di MATILDE CIOLLI
Dopo il netto «rechazo» [rifiuto] della costituzione cilena redatta dalla Convenzione costituzionale il 4 settembre 2022, un’altra sonora sconfitta è arrivata lo scorso 7 maggio con l’elezione dei 50 membri – di cui ben più della metà di estrema destra – che faranno parte del Consiglio incaricato di redigere una nuova carta. Il cosiddetto «risveglio d’ottobre», che aveva spinto milioni di donne, studenti, indigeni, lavoratori formali e informali a contestare la normalità neoliberale con manifestazioni di massa e scioperi generali, si è scontrato con la volontà diffusa di conservare ciò che già c’è, che è già noto e che non deve essere portato via. In un clima cileno e latino-americano, come pure globale, reso soffocante dall’azione congiunta dell’inflazione galoppante, dei bassi salari, della crisi energetica e della guerra in Ucraina, «la memoria del futuro», cioè l’immaginazione politica di un futuro da costruire collettivamente, è sempre più oscurata dal desiderio, nel qui e ora, di conservare ciò che si ha, ovvero di assicurare, se è necessario anche autoritariamente, ordine e proprietà. Intervistiamo Pierre Dardot, che ha pubblicato recentemente «Mémoire du futur. Chili 2019-2022», un libro che, tracciando continuità e discontinuità tra il presente e l’epoca della dittatura (1973-1990), analizza l’intero percorso che va dal «risveglio cileno» fino al rifiuto delle trasformazioni radicali che questo processo, sia sociale che costituzionale, avrebbe potuto provocare. Le considerazioni di Dardot offrono indicazioni utili non solo per comprendere le ragioni di questa sconfitta e misurarsi con i limiti dei movimenti e della sinistra parlamentare, ma anche per capire come e a partire da cosa si possa riprendere l’iniziativa politica in Cile e oltre.
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Una delle cose che più mi ha colpito nel libro è la continuità che tu tracci fra la fase post-dittatoriale di ricostruzione democratica e l’epoca della dittatura attraverso quello che definisci «concertazionismo». Questa continuità ha a che fare con una logica che rimuove il conflitto per assicurare il consenso. Ed è una logica che attribuisci alla fine del libro anche al presidente Gabriel Boric. In che modo Boric ha finito per sposare e riprodurre questa logica?
Pierre Dardot: Questa nozione di «concertazionismo» è per me molto importante e rimanda alla distinzione fra la «concertazione» nel sistema pluripartitico e una logica più ampia che è quella del «concertazionismo». La concertazione è circoscritta storicamente, riguarda un periodo che va dal 1990 al 2013, in cui diversi partiti politici, che sono membri del sistema di coalizione chiamato di «concertazione», si sono alternati al potere. Dopo il 2013 si sono succeduti al potere partiti che non facevano parte della concertazione, in particolare Renovación Nacional, che è il partito di cui era membro Sebastian Piñera, e poi Joaquín Lavín. Lavín è interessante perché viene dalla Unión Democratíca Indipendiente, considerato il partito di Jaime Guzmán, ovvero il costituzionalista della dittatura che ha aiutato a scrivere la costituzione del 1980. Lavín arriva a definirsi pubblicamente bacheletista [Michelle Bachelet è stata la prima donna presidente in Cile, socialista e vittima di torture sotto la dittatura] e a spingere i membri del suo partito ad accettare la nuova realtà politica.
Questa attitudine mi ha fatto cogliere la profondità della logica che c’era dietro e che non si riduce ad accordi temporanei fra partiti. Il concertazionismo, infatti, non è il mero ricorso alla tradizionale politica cilena degli accordi fra partiti. Esso è piuttosto una logica che consiste nel cercare a tutti i costi il consenso a partire dagli accordi fra partiti. È un ethos, una condotta, un’attitudine verso la politica che consiste nel privilegiare il consenso costruendo una «democrazia del consenso» piuttosto che una «democrazia maggioritaria». La tradizione cilena sin dalla fondazione della repubblica è quella di una democrazia maggioritaria in cui si separa la maggioranza dalla minoranza e si danno alla maggioranza diritti che la minoranza non ha.
