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Da Torino al Tennessee: i dolori dell’auto elettrica tra dismissioni e transizioni

Corteo “Il rilancio di Torino parte da Mirafiori” organizzata da tutte le sigle sindacali, Torino, 12 aprile 2024 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Venerdì 12 aprile in piazza a Torino a protestare contro la crisi di Mirafiori c’erano tutti. C’erano colletti bianchi e colletti blu, c’erano sindacati e imprenditori, c’erano cittadini e istituzioni, tutti a chiedere conto a Stellantis del crollo della produzione che negli ultimi mesi ha portato cassa integrazione e licenziamenti non solo in quella che fu la grande fabbrica, ma anche in molte aziende dell’indotto. La partecipazione è stata alta e un corteo sindacale unitario non si vedeva effettivamente da decenni, al punto che c’è chi lo ha addirittura definito come un “modello vincente”. È però davvero difficile capire che cosa ci fosse da vincere e da imitare in quello che sembrava piuttosto il funerale della città dell’auto.

L’unità sindacale e politica della piazza di venerdì è stata resa possibile proprio e soltanto dalla constatazione di una sconfitta ormai irreversibile, a tredici anni dal referendum con cui una risicata maggioranza di lavoratori aveva approvato il piano di ristrutturazione di Marchionne (con il supporto di CISL, UIL e PD). Un’unità, però, soltanto apparente, che nascondeva fratture tanto profonde quanto differenziate saranno le conseguenze della sconfitta. Quindi se in piazza c’erano tutti, ognuno c’era a modo suo. Da una parte, le operaie e gli operai erano in piazza per protestare con rabbia contro le condizioni di precarietà, incertezza e povertà a cui sono ridotti da ormai un quindicennio di licenziamenti, cassa integrazione, lavoro saltuario, salari decurtati e promesse mancate. Dall’altra, i politici e le istituzioni si dolevano in modo bipartisan per il declino produttivo della città appena pochi giorni dopo avere accolto amichevolmente con selfie e sorrisi l’a.d. di Stellantis Carlos Tavares, un insulto per gli operai che in piazza non hanno mancato di polemizzare: “o con lui o con noi”.

Nel mezzo, i sindacati facevano la voce grossa nel tentativo di nascondere la propria impotenza (nel caso della FIOM), se non le proprie dirette responsabilità (nel caso di tutti gli altri) in una dismissione tanto silenziosa quanto sistematica, che negli anni ha preso forme diverse, dal “polo del lusso” di Marchionne fino alla 500 elettrica assegnata a Mirafiori nel 2019. Un’opera di rimozione collettiva che da quarant’anni permette al sindacato di non fare i conti con la propria sconfitta e che ancora oggi consente al segretario generale FIOM di continuare a pretendere con una certa dose di nostalgia (ma d’altra parte ai funerali del morto si parla sempre bene) che «Torino torni a essere capitale italiana ed europea dell’auto» e a chiedere al governo la convocazione di un tavolo di trattativa in cui discutere con l’azienda nuovi investimenti.

Se infatti il sindacato appare sempre e inesorabilmente uguale a se stesso, né i padroni né lo Stato sono più quelli di una volta. I primi sono ormai attori transnazionali insensibili al richiamo delle proprie radici piemontesi e il secondo può fare poco per imbrigliarli, quando non ne è direttamente ricattato. Ne sono prova le recenti dichiarazioni di Tavares sulla possibilità, in assenza di adeguati incentivi e sgravi fiscali da parte del governo italiano, di ulteriori delocalizzazioni verso la Polonia (dove però nel frattempo chiuderà a fine anno una storica fabbrica Fiat, licenziando 500 operai). Una minaccia a cui il ministro del Made in Italy ha potuto solo rispondere, incredulo, che «non si può produrre in Polonia un’auto che si chiama Alfa Romeo Milano!», prima di dichiarare che bisogna aprire l’automotive italiano agli investitori cinesi. Contraddizioni del sovranismo.

Che quello di Torino fosse un corteo funebre più che sindacale è stato peraltro confermato quattro giorni dopo, il 16 aprile, quando Stellantis, dopo aver distribuito lauti dividendi agli azionisti e approvato gli stipendi milionari dei manager (a Tavares 36,5 milioni all’anno), ha annunciato un nuovo stop della produzione a Mirafiori e una nuova fase di cassa integrazione, questa volta estesa a tutti i poco più delle 2.000 operaie e operai rimasti.

