sabato , 21 Dicembre 2024

Non solo trattori: conflitti nazionali e contraddizioni europee nella transizione verde

di CLIMATE CLASS CONFLICT – ITALY

Pubblichiamo un contributo alla discussione collettiva sulle mobilitazioni degli agricoltori in Europa lanciata da Climate Class Conflict all’interno della piattaforma Transnational Social Strike. Il testo sarà disponibile anche in inglese, assieme agli altri contributi alla discussione, sul sito del TSS.

A metà gennaio, le principali città europee sono state assalite dai trattori in protesta. Grandi e piccoli imprenditori agricoli che dalla Francia alla Germania, dal Belgio fino all’Italia, alla Romania, alla Polonia e alla Spagna sono scesi in piazza contro le politiche europee e nazionali della transizione verde. In Italia, le proteste hanno preso di mira in primo luogo la legge di bilancio dello scorso dicembre che ha disposto, tra le altre cose, l’eliminazione dell’esenzione contributiva per gli agricoltori under 40, l’abolizione dell’esenzione IRPEF per il settore agricolo e l’obbligo di stipulare un’assicurazione privata per coprire i danni degli eventi climatici estremi. Siccome però senza agricoltura non si mangia – un fatto banale che continua ad assicurare enorme potere sociale ai rappresentanti del settore – alle proteste sono seguiti alcuni dietro front da parte di governi nazionali ed europeo, una revisione della PAC (Politica Agricola Comune), proposta dalla stessa Commissione, e una sostanziale legittimazione ideologica degli interessi degli imprenditori agricoli, che acquistano notevole rilevanza in vista delle prossime elezioni europee. Le proteste hanno mostrato alcune contraddizioni delle politiche europee della transizione, l’esistenza di uno scontro tanto tra frazioni di capitale nel settore, quanto tra queste e i governi europei. Ciò che certamente è scomparsa dietro la dimensione corporativa della mobilitazione è la realtà dello sfruttamento di milioni di lavoratori e di lavoratrici, in alcuni paesi come l’Italia spesso migranti, impiegati nel comparto agroindustriale europeo.

Quasi ovunque i manifestanti si sono scagliati contro le politiche del Green Deal e della strategia Farm to Fork – il piano per trasformare il sistema alimentare europeo e renderlo più ‘sostenibile e verde’ – che fin dal suo insediamento hanno costituito una ragione di vanto per l’amministrazione von der Leyen. Il settore agricolo è da sempre oggetto di forti tensioni tra i paesi membri e le istituzioni europee, complice anche un tessuto produttivo eterogeneo e differenziato all’interno del quale i piccoli e medi imprenditori si trovano ormai da decenni schiacciati dal potere negoziale e decisionale della grande distribuzione e del financial business. Questa eterogeneità si è riflessa nelle diverse rivendicazioni nazionali degli agricoltori, nonostante la comune cornice europea che cerca di regolamentare il settore. Se in Germania e in Francia nel mirino vi è l’aumento dei costi per il gasolio dei veicoli agricoli, negli Stati europei dell’est Europa, come in Polonia e in Romania, la decisione di eliminare i dazi doganali per l’importazione del grano ucraino ha penalizzato il business locale. In Romania, le proteste sono state particolarmente intense anche perché in quello che era il paese europeo con il maggior numero di aziende agricole, da tempo ha luogo un processo assolutamente deregolamentato di concentrazione dei terreni che ha favorito la creazione di enormi proprietà. Il risultato di questa liberalizzazione selvaggia è che la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici sfruttati nel comparto agricolo italiano ed europeo sono proprio migranti rumeni. Concentrazione dei capitali, sopravvivenza tramite bonus dei piccoli imprenditori e sfruttamento dei migranti in giro per l’Europa: questa è la ricetta della PAC da molto prima della transizione verde e che oggi è contestata da chi vede ridursi i margini di negoziazione a difesa dei propri interessi. Ed è in questo contesto che il generale aumento dei prezzi provocato dalla rapida sequenza della pandemia da COVID-19 e della guerra, insieme agli effetti della finanziarizzazione dei prodotti agricoli, hanno avuto un impatto sulla produzione e sui consumi che ha contribuito a far esplodere la tensione.