La democrazia del consenso è diversa, ambisce a evitare in ogni modo la polarizzazione conflittuale secondo l’idea che si è diffusa in Cile a partire dal 1970 per cui ciò che è successo all’Unión Popular, il partito di Allende, il colpo di stato, è il risultato di una polarizzazione conflittuale. Per cui bisogna a tutti i costi far prevalere la logica del consenso a quella del conflitto. Il conflitto deve essere evitato perché altrimenti rischia di portare di nuovo a una dittatura. Questa è esattamente la logica e la retorica che è stata usata al momento dell’estallido, la cui violenza veniva accusata di poter provocare la restaurazione della dittatura militare. Il concertazionismo è quindi la logica che esprime una continuità profonda fra tutti i governi che si sono succeduti dopo la dittatura, sebbene al governo non ci fossero più i militari.
E Boric in che modo aderisce a questa logica?
La traiettoria politica di Boric non è facile da ricostruire. Inizialmente, fra il 2013 e il 2015 sposa le tesi di Ernesto Laclau sulla strategia populista. Ma bisogna ricordarsi che in quella logica ci sono domande sociali eterogenee e che possono essere unificate solo dal capo carismatico, il leader populista. Questa è la strategia politica che Boric sceglie fino alla sua elezione. Ma una volta al potere, la logica concertazionista tende a imporsi nelle sue logiche e nelle sue pratiche. Il nuovo credo politico diffuso è che le rivendicazioni sociali siano rivendicazioni identitarie e bisogna relativizzarle il più possibile per far prevalere aspirazioni comuni generali. Quest’idea l’ha espressa in modo molto diretto subito dopo il rechazo, ma anche dopo il 15 luglio 2022 quando ha annunciato un piano B in caso di rechazo. Questa logica ha prodotto una rottura con il suo passato da populista à la Laclau, perché non si è più trattato di articolare domande eterogenee grazie a un’identificazione della massa con il leader. Si tratta invece di mettere da parte le domande sociali e di relativizzarle. Quindi anche Boric progressivamente ha aderito alla logica concertazionista.
Nel libro dedichi molto spazio al femminismo cileno. Qual è stata la sua forza, il suo potenziale più trasformativo? E soprattutto cosa ha fatto così paura delle rivendicazioni femministe?
È una domanda importante perché adesso la destra – e non solo la destra – ha la tendenza a rileggere la storia degli ultimi tre anni alla luce della sua volontà di ripristinare l’ordine. I più complottisti e cospirazionisti descrivono questo periodo quasi come un colpo di stato o un’interruzione del normale ordine. Uno degli slogan femministi durante lo sciopero generale del 2018 e poi del 2019 era proprio la messa in questione della normalità: era la normalità che bisognava contestare perché era la normalità a essere un problema. C’è stata, secondo me, una paura molto grande – e non solo della destra conservatrice, dei grandi proprietari ecc., ma di una parte non indifferente della società cilena – che serve a capire il rechazo. C’è stata una radicalità democratica nelle rivendicazioni, esigenze, aspirazioni del femminismo in particolare, che per me è senza dubbio il movimento sociale che è andato più lontano nella formulazione delle rivendicazioni. In questa radicalizzazione della democrazia c’è qualcosa che ha fatto paura.
