sabato , 21 Dicembre 2024

Per la critica della resistenza

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Nel passato più e meno recente, in Italia, l’invocazione alla “resistenza” è risuonata in mobilitazioni diverse. È risuonata nel giugno 1960, nella rivolta contro il convegno nazionale dell’MSI, partita da Genova e poi estesa in tutta la penisola. Dietro lo slogan “ora e sempre resistenza”, che portò alla caduta del governo Tambroni, non c’era solo la difesa dell’assetto costituzionale democratico, ma si intravedeva un nuovo soggetto operaio che con le sue lotte avrebbe contrassegnato il ventennio successivo. Anche negli anni Settanta, in risposta alla strategia stragista dello Stato e dei gruppi neofascisti, l’idea di resistenza si è saldata ai movimenti di una generazione di proletari che non accettava la fabbrica come destino. Resistere significava lottare per impedire che lo stragismo e la reazione emergenziale e repressiva dello Stato bloccassero la dinamicità e radicalità dei processi di trasformazione della realtà che si stavano sperimentando. Nel 1994, all’alba del governo Berlusconi I, un enorme corteo lanciato dal gruppo del Manifesto attraversò la città di Milano. Fu partecipato da centinaia di organizzazioni politiche e sindacali, centri sociali, associazioni della sinistra e collettivi, e da una moltitudine di soggetti che, cantando sotto la pioggia battente “O partigiano portali via”, chiamava a resistere contro il primo esecutivo che sdoganava la partecipazione istituzionale dei neofascisti dell’MSI al governo. Il corteo di Milano fu un passaggio importante per ciò che avvenne negli anni successivi, fino alle giornate di Genova del luglio 2001 e oltre. Resistere, nelle piazze e nei contro-vertici di Praga, Seattle, Genova ecc., significava rilanciare un’altra idea del mondo globale.

La resistenza, in questi esempi (altri se ne potrebbero fare), ha modificato il carattere reattivo che contraddistingue il termine perché si è innestata nelle lotte, dentro momenti di organizzazione e progetto politico contro lo sfruttamento e l’oppressione: non solo azione di contrasto in un campo di forze designato dalla controparte, ma processo di trasformazione dello stesso campo di lotta. Del resto, questo è stato uno dei tratti caratterizzanti della resistenza partigiana operaia e comunista: un’esperienza militante che ha rotto i fronti trasformando la guerra patriottica in lotta di classe, uno scontro di parti – e non di popolo – con il quale operai e donne hanno saputo cambiare lo sguardo sul presente, rompere con il fascismo che aveva segnato le loro storie e biografie per abbracciare la scelta partigiana intesa come lotta per non essere più ciò che si è o si è stati. Qui sta il significato della resistenza come liberazione.

Oggi, alle nostre latitudini, la parola “resistenza” appare vaga come le stelle dell’Orsa. Per come è stata utilizzata negli ultimi anni, l’idea di resistenza non sembra più in grado di tenere insieme organizzazione, politicizzazione e trasformazione. Anzi, il discorso sulla resistenza rende difficile articolare le lotte, che pure esistono, nel quadro di una politica contro la guerra che sia all’altezza del conflitto in corso dal Medio Oriente al Mar Rosso passando per l’Est Europa. Dove cadono le bombe, in Palestina come in Ucraina, resistenza significa lotta obbligata per la sopravvivenza quotidiana, riproduzione della propria esistenza, fuga o diserzione per trovare riparo dalla carneficina. È una resistenza diversa da quella propagandata dal cosiddetto “Asse della Resistenza”, il cui progetto politico riproduce lo stesso nazionalismo, patriarcato e sfruttamento contro cui dovremmo lottare. È, inoltre, una resistenza diversa da quella di chi combatte per la difesa o la definizione di un confine, cioè per lo Stato e il ripristino della sua sovranità territoriale, che non risponde solo all’esigenza di avere dei diritti, ma anche al sogno di ripristinare l’integrità immaginaria di un popolo e della sua identità.