La dismissione in atto a Mirafiori, però, non ha solo a che fare con il disinvestimento della ex-Fiat dalla propria città di origine, e nemmeno soltanto con una vendetta nei confronti di ciò che Mirafiori ha rappresentato per le lotte e l’immaginario operaio novecentesco, ma anche e soprattutto con i limiti della conversione all’auto elettrica, che si inseriscono nelle più ampie dinamiche transnazionali della transizione ecologica. Negli ultimi anni, infatti, l’elettrificazione del settore dell’auto è stata considerata, in Europa e negli Stati Uniti, come il potenziale elemento trainante di una transizione ecologica da realizzare nel mercato e tramite il mercato: la formula magica con cui i governi hanno sperato di poter tenere insieme riduzione delle emissioni e accumulazione di capitale, politiche green e sviluppo economico, clima e profitti.

Questo mantra, tuttavia, da un lato aveva trascurato i costi sociali della ristrutturazione elettrica del settore dell’auto e in particolare il rischio che essa venga usata come occasione per meccanizzare ulteriormente la produzione, per espellere una parte della forza lavoro e per impoverire quella rimanente, dal momento che la produzione di auto e batterie elettriche richiede meno componenti, meno fasi di assemblaggio e quindi meno lavoro rispetto ai motori a combustione interna. Dall’altro, non faceva i conti con il fatto che di per sé l’elettrificazione non può risolvere il problema delle emissioni, dal momento che l’energia elettrica per far muovere miliardi di automobili bisognerà pur produrla in qualche modo e attualmente le fonti di energia rinnovabili non potrebbero bastare. Inoltre, è ormai sempre più evidente che gli incentivi alla produzione e all’acquisto di auto elettriche che si sono moltiplicati negli ultimi anni (su tutti l’Inflation Reduction Act approvato dall’amministrazione Biden) non saranno sufficienti a rispettare gli obiettivi che gli Stati si erano dati in passato. Infatti, se la produzione di veicoli elettrici ha cominciato ad aumentare significativamente, la domanda non è riuscita a tenerle il passo, frenata da prezzi ancora troppo alti e da infrastrutture per la ricarica ancora inadeguate. Così, solo nelle ultime settimane, proprio in conseguenza di questo stallo della domanda, Tesla ha annunciato il licenziamento del 10% della propria forza lavoro e Stellantis stessa ha licenziato 400 impiegati in Michigan, mentre l’amministrazione Biden ha dovuto dimezzare i propri obiettivi per il 2030 in termini di veicoli elettrici sul mercato, anche per evitare che i costi sociali della transizione si traducano in voti per Trump nelle urne di novembre. È nel contesto di queste difficoltà transnazionali dell’auto elettrica che si inserisce il crollo della produzione della 500 a Mirafiori.

Il tentativo dei produttori di auto di scaricare sulla forza lavoro i costi della conversione ha però trovato negli ultimi mesi un’opposizione crescente sia in Europa, dove lo sciopero dei sindacati svedesi contro Tesla dura ormai da mesi, sia negli Stati Uniti, dove lo sciopero degli UAW contro le Big Three tra settembre e ottobre ha portato alla firma di un contratto sicuramente con molti limiti, ma che annunciava l’intenzione degli autoworkers statunitensi di portare lo scontro per il salario nel cuore della transizione ecologica. Da allora, gli UAW hanno inaugurato un nuovo tentativo di radicarsi proprio in quegli Stati del Sud dove le aziende stanno spostando la produzione di auto elettriche nel tentativo di approfittare di povertà, precarietà, razzismo e leggi antisindacali. Questa ambiziosa “Southern Strategy” è solo l’ultimo capitolo di un tentativo decennale (e finora sempre fallimentare) di sindacalizzare le fabbriche del Sud, per la maggior parte di proprietà di aziende straniere e in cui la forza lavoro è prevalentemente afroamericana o migrante, ma il cui successo sarebbe oggi decisivo per mantenere una qualche capacità di dettare le condizioni della conversione all’elettrico. Per riuscirci, sembra persino che gli UAW abbiano rinunciato all’attitudine centralizzatrice del passato per lasciare spazio di iniziativa e autonomia a lavoratori e lavoratrici che tentano di organizzarsi nelle fabbriche. Le prospettive di questa strategia potranno essere verificate già in questi giorni, visto che dal 17 al 19 aprile gli operai di un impianto Volkswagen a Chattanooga in Tennessee voteranno sulla possibilità di sindacalizzarsi tramite gli UAW. Un voto analogo è stato annunciato per aprile in una fabbrica Mercedes in Alabama e altri ne seguiranno nelle prossime settimane.

Così, da Torino al Tennessee, i dolori dell’auto elettrica mettono alla prova la tenuta della transizione a un nuovo regime ecologico di accumulazione, ma anche la possibilità di inaugurare al suo interno un conflitto climatico di classe, nonostante i limiti e le nostalgie di quei sindacati che continuano a rimpiangere un passato glorioso per non fare i conti con la propria debolezza presente.

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