Non bisogna stupirsene, è quasi normale che nella situazione nazionale cilena e internazionale una simile radicalità faccia paura, perché è un salto nel vuoto, in ciò che non è già noto. In questo processo c’è stato un modo di farsi carico degli affari comuni che era inedito rispetto alla continuità della storia cilena. Questa rottura della continuità storica ha avuto un ruolo enorme e ha fatto paura. La destra ci ha giocato molto affermando che il movimento voleva rompere con una tradizione di due secoli di storia nazionale. Ma da un certo punto di vista, è vero che la radicalità implicava una rottura fondamentale con il passato dello Stato nazione cileno. Quindi non credo che fosse possibile riconciliare miracolosamente, in qualche mese, i cileni con questa radicalità democratica. Ciò richiede del tempo. Adesso è necessario un lavoro di ricostruzione politica che si appoggi su ciò che è successo, sulla rielaborazione dei principi dell’ordine politico attraverso la convenzione costituzionale. È un’eredità che bisogna far fruttare, non un passato prossimo di cui bisogna avere vergogna, malgrado tutti coloro che hanno detto che l’errore è stato aver preteso troppo. Per me non è questo il problema, anzi sono d’accordo con Gargarella – il costituzionalista argentino che ha detto che non si è andati sufficientemente lontani e che si sono conservate cose proprie del vecchio ordine politico, come le attribuzioni del presidente della Repubblica che è capo del governo, ecc. Ci sono quindi dei problemi legati a una certa concezione del costituzionalismo, ma che non sono stati superati. Per quanto riguarda le rivendicazioni democratiche radicali, in particolare quelle relative ai diritti sociali, penso che siano una base su cui oggi bisogna ancora appoggiarsi.
Nel tuo libro sottolinei che le figure meno presenti nel risveglio d’ottobre sono stati i lavoratori e i sindacati. In altri termini, non sarebbero più le «istituzioni tradizionali» della politica a essere protagoniste del movimento, ma piuttosto il femminismo, gli indigeni, gli studenti ecc. Mi chiedo se l’assenza di una mobilitazione forte dei lavoratori e delle lavoratrici, con qualsiasi statuto formale e informale, non abbia contribuito a creare una distanza rispetto alle trasformazioni provocate dai movimenti sociali.
È vero che i lavoratori sono rimasti un po’ fuori, ma ne sono rimasti fuori solo se li si pensa come movimento preso globalmente e collettivamente, perché invece c’erano delle componenti del movimento dei lavoratori che erano perfettamente integrate e che si sono unite ai movimenti sociali durante l’estallido. Quindi non è in discussione la partecipazione individuale dei lavoratori a questo movimento, ma la loro rappresentazione a livello collettivo. Ciò ha a che fare con i sindacati. Karina Nohales [militante della Coordinadora feminista 8M] ha spiegato che questo si deve anche alla struttura dell’industria cilena e delle piccole imprese. Con un sindacato abbastanza limitato nel suo orizzonte politico, con strutture piuttosto burocratizzate, in particolare la SUTE (il Sindicato Unico de Trabajadores de la Educación), un sindacato storicamente legato alla democrazia cristiana.
C’è poi un altro sindacalismo interessante ma che sta ancora muovendo i suoi primi passi e non ha ancora una struttura nazionale. È un sindacalismo combattivo, molto più radicale ma che non è riuscito a costruirsi come alternativa al sindacalismo che è ancora sottomesso alla logica del concertazionismo. La cosa che mi ha più colpito è che c’è stato un solo delegato sindacale che ha fatto parte della convenzione costituzionale. C’è stata quindi una debolezza da parte dei sindacati che ha impedito a questo movimento di essere presente in quanto attore autonomo all’interno dell’estallido. Questo non significa, ripeto, che non ci siano state lotte operaie molto importanti. Ma è una cosa diversa.
Alla fine del libro sottolinei che i movimenti sociali organizzati non corrispondevano alla società. Le immagini delle rivolte di ottobre mostrano milioni di persone in piazza e rendono evidente una presenza che eccedeva i soli militanti. A un certo punto però si è creata una rottura, e infatti, benché Boric sia stato eletto, è arrivato al ballottaggio con Kast, che rappresenta l’estrema destra pinochetista. Come e quando si è prodotta questa frattura?