A chi vive sotto le bombe e ha l’urgenza della sopravvivenza non si può chiedere di soffermarsi su queste distinzioni. A chi, invece, pur subendo gli effetti della guerra (e del militarismo che l’accompagna) vede le bombe solo da lontano, si può chiedere questo sforzo. Quando si parla di resistenza, a quale tipo di resistenza facciamo riferimento? In che modo parlare oggi di resistenza può produrre degli effetti politici di liberazione ed emancipazione dallo sfruttamento e dall’oppressione? Ci sembra il momento di chiederci come si può avviare un processo in grado di politicizzare soggetti che non sono già determinati a priori, soggetti di cui non si tratta semplicemente di affermare un’identità negata. Un processo, insomma, capace di sperimentare forme di organizzazione in grado di porsi il problema di trasformare la realtà, invece di replicare l’esistente. Dobbiamo cioè porci il problema di andare oltre il carattere reattivo della resistenza per trasformare il campo di forze che rimane altrimenti inevitabilmente determinato dalla controparte incarnata di volta in volta da un governo, da uno Stato, da una piattaforma capitalistica. Ci pare che queste domande siano ineludibili per affrontare politicamente la questione della resistenza oggi. Allo stesso modo, pensiamo sia necessario contrastare la logica bellica del campismo e dei blocchi in tutte le sue espressioni, anche quando si presenta sotto forma di resistenza. Se non riesce a rispondere alle questioni poste sopra, il discorso sulla resistenza rischia infatti di alimentare una divisione in campi che riproduce la logica della guerra e impedisce di costruire la propria parte in autonomia, fuori dai blocchi imposti dalle contrapposizioni geopolitiche o identitarie. Il problema non è contro chi si resiste e si lotta, ma contro che cosa: contro un ordine sociale fatto di razzismo, sessismo, sfruttamento e oppressione che attraversa i confini degli Stati combattenti.

La presenza di questo campismo e la sua accettazione come “male minore” indicano le difficoltà che sconta oggi ogni tentativo di politicizzazione del discorso sulla resistenza. Questo è ancora più vero oggi in Italia, dove il governo di destra sta conducendo una battaglia per l’egemonia culturale con la conseguente cancellazione della stessa Resistenza storica e antifascista. Di fronte a questo attacco e in vista del prossimo 25 aprile bisogna chiedersi seriamente se l’appello alla resistenza riuscirà a superare il suo carattere reattivo e a trasformarsi in liberazione. Altrimenti esso sarà un discorso morale e la sola azione che riuscirà a produrre sarà una solidarietà scontata ed effimera, magari limitata ai social network.

Se la resistenza diventa un fatto morale, resistere diventa giusto, a prescindere dai presupposti e dagli scopi dell’azione resistente. In questo modo, si finisce per trattare i soggetti che compongono gli schieramenti attuali come se fossero internamente omogenei, senza cogliere l’oppressione e lo sfruttamento che li attraversano insieme alle lotte che vi si oppongono. Si perde la capacità di riconoscere come compagne e compagni di lotta chi si oppone al proprio Stato, rifiutando di assecondare la sua logica mortifera. L’appello alla resistenza finisce poi per stabilire una gerarchia delle oppressioni: la pretesa di libertà delle donne curde e iraniane, che dopo lo scontro armato con Israele il governo di Teheran ha represso con ancora maggior forza, viene sacrificato sull’altare della geopolitica per via del ruolo “resistente” attribuito all’Iran in Medio Oriente e in nome della “giustizia universale” di questa resistenza. Il riferimento alla resistenza dovrebbe così imporci di credere che la lotta contro il patriarcato, il razzismo e lo sfruttamento sia praticabile solo una volta che si sia riconquistata una piena sovranità nazionale. È l’abbaglio di una resistenza che si fa mito, bloccando le possibilità presenti nel disordine attuale, invece di aprirle a un mutamento che non si accontenti di resistere.

Dall’Europa agli Stati Uniti la pulizia etnica praticata dallo Stato di Israele contro i palestinesi sta creando risposte non meramente resistenziali, perché avvengono nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle università mostrando un’indisponibilità diffusa alla geopolitica di guerra degli Stati occidentali. Gli Stati che appoggiano i palestinesi non sono però né alleati momentanei né amici duraturi. Sulle loro politiche confessionali e patriarcali, sul progetto di società che li caratterizza, il nostro giudizio non può essere sospeso nemmeno per un istante. Un’assemblea generale di movimento che, partendo dalle mobilitazioni per la Palestina, discuta delle possibilità di azione nel presente è dunque più che auspicabile. Se ci sarà, non potrà essere un’assemblea che conferma la divisione in campi, né potrà essere animata dalla pretesa di sommare trionfalmente tutte le resistenze esistenti. Non potrà essere un’assemblea che discrimina su base etnica comunisti e oppositori e oppositrici israeliani all’occupazione, o che non si pone il problema del patriarcato, perché ora c’è la resistenza. Dovrà essere un’assemblea che pensi la nostra azione politica oltre la resistenza.

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