di DANA PORTALEONE
A pochi giorni dalla conclusione del meeting della Transnational Social Strike Platform che si è tenuto a Bologna dal 27 al 29 ottobre scorso, pubblichiamo questa intervista a Bruno Montesano, sulla situazione in Palestina e in Israele. L’intervista è stata realizzata nel percorso di avvicinamento all’Assemblea permanente contro la guerra (PAAW) che si è aperta sabato 28 ottobre con gli interventi di un attivista palestinese, due attivisti israeliani e un ucraino che hanno disertato la guerra, e un attivista da Hong Kong e che ha visto la partecipazione di più di duecento attiviste e attivisti da venti paesi europei ma non solo. La discussione della PAAW anche di fronte alla guerra in Palestina ha rimarcato la necessità di una politica transnazionale di pace che superi le logiche degli stati e dei fronti contrapposti e che faccia emergere la voce di coloro che continuano ad opporsi alla guerra, alle sue logiche e ai suoi effetti che aumentano violenza, razzismo e sfruttamento.
***
In quale contesto e in quale momento della politica israeliana e palestinese è avvenuto l’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre? Che legame vedi tra l’operazione di Hamas e le politiche israeliane degli ultimi decenni?
L’efferato attacco di Hamas avviene dopo decenni di inasprimento delle politiche di occupazione e apartheid israeliane. Viene dopo il fallimento di Oslo e dopo l’espansione delle colonie in Cisgiordania. Viene dopo l’assedio lungo 16 anni a Gaza e dopo 16 anni in cui Hamas governa in modo autoritario. Viene dopo il rafforzamento dell’estrema destra israeliana. Insomma, come detto da Guterres e da chiunque non sia in malafede, questa violenza si può capire da dove venga.
Capire da dove venga, non vuol dire renderla necessaria. Bisogna evitare ragionamenti deterministici che privino di capacità di agire i soggetti oppressi e quindi non c’è nessuna “necessarietà”, inevitabilità, del crimine di Hamas che deriva dalla violenza subita. Tra l’altro, assumere che la violenza non potesse che essere anche contro civili (donne, bambini, anziani) essenzializza gli oppressi privandoli di agency, di capacità di scelta. Anche in un orizzonte di disperazione e rabbia, esiste un piccolo spazio morale, credo, che permette di discernere nella scelta dei mezzi per dei fini. E la resistenza palestinese non ha pratiche omogenee, per ideologia, per strategia, per obiettivi, per metodi. Dimenticarselo non fa un buon servizio a nessuno. E non si tratta di posizionalità, come alcune retoriche identitarie suppongono. Non siamo letteralmente al fronte – per quanto i nostri governi europei siano coinvolti e per quanto la polarizzazione violenta del dibattito sia stata importata anche qui. Chi è palestinese o israeliano, chi ha affetti lì può non essere lucido, o comunque più emotivo. Chi ha il privilegio di stare qui, dovrebbe pesare meglio le parole.
In questo senso sono discutibili i paragoni con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, che era una forza di tutt’altro tipo – o l’uso del pensiero di Fanon, di cui, ad esempio, sembra si dimentichi il terzo capitolo dei Dannati della terra, “Disavventure della coscienza nazionale”, contro il nazionalismo, o il senso tragico della violenza, che, sì, libera il colonizzato ma lo fa diventare simile al colonizzatore. Non a caso Fanon chiudeva sulla necessità di un diverso umanismo, che oggi diremmo concreto, ossia che tenga conto di chi è stato tradizionalmente escluso da quell’universale astratto.
Netanyahu era indebolito dalle proteste interne contro la sua riforma della giustizia. Hamas, probabilmente, voleva dare il colpo finale all’ANP e imporsi come unico rappresentante della causa palestinese. Il costo in termini di civili di questo calcolo è però sotto gli occhi di tutti. Per quanto Hamas ora sia più forte che in passato anche in Cisgiordania, bisognerà vedere fino a che punto riuscirà a resistere alla devastante controffensiva israeliana che sta facendo strage di civili e se la popolazione palestinese non lo accuserà di essere corresponsabile del proprio massacro. Da un certo punto di vista Hamas e Netanyahu si aiutano a vicenda.
In termini generali e purtroppo di inutile petizione di principio, servirebbe un immediato cessate il fuoco, l’interruzione della punizione collettiva contro gli abitanti di Gaza e della violenza dei coloni in Cisgiordania, il ritorno degli ostaggi catturati da Hamas, e la fine dell’apartheid a cui sono sottoposti i palestinesi dentro e fuori il territorio israeliano.