Si è creata una sorta di distanza. Se consideriamo l’inizio, quando ci sono state le prime grandi manifestazioni, in particolare quella del 25 ottobre che è stata senza dubbio la più importante, con più di un milione di persone solo nella città di Santiago, oppure se prendiamo la manifestazione dell’8 novembre, lo sciopero generale del 12 novembre – uno sciopero di massa, molto esteso – vediamo che c’era una forza del movimento che superava di gran lunga i confini tradizionali. In un primo momento, l’accordo del 15 novembre 2019 aveva imposto al processo costituzionale dei limiti che non hanno favorito una grande partecipazione dei cittadini. C’è stato poi un processo costituente apertosi con la vittoria del referendum. Dal 20 al 25 ottobre 2020 si è arrivati a una sorta di climax. In seguito c’è stata però la pandemia ed è già molto che il movimento abbia potuto continuare nonostante le misure di controllo sociale prese da Piñera.
Le manifestazioni che hanno continuato ad aver luogo nella Piazza Dignidad non erano più come le manifestazioni del 25 ottobre o del 12 novembre, ma erano il segno di un effettivo indietreggiamento, dentro il quale si è creata una svolta. Il posto è stato preso dalle elezioni: ci sono state le elezioni comunali nello stesso momento delle elezioni per i delegati della Costituente. I movimenti, in particolare quello femminista, hanno discusso molto sull’opportunità di partecipare, poi hanno scelto di farlo. Il 4 luglio sono iniziati i lavori della Costituente attorno alla quale si è prodotta una polarizzazione. I movimenti sociali che hanno scelto di non partecipare direttamente ai lavori della Costituente hanno avuto un calo di presenze. Solo le femministe sono state capaci di articolare la partecipazione alla Costituente con l’organizzazione di dibattiti e manifestazioni, diverse da quelle di ottobre e novembre 2019.
A parte le femministe, gli altri movimenti sociali tendevano ad arretrare e questo ha fatto sì che, mentre diminuivano le manifestazioni, aumentavano i dibattiti interni ed esterni alla Costituente e questo non ha creato le condizioni favorevoli all’articolazione fra movimenti sociali e «società» diciamo. Quando dico «società» parlo essenzialmente degli strati popolari. Lì c’è stata una frattura veramente importante e deplorevole perché la rottura fra partiti della sinistra parlamentare da un lato e movimenti sociali dall’altro ha aggravato anche la rottura fra i movimenti sociali e la società. Queste cose sono legate e devono essere considerate congiuntamente per capire cosa è successo. I partiti parlamentari da un lato hanno avuto la tendenza a chiudersi, a restare prigionieri della guerra parlamentare e dall’altro lato hanno perso completamente di vista i movimenti sociali, i quali a loro volta tendevano a ripiegarsi su sé stessi e perdere la loro potenza.
È in quel momento che la distanza fra gli strati popolari e i movimenti sociali si è accentuata perché dall’esterno questo processo iniziava a sembrare un dibattito sterile. Dopo tutto, in che cosa gli uni sono meglio degli altri? C’erano molte persone che criticavano per esempio i comportamenti dei delegati della Costituente. È vero che a volte c’è stato un linguaggio un po’ formalista, che ha reso poco comprensibile ai cittadini che cosa c’era in ballo. Qui c’è un insegnamento per la sinistra, non solo cilena, cioè che bisogna evitare a tutti costi questa frattura. È per questo che bisogna riflettere su una cosa che per me è strategicamente centrale, cioè che il rapporto fra movimenti sociali e strati popolari non può limitarsi a un «andare verso», un «indirizzarsi» dei movimenti sociali verso gli strati popolari. Il punto deve essere aiutare gli strati popolari ad auto-organizzarsi. I movimenti sociali hanno creduto di poter parlare in nome della società. Spesso si sono autodefiniti il «popolo che si autorappresenta». I movimenti sociali non sono il «popolo».