La nuova PAC, entrata in vigore nel 2023 per il periodo 2023-2027, e approvata con due anni di ritardo proprio per le difficoltà degli Stati membri di integrare le nuove priorità europee della transizione e di definire i rispettivi Piani Strategici Nazionali (PSN), ambiva inizialmente a fare dell’agricoltura un nuovo perno strategico dell’iniziativa industriale europea. Le nuove misure introdotte vorrebbero rafforzare il ruolo delle condizionalità ambientali e sociali che gli agricoltori devono rispettare per poter usufruire di alcuni dei finanziamenti diretti previsti, vincolandoli sempre di più a pratiche maggiormente sostenibili e green. D’altra parte, rimane ancora predominante la scelta di allocare fondi e finanziamenti sulla base dei volumi prodotti e degli ettari coltivati che, in altri termini, significa continuare a finanziare maggiormente le grandi proprietà agricole. In Italia, negli incontri con le associazioni di categoria, Meloni si è detta dalla parte degli agricoltori e contro la “transizione ideologica” imposta dalle istituzioni europee, reinterpretando ancora una volta in chiave nazionalista il tema della sovranità alimentare. In vista delle elezioni europee, il governo italiano ha anche aperto un tavolo di coordinamento sul lavoro in agricoltura per discutere con i rappresentanti delle varie organizzazioni e dei sindacati agricoli dei principali problemi che essi si trovano ad affrontare: dal costo del lavoro, al reperimento della manodopera, alla gestione dei flussi, fino alla formazione di lavoratori e lavoratrici. Mentre con un orecchio ascolta i lamenti di una categoria di cui non può fare a meno sul piano elettorale, con l’altra il governo italiano continua a seguire le direttive europee per portare avanti una transizione ecologica ormai finalizzata unicamente alla ‘sicurezza’ energetica e agroalimentare e all’innovazione del tessuto industriale europeo. La transizione ecologica non ha mai accontentato tutti quanti: lo hanno dimostrato in questi anni i numerosi scioperi dei minatori e degli operai ricattati perché il loro lavoro ha smesso, improvvisamente, di essere abbastanza ‘green’ per i profitti dei padroni. Ora, queste proteste segnalano l’apparente crisi di un sistema che per anni si è retto sui grandi profitti delle multinazionali del cibo, sui bonus e i sussidi accordati alla maggioranza di piccoli imprenditori e sul lavoro povero di milioni di individui. 

Mentre la transizione ecologica ha i suoi conflitti nazionali e contraddizioni europee, è portata ostinatamente avanti dalla Commissione perché da lì passa la possibilità di proteggere accumulazione e concentrazione di capitale in un momento in cui il disordine transnazionale prodotto dalla guerra le mette a rischio. Perciò, nelle ultime settimane Meloni, insieme a von der Leyen e ad altri leader europei è volata al Cairo per discutere del partenariato strategico tra UE ed Egitto e per definire ulteriormente il Piano Mattei lanciato lo scorso gennaio. Il piano ha al centro la promozione di progetti agricoli, di bonifica e il trasferimento di innovazioni tecnologiche in questi settori. Un accordo che vorrebbe anche creare progetti e favorire investimenti nella formazione che siano “economicamente e socialmente più attraenti per i cittadini” e che sarebbero finalizzati a supportare l’economia egiziana che rischia di peggiorare ulteriormente con le guerre in corso a Gaza e in Sudan. Il partenariato tra Italia ed Egitto si gioca quindi ancora una volta sulla pelle dei e delle migranti, con lo stanziamento da parte dell’UE di 7,4 miliardi di euro, di cui 200 milioni dovranno essere utilizzati per il rafforzamento dei confini e per la formazione di una manodopera che possa essere anche più appetibile per il mercato del lavoro europeo. Ancora una volta la transizione verde diventa l’occasione per ostacolare il movimento dei e delle migranti nel Mediterraneo, per esternalizzare le frontiere dell’Unione Europea, e per assicurare nuovi terreni per l’accumulazione del capitale europeo. Già lo scorso gennaio, quando il Piano Mattei è stato lanciato, 80 organizzazioni e rappresentanti di diversi paesi africani hanno inviato ad alcuni esponenti del governo italiano una lettera per denunciare il carattere ‘neocoloniale’ del Piano e chiedere di rimettere al centro un modello di transizione ecologica che limiti il ricorso ai combustibili fossili, che promuova strategie di adattamento al cambiamento climatico e che preveda una maggiore partecipazione africana ai processi di negoziazione. Anche loro pretendono di uscire dall’ombra della transizione ecologica e non trovarsi dalla parte sbagliata delle divisioni che produce; dove sicuramente non si trova ENI, tra i principali promotori dei nuovi progetti di idrocarburi in Africa, dove solo nel 2022 è già riuscita a totalizzare un utile operativo di 20,4 miliardi di dollari.

Nel quadro attuale, in cui la logica della guerra si intreccia con l’urgenza di promuovere politiche militariste e di chiusura dei confini, tanto le risorse agroalimentari, quanto le risorse energetiche assumono un ruolo strategico. Il tentativo dell’Unione Europea è dunque quello di governare frammenti di dinamiche transnazionali accelerate dalla guerra attraverso politiche agricole che favoriscano sempre di più l’industrializzazione del settore, con effetti materiali che dipendono anche dalla struttura proprietaria e produttiva dei singoli Stati membri. Le proteste degli imprenditori agricoli mostrano molto chiaramente le contraddizioni di una transizione verde che sta rafforzando sempre di più un nuovo terreno di accumulazione. Contraddizioni che rischiano di restringere ulteriormente gli spazi di un conflitto climatico di classe che ha bisogno di strumenti per opporsi ai loro effetti devastanti sul clima e alle condizioni di lavoro e di riproduzione sociale di milioni di persone.

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