Gli oltre settant’anni di questo conflitto hanno trasformato in modo notevole le due parti in causa, siamo lontani ormai dalle esperienze dei Kibbutzim che già all’inizio degli anni ’80 facevano i conti con il proprio fallimento e oggi i due fronti sono consolidati a destra e attorno a fondamentalismi religiosi, il governo Netanyahu è il più a destra dalla nascita di Israele, con ministri come Bengvir e Smotrich, dall’altra parte il fondamentalismo di Hamas ha guadagnato terreno in una situazione disperata in cui garantisce un welfare di sopravvivenza a Gaza. Puoi darci un quadro di queste trasformazioni?
Non vivo in Israele, non so dare una risposta precisa. Indubbiamente si può notare uno slittamento verso il fondamentalismo nella società palestinese, e un parallelo scivolamento verso l’estrema destra in quella israeliana. Posti gli asimmetrici rapporti di forza, è incomprensibile come entrambi insistano sulla politica della violenza. A 75 anni dalla nascita di Israele e della questione palestinese non capisco come possano pensare che questo tipo di strategie politiche possa portare a qualcosa di diverso dall’annientamento reciproco – potenziale o effettivo che sia. Chiaramente, Israele è in una posizione di relativa forza e i palestinesi sono oppressi e isolati – al di là del formale appoggio di altri paesi della regione. Hamas prospera in questo humus. Parallelamente, molti politici israeliani fanno discorsi genocidari di una violenza inaudita. E nelle colonie da anni gli estremisti attaccano i civili palestinesi in modo impunito.
Non possiamo ignorare che queste trasformazioni e la guerra in Palestina si collocano in un contesto enormemente mutato rispetto a pochi decenni fa, segnato dalla ridefinizione di un nuovo ordine internazionale e da un riallineamento globale di vasta portata. Con l’Assemblea permanente contro la guerra, nata a poche settimane dall’inizio della guerra in Ucraina, abbiamo parlato di uno scenario di Terza guerra mondiale con effetti che andavano ben oltre i fronti di guerra: abbiamo assistito a un aumento del costo della vita e a un impoverimento dei salari che ha riguardato anche chi non è sotto le bombe, un aumento di politiche razziste ovunque, l’irrigidimento del patriarcato, pesanti tagli al welfare mentre i fondi pubblici sono stati dirottati verso l’acquisto di armi e la produzione bellica. In che modo la guerra in Palestina si inserisce in questo quadro di crescente militarizzazione su vasta scala e riafferma una logica di guerra?
Mi viene da pensare a questa situazione in termini di caos sistemico: tra il tramonto di un’egemonia politico economica (quella degli Stati Uniti e del blocco che guidava) e l’emersione di un’altra (ancora da definire), si ha un policentrismo dei poteri globali. Poteri pubblici e privati si intrecciano e creano nuove forme di sovranità. L’aggressione russa all’Ucraina si inserisce in questo quadro, così come la reazione dei BRICS e di molti paesi del cd. Sud globale. Il voto alle Nazioni Unite della risoluzione per il cessate il fuoco è stata in questo senso significativo. A parte Francia e Spagna, i paesi che hanno votato contro o si sono astenuti sono quelli del blocco euroatlantico in declino. Certo che la risoluzione sia stata avanzata anche da Russia e Cina fa riflettere sul fatto che una posizione di buon senso come quella lì contenuta sia portata avanti da paesi con politiche autoritarie come le loro. Insomma, il nuovo ordine che si affaccia – e che forse non sarà mai tale – potrebbe essere altrettanto terribile di quello attuale, pur se migliore per i paesi della attuale periferia e semi-periferia globale.
In questo senso, la guerra riflette e interagisce con questo mutamento – posto che la sovranità non è mai stata indivisibile e assoluta come spesso si è voluto far credere. Anche il problema di come inquadrare Hamas rientra qui dentro: ha vinto le elezioni ma fino a che punto può essere considerato un soggetto che guida uno stato? Gaza non ha neanche vagamente una forma di sovranità essendo i suoi confini controllati per aria, terra e mare da Israele. Come si dà la guerra in un contesto simile?
La fase globale in cui ci troviamo può essere definita di neoliberalismo autoritario o di autoritarismo più o meno neoliberale. Sinceramente, non credo in alcun ritorno dello Stato: lo Stato è sempre stato qui. E molto spesso il neoliberalismo si è accompagnato a valori patriarcali e razzisti realizzati e difesi a forza dai poteri pubblici. Tanto il welfare veniva svuotato, quanto la mano destra dello Stato, la repressione, il governo della vita di classi subalterne, donne, omosessuali, minoranze e migranti veniva reso più invadente.