Peraltro, il popolo, bisognerebbe chiedersi che cos’è, che cosa vuol dire. Questa è stata una debolezza dei movimenti sociali. Le femministe sono le sole ad averlo riconosciuto in modo molto lucido. Questa è una delle cose su cui riflettere. Bisogna ambire a dare impulso all’auto-organizzazione degli strati popolari in forma durevole. Non basta che si crei per mobilitazioni ad hoc. Questo serve a evitare rotture che poi facilitano il lavoro della destra. Il punto essenziale a cui volevo arrivare è che le persone che hanno dato la colpa alla disinformazione della destra si sono date una spiegazione rassicurante ma semplicistica perché in realtà bisogna chiedersi perché la campagna di odio, fake news, calunnie della destra ha funzionato così bene. Precisamente perché c’era questa sconnessione, questa distanza progressiva fra i movimenti sociali e gli strati sociali. Quindi questa è una lezione strategica assolutamente fondamentale.
Una delle proposte più contestate della Costituente è stata la plurinazionalità, ridotta a «identitarismo» dei popoli autoctoni. Sicuramente l’accusa di identitarismo è stata un’arma per difendere l’identità, che deve essere solo nazionale. Si può ipotizzare che le rivendicazioni dei movimenti indigeni si siano però simultaneamente prestate talvolta alla frammentazione e ad ambiguità che hanno reso più difficile articolarle con le rivendicazioni degli altri movimenti?
L’identitarismo non è una difesa dell’identità. Si può difendere un’identità culturale o politica in modo non identitario. Quindi da parte dei Mapuche c’è una volontà collettiva di difendere la loro identità che è molto antica e che è stata reinscritta nell’attualità politica, in particolare dagli anni Novanta, quando c’è stata la transizione alla democrazia, ma risale alla guerra di pacificazione dell’Araucania, nell’Ottocento, e pone un vero problema sulle fondamenta dello Stato-nazione cileno. Questa questione è riesplosa a partire dagli anni Novanta, in cui si sono formati dei movimenti indigeni che all’inizio aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto Patricio Aylwin [primo presidente post-dittatura], ma poi molti gruppi fra i Mapuche si sono resi conto che venivano fatte loro delle promesse, ma in realtà concretamente si cercava solo di tenere i Mapuche in una situazione di minoranza politica collettiva. Quindi è legittimo che siano insorti contro tutto ciò, anche con gruppi molto radicali che ambivano alla lotta armata.
All’interno dei Mapuche ci sono attitudini diverse rispetto al governo e le strategie da tenere. Per esempio, alcuni ritengono necessaria la logica municipalista perché reputano che siano istanze più vicine alla base che possono essere recuperate attraverso una lotta nelle istituzioni. Altri invece considerano necessario boicottare sistematicamente tutto questo perché si tratta comunque dello Stato, da cui non ci si può aspettare nulla. Boric ha commesso l’errore fondamentale di rimandare l’esercito nella regione dell’Araucania, gettando benzina sul fuoco. Ma all’interno dei Mapuche le attitudini rispetto all’identità possono essere molto diverse. Alcuni hanno sostenuto che i veri Mapuche non sono quelli che vivono in città – e sono invece moltissimi i Mapuche che ci vivono – ma quelli che continuano a vivere in modo tradizionale in campagna. Questa è una visione idealizzata del passato: oggi la situazione è molto diversa. Non bisogna dimenticare che ci sono perfino Mapuche che hanno deciso di prestare il fianco ad alcune misure di Pinochet. Non vanno idealizzati: il movimento Mapuche non è omogeneo. Ci sono rivendicazioni collettive che riguardano i territori e questo è importante da considerare. La questione dell’identità è legata anche alle terre ancestrali e al loro recupero. Lì ci sono forme diverse: ci sono Mapuche che hanno scelto di mettere l’accento sulle forme tradizionali di autorità aggiornandole però, a livello di contenuti, rispetto alla situazione attuale. Ci sono inoltre forme di organizzazioni nuove, più interessanti politicamente perché non vogliono solo restaurare forme di autorità tradizionali, ma inventare qualcosa di diverso e di democratico.
