Pubblichiamo l’editoriale del foglio contro la guerra “Rompere i fronti, superare i blocchi. Le nostre lotte per una politica di pace”. L’idea di questo foglio nasce dall’assemblea “La guerra in Ucraina e le nostre lotte” organizzata da ConvergenX – parole e pratiche in movimento il 15 gennaio a Bologna. È stato poi discusso e redatto collettivamente da compagne e compagni di Bologna, Brescia, Milano, Napoli, Pisa, Reggio Emilia, Torino, Trieste.
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Questo foglio è il frutto di un lavoro collettivo, l’espressione di un problema, la scommessa su una possibilità. Da più di un anno la guerra in Ucraina infiamma, oscurando e nello stesso tempo intensificando conflitti e focolai di guerra attivi in luoghi più distanti dall’Europa. I suoi effetti materiali investono le nostre vite, le nostre condizioni di lavoro, le nostre lotte. Contro questi effetti, che esasperano quelli già feroci della crisi pandemica, sta montando la rabbia. È la rabbia degli scioperi francesi contro una vita interamente messa al lavoro e di quelli inglesi e tedeschi contro l’inflazione a due cifre. Quella femminista e transfemminista che ostinatamente combatte la violenza maschile e quella ecologista che contesta una transizione che, verde o meno, sta portando il pianeta al collasso. È, ancora, quella delle e dei migranti che lottano ogni giorno per mettere piede in Europa e per un permesso di soggiorno e non accettano di essere classificati, ammessi o respinti, sulla base del colore della loro pelle o della loro utilità. E poi c’è la rabbia di chi, in Ucraina come in Russia, non vuole vedere il proprio futuro ridotto in macerie. La rabbia di chi, di fronte all’invasione è costretto ad armarsi, e la rabbia di chi, avendo subito decenni di impoverimento e precarizzazione, vede in Putin l’antidoto contro l’Occidente neoliberale. Rabbie multiformi, potenti, che parlano anche di guerra ma spesso non ne dicono il nome, che sono talvolta declinate in linguaggi e movimenti nazionalistici, che non si parlano e spesso si oppongono. Questo è il problema che abbiamo davanti.
Quando ci siamo incontrati a Bologna il 15 gennaio, nella partecipata assemblea “La guerra in Ucraina e le nostre lotte”, organizzata da ConvergenX – parole e pratiche in movimento ‒ siamo partite e partiti dalla constatazione che
il movimento fatica ad articolare un’opposizione alla guerra, ma abbiamo anche cercato di capire se la lotta contro la guerra oggi possa riannodare i fili della rabbia, di quella che è già organizzata, di quella esplosa in forme più o meno impreviste e di quella che ancora fatica a esprimersi.
Questa è la possibilità su cui abbiamo scommesso. Raccogliere questa scommessa significa che le divisioni che la guerra ha prodotto e continua a produrre dentro ai movimenti vanno affrontate. Negarle, ignorarle, non parlare affatto di guerra non è una risposta alla paralisi che essa ha provocato, sia per la difficoltà reale di articolare un discorso all’altezza di un evento che sta ridisegnando completamente le coordinate sociali, politiche e istituzionali della nostra iniziativa, sia per la resistenza ad abbandonare letture consolidate e interpretazioni forse rassicuranti, ma certamente insufficienti.
La guerra in Ucraina sta producendo trasformazioni radicali, sta accelerando processi la cui comprensione richiede di rimettere in gioco le parole che abbiamo a disposizione e le forme radicate delle nostre lotte. Chi ha partecipato alla discussione che sta dietro a questo foglio non lo ha fatto con la presunzione di fornire risposte definitive, ma con l’intenzione di individuare limiti e indicare possibilità; con la convinzione che si debba aprire, mantenere e consolidare uno spazio di confronto anche aspro perché l’iniziativa contro la guerra non resti una semplice intenzione o non sia bloccata da dinamiche locali e dalle identità che quelle dinamiche garantiscono, lasciandole peraltro isolate.
Prendere di petto le tensioni, le contraddizioni e i disaccordi che la guerra innesca oppure approfondisce nella realtà e tra i movimenti per costruire convergenze contro la guerra. Questa è la possibilità che vogliamo tenere aperta.
Questo foglio cerca perciò di affrontare alcuni blocchi che la guerra in Ucraina ci ha messo davanti. Il primo blocco riguarda la prospettiva da adottare quando ne parliamo. Quella geopolitica è stata la più scontata fin dal principio, nel tentativo di fare i conti con alcuni processi ormai più o meno assodati: crisi dell’egemonia statunitense e del dominio del dollaro, ruolo dell’Unione Europea – da condannare per la sua subalternità o a cui appellarsi con fiducioso ottimismo –, combinazione di guerra guerreggiata, commerciale, energetica, finanziaria e valutaria per ristabilire una presa su un disordine mondiale che non è causato dalla guerra, ma in cui la guerra diventa l’occasione per superare la crisi conclamata della produzione e riproduzione sociale. Di fronte a tutto questo, la categoria di “imperialismo” è stata per molti l’ovvio strumento per interpretare quello che sta succedendo, anche se coloro che se ne servono finiscono per divergere sulla lettura di questa guerra, perché c’è chi indica come esclusivo responsabile l’imperialismo russo, chi l’imperialismo statunitense e chi si concentra sullo scontro tra imperialismi equivalenti, inclusi quello russo o quello cinese. Si moltiplicano i tentativi di prefigurare il nuovo regime che la guerra sta mettendo al mondo, facendo dell’ordine il problema centrale con il quale confrontarsi. La discussione di questo foglio prova ad andare in una direzione diversa, a partire dalla constatazione che si è rotto il nesso – centrale per definire l’imperialismo – tra capitale e controllo politico dello Stato. Quello che si configura è un disordine transnazionale il cui riorientamento è la posta in gioco della guerra in Ucraina.
