sabato , 21 Dicembre 2024

Il Regno Unito nell’Europa in guerra

di MARCO MELITI e MARIA GIULIA SESTITO

Police try to stop protesters forming a blockade around a coach in Peckham (Yui Mok/PA)

«Affrettare la preparazione militare non significa affermare l’imminenza della guerra. Al contrario, se la guerra fosse imminente, per la preparazione sarebbe troppo tardi». Durante la sua ultima visita in Polonia, il Primo Ministro inglese Rishi Sunak si è richiamato direttamente a Winston Churchill per chiarire cosa significhi prepararsi per una guerra che non è più relegata al passato. Se la guerra guerreggiata è già in Europa, anche se non così vicina da coinvolgere militarmente la popolazione del paese, tuttavia non si può rischiare di essere presi alla sprovvista dal caotico svolgimento della Terza guerra mondiale, né dai tentativi di governarlo tramite le misure sociali e militari approvate dai governi alleati. Essere pronti alla guerra richiede allora non solo un ingente aumento della produzione di armi, ma anche disciplina, sfruttamento e sacrificio di uomini e donne in nome della nazione. Il militarismo crescente in Europa si afferma anche al di là della Manica quale effetto della guerra in corso e necessità per affrontare la guerra imminente.

Prepararsi per la guerra significa fortificare i confini, a partire da quelli nazionali. Mentre cinque migranti affogavano nel tentativo di attraversare la Manica, il parlamento britannico, mosso da dichiarata compassione per questa continua tragedia, approvava il Safety of Rwanda Bill. Il programma di deportazione di centinaia di migranti è ora legge, nonostante un numero crescente di ingiunzioni per violazione dei diritti umani e per riproposizione di dinamiche da tratta degli schiavi. La lunga discussione parlamentare che l’ha preceduto è stata necessaria per dichiarare la sicurezza del Rwanda – in risposta al provvedimento della Corte Suprema inglese dello scorso novembre che aveva definito illegittimo il memorandum con il paese africano – e per smarcarsi da possibili interferenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Non che il diritto o gli appelli alla morale siano mai stati dalla parte delle e dei migranti. Piuttosto, il programma inglese di esternalizzazione delle frontiere e deportazione è un altro tassello che si aggiunge alla più generale guerra alla loro libertà di movimento, di cui fa parte anche il Patto europeo su Migrazione e Asilo recentemente approvato dall’UE. Su questo come su altri fronti, nonostante la Brexit, il Regno Unito continua a essere Europa. Potranno anche esserci tattiche diverse – i conservatori, per esempio, sperano di guadagnare qualche manciata di voti nelle imminenti elezioni celando il ruolo che i laburisti hanno avuto nell’approvazione della legge con lo slogan «we stop the boats, Labour stops the flights» –, ma la strategia è comune: da Unione Europea a Regno Unito, la politica transnazionale contro le e i migranti è la stessa. D’altronde, la vicina Irlanda ha già annunciato di essere pronta a rispedire verso Londra qualsiasi richiedente asilo tenti di scappare dal suolo britannico attraversando il confine nordirlandese, con la speranza di sfuggire alle identificazioni e agli arresti già avviati negli scorsi giorni in vista delle future deportazioni. Da parte sua, l’Inghilterra risponde di non aver intenzione di farsi carico di altri migranti provenienti da suolo europeo se non può rispedire in Francia quelli che arrivano coi barchini.