Poi, certo, c’è un maggior sdoganamento di razzismo, omofobia e misoginia e un apparente minore fiducia nella capacità dei mercati di autoregolarsi – che passa per una sorta di socialismo degli imbecilli (come il prendersela con Soros, o come i cattivi usi della tesi dell’esercito di riserva, indicano) o un apparente ritorno del protezionismo, quando invece gli accordi commerciali sono sempre stati forme di protezionismo asimmetrico. In ultimo luogo, gli effetti della guerra si vedono sul costo della vita, sulla repressione dei salari, così come sulla continua iperpolarizzazione del dibattito pubblico, funzionale a mantenere e riprodurre divisioni interne ed esterne.
In questo momento le destre europee stanno sostenendo Israele e attaccando apertamente il mondo musulmano, richiamando lo “scontro di civiltà” e sfoderando discorsi apertamente razzisti e islamofobi. Abbiamo visto i divieti di esporre la bandiera palestinese qui in Italia, ma penso anche a quello che è successo in Inghilterra e in Germania, o in Francia dove Darmanin ha vietato qualsiasi manifestazione a sostegno della Palestina. Al tempo stesso non possiamo ignorare gli attacchi antisemiti che stanno avvenendo in Francia, in Germania e non solo. Quale è il rapporto tra questa nuova guerra e l’intensificarsi dell’autoritarismo delle destre europee? Quali effetti sta già avendo la guerra in Palestina in Europa, nella politica dei governi ma anche dei movimenti politici?
La retorica sulla luce delle democrazie contro la barbarie autoritaria dei paesi non occidentali ha trovato un nuovo episodio da aggiungere alla propria già lunga lista. I media mainstream liberalconservatori inquadrano tutto ciò che avviene in Israele/Palestina dentro la stanca lente dello scontro di civiltà. Questa retorica era già stata ripresa con la guerra russo-ucraina. E ha un profondo implicito razziale. Ora, viene sfruttata per aumentare la repressione delle comunità non bianche, per competere a destra tra liberali di centrodestra, conservatori ed estrema destra (come in Francia ad esempio). D’altro canto, ci sono anche segnali positivi nella mobilitazione in solidarietà con la Palestina e per il cessate il fuoco, dall’occupazione della stazione di Jewish voice for peace a New York, alle partecipate piazze in Europa.
Tuttavia queste piazze non sono sempre facilmente attraversabili per degli ebrei contro occupazione e apartheid. Su scala minore rispetto all’islamofobia fortissima da anni, anche l’antisemitismo cresce. E, oltre a essere un problema in sé, l’antisemitismo a sinistra alimenta la retorica della destra contro il movimento palestinese e le seconde o terze generazioni di cittadini. A sinistra, continuare a fare finta che il problema non esista può rassicurare ma sul lungo periodo è una scelta, oltre che politicamente e moralmente discutibile, perdente. Antisionismo e antisemitismo sono due cose distinte, ma possono sovrapporsi. Una posizione antisionista e antinazionalista è coerente, mentre una antisionista e nazionalista no: porta a chiedersi perché il sionismo, ossia il nazionalismo degli ebrei, non possa essere un nazionalismo come altri. Alcuni dicono che il popolo ebraico non esiste: sono d’accordo, ma non esiste nessun popolo e quindi gli ebrei non fanno eccezione.
Ogni nazionalismo contiene un elemento razzista e quindi non può darsi senza di esso. In questo senso, come odio il nazionalismo in Italia o Europa, così odio quello israeliano. In secondo luogo, tornando all’antisemitismo, oltre ai soliti topoi sulle lobby ebraiche che hanno seguito – inquadrate come estensioni del cd. “globalismo” – anche, in piccola parte a sinistra, c’è un problema di identificazione degli ebrei con Israele e degli israeliani con il loro governo.
Nelle ultime settimane nei tuoi interventi hai denunciato che le voci che si sono alzate da una parte e dall’altra in un gioco di fronti contrapposti non portano alcun beneficio. Anche a sinistra, tra chi si dice a fianco del popolo palestinese, sembrano diffondersi discorsi che inneggiano alla guerra come soluzione del conflitto o al martirio di un popolo, replicando in qualche modo le logiche degli Stati. In che modo secondo te si può uscire da questa pervasiva logica di guerra?
Anzitutto bisognerebbe fare quella cosa elementare che è distinguere tra popolazioni e governi e, dentro ogni popolazione, cercare di coglierne la complessità e l’eterogeneità. In secondo luogo, come detto all’inizio, bisognerebbe chiedersi se sia di aiuto alla popolazione palestinese e alla lotta contro l’apartheid riconoscere in Hamas l’avanguardia della resistenza. Oggettivamente, rappresentano il movimento più forte. Ma da qui a esaltare qualsiasi cosa faccia mi pare ce ne passi. Molto più interessanti sono le posizioni di Mustafa Barghouti che parla infatti di Stato binazionale, così come faceva Edward Said, con cui infatti diedero vita ad un movimento politico. Purtroppo, riconoscere che la situazione è tragica e continua a peggiorare pare non piaccia ad alcuni pezzi di sinistra che preferiscono cullarsi nella sensazione di essere a un passo dalla rivoluzione – chiunque sia il soggetto che la realizza o che prova a realizzarla. Detto ciò, a 75 anni dalla nascita di Israele e dalla Nakba, bisognerebbe chiedersi cosa si voglia fare lì.