Per fare i conti con questo disordine, proponiamo un cambio di prospettiva, ovvero di guardare la guerra dal lato di chi ne sta pagando – e non vuole pagarne – il prezzo.
Donne e migranti, lavoratrici e lavoratori, persone LGBTQ+, operai e precarie: soggetti che non possono essere identificati con gli Stati o le valute che si contendono il vantaggio del disordine transnazionale, ma che con i loro movimenti vi introducono conflitti a partire da cui si può costruire un’opposizione efficace alla guerra.
Il secondo blocco riguarda di conseguenza la coazione dell’alternativa. Con l’Occidente e le politiche espansionistiche della NATO o con il regime autoritario di Putin, con la resistenza ucraina o con l’imperialismo, e quindi ancora per l’invio di armi o contro l’autodeterminazione dei popoli. Abbiamo sentito risuonare queste alternative in ogni assemblea o dibattito di movimento, senza ancora venirne a capo. Cambiare la prospettiva significa guardare dentro questi fronti e schierarsi dalla parte delle donne e dei migranti, delle lavoratrici e dei lavoratori, delle persone LGBTQ+, degli operai e delle precarie che con le loro pretese di libertà rompono dall’interno l’unità dell’Occidente come pure quella della Russia. Tutti questi soggetti stanno faticosamente affermando delle forme di resistenza tanto nei territori in guerra e quanto in quelli coinvolti dai mille effetti della guerra. Queste resistenze non sono riducibili alla sola resistenza armata, perché l’autodeterminazione è una pratica che deve fare i conti con le condizioni sociali in cui è possibile metterla in atto: non solo le bombe ma anche la violenza patriarcale, le politiche dei confini, la coazione al lavoro.
L’opposizione alla guerra deve e può passare da questo scompaginamento dei fronti e delle alternative obbligate.
Ciò richiede di abbandonare linguaggi e discorsi radicati in un mondo che è stato travolto non soltanto dalla pandemia e dalla guerra stessa, ma anche e soprattutto dalle lotte che questi soggetti hanno praticato e continuano a praticare ogni giorno. Trovare in queste lotte la possibilità di un’opposizione alla guerra è una sfida tutta aperta, nella quale chi ha contribuito a questo foglio crede sia necessario impegnarsi ostinatamente.
Per farlo ci sembra necessario superare un altro blocco, che è quello che puntualmente oppone l’iniziativa locale e quella transnazionale. La guerra dimostra che quest’opposizione è fasulla proprio perché mostra i suoi effetti oltre il campo di battaglia: nelle bollette che paghiamo, nella dura legge della necessità invocata dai governi nazionali per decretare l’incontestabilità delle politiche neoliberali, nel furore nazionalista che alimenta razzismo e patriarcato, nella militarizzazione delle politiche industriali, nella rottura di ogni possibile nesso tra politiche ambientali e giustizia sociale. Chi ha partecipato alla costruzione di questo foglio ha cercato di indicare la possibilità di andare oltre la reazione alle condizioni presenti alla quale le nostre lotte sembrano condannate, nello sforzo di anticipare processi che la guerra sta mettendo in movimento e che riguardano il tempo che ci aspetta. Cercare i modi di portare l’antimilitarismo fuori dai territori è sempre più rilevante, nel momento in cui la militarizzazione diventa una componente essenziale delle politiche industriali, della riorganizzazione delle catene del valore, della ridefinizione contraddittoria della transizione verde in funzione della guerra e del profitto. Innescare convergenze del lavoro vivo là dove il razzismo e il patriarcato si stanno già dimostrando elementi essenziali tanto per uscire dalla crisi presente della produzione e riproduzione sociale, quanto per organizzare la ricostruzione in funzione dell’accumulazione del capitale.
Una politica di pace non può basarsi sulla contrapposizione tra locale e transnazionale perché per essere efficace è necessario andare oltre il qui e ora delle lotte di cui siamo parte, sforzandoci di proiettarle nel tempo lungo di una trasformazione che altrimenti rischia di ridurci all’impotenza.
In questo foglio affermiamo che la nostra pace non è assenza del conflitto e neanche pacificazione sociale. Non è riducibile neppure al semplice pacifismo che già vent’anni fa, quando ha riempito e piazze del pianeta, ha avuto l’efficacia di un’opinione tra le altre, affidandosi sempre e in ultima istanza agli Stati e alla diplomazia internazionale per realizzarsi. Bisogna allora pretendere la fine della guerra in Ucraina, mentre ci opponiamo ai suoi effetti materiali e ideologici, alla violenza e alla coazione che impone. Non solo la forma del mondo in guerra ma anche quella di un auspicabile mondo in pace dipende dai nostri movimenti, dalle nostre resistenze, dalle nostre lotte. Il punto rimane quello di fare della lotta per la pace un punto di convergenza tra lotte eterogenee, rompendo i fronti imposti dalla guerra.
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