Attrezzarsi per la guerra significa riconoscere che i confini da rinsaldare sono anche quelli interni. Il Rwanda Bill, così come i nuovi criteri per ottenere un visto lavorativo, svolgono anche questa funzione e riproducono gerarchie fra migranti e cittadini, così come fra gli stessi migranti, basate sul paese di origine, sul colore della pelle, sul sesso, sul lavoro e sul reddito. Da qualche settimana, il governo ha modificato i criteri per ottenere i visti lavorativi e quelli familiari, alzando le soglie di reddito di oltre dieci mila sterline l’anno e rendendo più difficile l’ingresso a lavoratori “non qualificati” e il ricongiungimento familiare. L’obiettivo dichiarato, in linea con i tagli alla spesa pubblica ripresi dopo la breve sospensione pandemica, è ridurre la pressione sul welfare dei familiari a carico delle e dei lavoratori migranti e contemporaneamente rimettere a lavoro quella massa di buoni a nulla se non a dipendere dai sussidi statali, a maggior ragione se hanno il passaporto blu del Regno Unito. Il nuovo servizio MediWork monitorerà quindi gli operatori sanitari per prevenire il numero di malati cronici e renderà più complicato l’accesso alle esenzioni lavorative per motivi di salute. Il benessere fisico e mentale dei lavoratori e delle lavoratrici viene così messo in secondo ordine rispetto al benessere dei bilanci dei padroni. L’unico farmaco per superare la solitudine e l’isolamento sociale è perciò il lavoro, una medicina in grado di porre fine anche alla “cultura della giustificazione della malattia”.

Affrettarsi alla guerra è allora sapere che per tutte e tutti c’è un posto non questionabile e un compito preciso. Se ai migranti tocca fare i migranti, lavorando in solitudine senza mettere radici a meno che non siano ricchi abbastanza da poterselo permettere, ai lavoratori e alle lavoratrici spetta servire la nazione attraverso il lavoro, affinché possano guadagnare salari miseri per pagarsi la riproduzione quotidiana e non pesare sulle finanze dello stato impegnate nella guerra. Nazionalismo, familismo e sfruttamento sono chiamati in causa per giustificare l’aumento delle spese militari di 23 miliardi di sterline nei prossimi sei anni e l’istituzione della Defence Innovation Agency per la fabbricazione di armi, presentati come investimenti nelle generazioni future, dal momento che la Terza guerra mondiale ha bisogno di armi e della forza lavoro che le produca e si prepari a imbracciarle. Ma è certamente anche un investimento nel presente poiché, finché non è coinvolta in una guerra guerreggiata, l’industria bellica può produrle, prometterle e venderle in altri teatri di guerra. Sull’altare del nazionalismo si può continuare infine a sacrificare ulteriormente la spesa pubblica, come dimostra il fatto che due terzi delle spese per la difesa sono pagati attraverso tagli al numero di dipendenti pubblici. D’altra parte, il governo ha investito negli asili nido affinché più bambini possano frequentarli, così da affrancare papà e (soprattutto) mamma dalla cura e averli a disposizione nel mercato del lavoro. L’accesso al servizio è così vincolato alla coazione al lavoro nonché alla cittadinanza dei genitori, dal momento che, per ottenere i pochi posti in asili finanziati dallo stato, bisognerà dichiarare di rientrare a lavoro entro la fine di settembre, mentre i migranti ne sono esclusi. Alleggeriti nei loro fardelli della cura, gli uomini e ancor di più le donne sono chiamati a rispondere alla loro doppia natura produttiva e riproduttiva, sapendo che la naturalità stessa del loro sesso non può essere messa in discussione perché, come ha detto Sunak, è lineare che l’uomo sia uomo e la donna sia donna.

La preparazione della guerra che Sunak ha in mente si rifrange così in molteplici guerre sociali: di classe contro lavoratrici e lavoratori, razzista contro le e i migranti, e patriarcale contro le donne e le persone LGBTQIA+. Risuona, si accorda e riverbera con le politiche di un’Europa sempre più a destra ed entro cui la guerra guerreggiata e il militarismo, che ideologicamente e materialmente l’accompagna, stanno determinando le condizioni di vita, lavoro e lotta di milioni di proletari e proletarie. Dall’opposizione a queste guerre passa la nostra possibilità di sparigliare i preparativi per la guerra. Le piazze contro il genocidio in Palestina, le proteste contro il Rwanda Bill, le mobilitazioni studentesche e femministe sono elementi necessari di una politica contro la guerra. Dalla loro connessione passa la capacità di non rimanere schiacciati sotto le macerie di una guerra senza fine e di costruire una politica transnazionale di pace.

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