Anche chi insiste sul frame (discutibile) di Israele come progetto coloniale, dovrebbe chiedersi cosa voglia fare di 6 milioni di ebrei lì, che, tra l’altro in buona parte sono stati cacciati dal mondo arabo tra ’48 e ’67. Credo, ma non sono il solo, che bisognerebbe ragionare in termini di Stato unico, con eguali diritti per tutti, palestinesi ed ebrei. Dico discutibile non perché la Cisgiordania non venga colonizzata a ritmi terribili. Dico discutibile perché dentro le forme di settler colonialism ci sono diverse differenze. E tra gli Stati Uniti e l’Australia ci sono molte più affinità di quelle che passano tra quei contesti e Israele. Se nei primi due casi c’era una metropoli, una madre patria dietro, nel caso degli ebrei questo manca. Il sionismo nacque in relazione al problema di non avere uno Stato, non avere una madrepatria, cosa che li esponeva alla violenza altrui. Il problema di Israele e della Palestina è che, per come la politica si dà nel mondo moderno, per ora, e purtroppo, la protezione di un gruppo dalla violenza passa per l’edificazione di uno Stato nazione. In Israele/Palestina la violenza a cui i palestinesi sono sottoposti deriva dal non avere uno Stato. A sua volta, il bisogno degli ebrei di avere uno Stato deriva dal non averlo avuto prima. Bisogna chiedersi se sia possibile pensare una politica al di là della forma dello Stato nazione. E se sì, come.
Di fronte alla guerra in Ucraina con la PAAW abbiamo detto che era essenziale rompere i fronti contrapposti, mostrare che da entrambe le parti si trovano coloro che subiscono gli effetti della guerra e le sue logiche, l’intensificarsi dello sfruttamento, del razzismo e della violenza maschile. La PAAW ha mostrato un’altra via possibile, che è quella di una politica transnazionale di pace, ovvero una politica che dia voce e sia dalla parte degli oppressi e degli sfruttati rifiutando la normalizzazione della guerra e che ci permetta di creare connessioni tra le lotte che continuano a prodursi e rifiutare la guerra. È un’indicazione importante anche rispetto alla Palestina, dove è urgente costruire un’opposizione alla guerra a Gaza superando le trappole dei fronti etnici, religiosi e razziali. Come facciamo a lottare contro il massacro che sta avvenendo in Palestina senza cedere alla logica di guerra di cui Hamas si fa portatore? Come possiamo mettere in connessione le lotte in Palestina contro l’occupazione e le politiche israeliane con le lotte dentro e contro la Terza guerra mondiale che si danno altrove?
La soluzione del conflitto credo possa venire prevalentemente dal basso. È chiaro che gli altri Stati usano la questione per regolare problemi interni (con le proprie popolazioni additando nemici interni ed esterni) e per tentare di modificare o mantenere il quadro delle relazioni internazionali date. Attiviste e attivisti israeliani e palestinesi lavorano già insieme contro occupazione e apartheid. L’attacco del 7 ottobre, e la successiva ritorsione israeliana, separeranno queste comunità o comunque renderanno più difficile che continuino il lavoro congiunto. E saranno ancora più isolate dentro le proprie comunità.
Rispetto alla Terza guerra mondiale a pezzi, noto come tratto distintivo e portante l’epidemia di razzismo – che è sempre stato presente nelle società, che svolge tanto funzioni psichiche quanto politiche ed economiche – e questo razzismo è anche uno dei modi per impedire una politica di classe. A volte il razzismo è il nome di una mancata politica di classe, o comunque di una politica di classe selettiva e discriminatoria. Lo abbiamo visto con M5S in Italia: il reddito di cittadinanza era un reddito ai cittadini lavoratori bianchi contro gli stranieri. Era il nostro sciovinismo del welfare, ribadito da Conte recentemente quando ha contrapposto italiani che prendono meno di un euro al giorno e stranieri che ne prendono 50. Credo che, accanto alla lotta per una politica transnazionale di pace, per un’estensione e ripensamento del welfare, per una radicale redistribuzione della ricchezza, sia centrale contestare ogni discorso identitario e ripensare un universalismo concreto. In questo senso Israele e Palestina, dove più forte vediamo il dramma incarnato dalla presenza/assenza di uno Stato-nazione, potrebbe essere un laboratorio per pensare nuove forme di politica.