I Lefkenche offrono l’esempio di un’entità territoriale che è molto più grande delle forme di organizzazione tradizionali, perché riunisce 110mila abitanti della regione della costa ed è qualcosa di completamente diverso dalla logica amministrativa dello Stato nazione cileno. L’identità Lefkenche è un’identità territoriale che mette da parte tutte le suddivisioni amministrative dello Stato cileno, non ritorna alle forme territoriali tradizionali, ma inventa qualcosa di nuovo, cioè una regione auto-amministrata: questa per me è una promessa di rinnovamento democratico molto significativa e politicamente esemplare. Questa è una maniera non identitarista, bensì feconda e positiva, di difendere l’identità. È la destra, e anche una parte della sinistra parlamentare, che confonde la difesa dell’identità con l’identitarismo, affermando che i popoli autoctoni non vogliono integrarsi nella nazione per difendere la loro identità.
La destra dirigerà i lavori per la nuova bozza di costituzione. Boric non sta ponendo le condizioni per lavorare sull’eredità che ha lasciato il «risveglio di ottobre» e tutto ciò che lo ha seguito. Nel resto dell’America Latina la destra sta facendo grossi passi avanti, basti pensare all’Argentina o all’Ecuador, ma anche a paesi come la Colombia, dove Petro ha difficoltà a realizzare le riforme piuttosto radicali che ha proposto a causa dell’opposizione che incontra. In questo quadro complesso, nazionale e continentale (ma anche transnazionale), a partire da che cosa è possibile non solo frenare l’avanzata dell’estrema destra di Kast, ma ricostruire un percorso che non rimuova tutto ciò che le rivolte di massa e i primi lavori della costituente avevano avviato?
La situazione è abbastanza dura. Cerco di guardare lucidamente ai fatti per capire come ricostruire un’alternativa positiva. In primo luogo, la conditio sine qua non della ricostruzione è la rottura con la logica concertazionista, che significa che i partiti di sinistra parlamentare dovrebbe almeno avere l’intelligenza di capire che cosa implica questa nuova situazione. La situazione è terribile ma con l’accordo siglato il 12 dicembre [rispetto ai consiglieri costituzionali e alla modalità della loro elezione] non si possono fare passi avanti. I partiti della sinistra parlamentare, i partigiani di Boric ma non solo, hanno cercato di limitare i danni firmando un accordo che era completamente antidemocratico e il risultato è che hanno subito una sconfitta terribile, perché hanno il 17%, mentre Kast ha il 22%. Ciò che spesso la gente non sa è che Kast non ha partecipato all’accordo del 12, quindi è assolutamente libero da questo accordo. È lui il vincitore. La sinistra ha fatto questo accordo per limitare le pressioni fatte dalla destra, ma è la destra più estrema che ha vinto e avrà il controllo sulla redazione della nuova costituzione. Il risultato è che l’attitudine verso il prossimo referendum è difficile da prevedere.
Molti non voteranno perché considerano il processo completamente illegittimo sin dall’inizio. Altri vogliono limitare i danni, ma con questo Consiglio costituzionale è una scommessa, secondo me, persa sin dall’inizio. Quindi bisogna essere lucidi. Alcune femministe hanno chiamato a votare per l’elezione del consiglio costituzionale ad aprile, dicendo che bisognava optare per il meno peggio, ma ci sono anche molte femministe che dicono invece che adesso bisogna intraprendere un lavoro paziente di ricostruzione e a me sembra che questo lavoro non possa darsi se non in relazione a un progetto di futuro, alla posizione che vogliamo occupare nel futuro, definendolo in termini di compiti collettivi. Bisogna ricostruire tutto a partire dalle lezioni del fallimento e ricostruire un movimento capace di spingere la forza e la capacità di autorganizzazione al di là dei suoi stessi immediati componenti. Questo implica aprire prospettive nuove. Non si tratta di fare ancora accordi o alleanze fra partiti, ma delineare un’altra logica politica con pazienza, anche se la situazione internazionale e nazionale non è favorevole. È un problema che si pone su scala globale per tutta la sinistra. In Cile è importante non perdere il filo della continuità con la radicalità democratica. Bisogna essere capaci di una reinvenzione collettiva delle forme della democrazia. Solo questo permetterà di riconsiderare la ricostruzione politica della sinistra e dei movimenti sociali in un futuro prossimo.