbero considerare la forza lavoro disponibile just-in-time. Appare tuttavia evidente come questa ricchezza di esperienze non trovi oggi forme e terreni capaci di farne la base per rovesciare i rapporti di potere. Alberti e Sacchetto passano in rassegna una serie di esperimenti di innovazione organizzativa, forme di organizzazione sociale che attraversano il terreno della riproduzione, ed esperienze di protagonismo migrante che hanno portato a una rivitalizzazione della forma-sindacato in contesti di crisi del sindacalismo, segnalando come la scarsa attenzione dedicata al lavoro migrante va superata anche dal punto di vista degli studi sulle forme di contrattazione collettiva. Se, da un lato, emerge una figura collettiva, quella dell’operaio transnazionale, questa non è facilmente organizzabile, e certamente non lo è all’interno delle forme sindacali esistenti.
La sfida è dunque quantomeno triplice: da un lato, occorre riconoscere la dimensione conflittuale e di lotta dei comportamenti operai, fuori da automatismi e interpretazioni semplicistiche di categorie come quella di esercito industriale di riserva, valorizzando quelle competenze e capacità operaie che si esprimono nella migrazione e sono invece mobilitate per conquistare spazi di movimento, autonomia e libertà; occorre poi comprendere come la dimensione interna ai luoghi di lavoro e quella più generale della riproduzione sociale siano intrecciate e si sviluppino sullo sfondo di rapporti e processi transnazionali, approfondendo l’attenzione verso figure come quelle dei rifugiati e dei richiedenti asilo, solo accennata nel volume, e allargando lo sguardo anche ad altre tendenze che contribuiscono oggi a disarticolare ogni ipotesi di ordine interno al mercato del lavoro, complicando il rapporto tra mobilità e immobilità, come ad i cosiddetti “migranti digitali”, sempre più rilevanti nell’economia dei dati; in ultimo, vanno costruite e rafforzate forme di comunicazione e organizzazione che permettano di fare leva sulle pratiche di sottrazione e di conflitto messe in atto dal lavoro vivo per aprire spazi di trasformazione delle forme di vita e di riproduzione che possano durare nel tempo.
È infine importante ribadire, come più volte fanno gli autori, che non si tratta di pensare ad affrontare un tema, quello della migrazione, separato dal resto, né di riconoscere e sostenere i e le migranti come soggetti particolarmente svantaggiati, ma di assumere lo scontro sulla mobilità come una faglia fondamentale lungo la quale si determinano i rapporti complessivi di classe. Appariranno così sotto diversa luce anche i diversi provvedimenti che mirano a restringere gli spazi di libertà delle e dei migranti nel nome della sicurezza o di presunte ‘minacce ibride’ in uno scenario dia guerra e dalla crescita del militarismo, e diventerà sempre più chiaro che la lotta per la libertà del lavoro migrante, come lotta del lavoro vivo contro lo sfruttamento, sia una parte ineludibile del rifiuto del militarismo sempre più diffuso.