lunedì , 18 Novembre 2024

C’era una volta lo sciopero a… Hollywood

di ALESSANDRO CAMON (sceneggiatore)

Lo sciopero della Writers Guild of America (WGA), che rappresenta i circa undicimila sceneggiatori professionali del cinema e televisione (me compreso), potrebbe sembrare da lontano come la protesta di una casta intellettuale privilegiata e incontentabile. La realtà è profondamente diversa. Si tratta della battaglia di migliaia di lavoratori intellettuali precari, intensamente sfruttati, e in pericolo di estinzione come categoria professionale. Le ragioni dello sciopero hanno a che fare con le trasformazioni del processo produttivo a partire dall’avvento delle piattaforme digitali, trasformazioni che hanno spinto gran parte degli sceneggiatori sull’orlo del baratro finanziario, con un abbassamento medio del reddito del 23% durante l’ultimo decennio. Questo mentre nello stesso periodo i profitti complessivi dell’industria sono aumentati del 40%, consentendo ai CEO delle principali compagnie di portare a casa introiti individuali di 30 o 40 milioni di dollari all’anno (David Zaslav, CEO di Warner Brothers/Discovery, è arrivato a 250 milioni nel 2021).

Se il trend dovesse continuare, presto il mestiere di sceneggiatore non darà più la possibilità di entrare, o restare, nella ‘classe media’, che peraltro si sta sbriciolando in tutti i settori lavorativi. Nel prossimo futuro, il lavoro diventerebbe così appannaggio di pochi scrittori già ricchi e affermati, una maggioranza di giovani senza famiglie da mantenere (e che mai potranno permettersele), o residenti esteri che non fanno parte della WGA e verrebbero pagati anche sotto il minimo sindacale. Tutti gli altri sarebbero per forza di cose scrittori part-time, con un secondo lavoro. Per completare il quadro, l’Intelligenza Artificiale potrebbe sostituire completamente una larga porzione della forza lavoro umana. 

Questa situazione è maturata attraverso un paio di cambiamenti epocali. Il primo è stato lo sviluppo di un nuovo modello di distribuzione che penalizza severamente il lavoro creativo. Nel vecchio modello lo studio distribuiva un film nelle sale, per poi venderlo ai distributori esteri e ai network televisivi. Una serie televisiva andava in onda su un network terrestre, poi veniva venduta all’estero, e poi, dopo anni, alle televisioni locali e minori. Ad ognuno di questi passaggi gli scrittori ricevevano i cosiddetti ‘residuals’, o diritti d’autore, commensurati ai ricavi degli studi. In un lavoro freelance come quello di sceneggiatore, questi guadagni erano essenziali per sostenere gli inevitabili periodi di disoccupazione. Netflix, Amazon e le altre piattaforme digitali distribuiscono invece direttamente, immediatamente e perpetuamente in tutto il mondo, facendo sostanzialmente sparire i residuals.  Il loro modello non si basa infatti su incassi o rivendite, ma sugli abbonamenti, ai quali i creatori del prodotto non hanno alcuna partecipazione.

Il secondo cambiamento è quello fra il modello di serie televisiva tipico dei network, che era mediamente di 22 episodi a stagione, e la serie che va in streaming, con stagioni di dieci, otto o sei episodi, e lunghi periodi di pausa fra una stagione e l’altra. Questo modello limita le dimensioni dello staff creativo, i compensi (legati al numero di episodi) e la sicurezza di impiego nel tempo. Per gli sceneggiatori, la necessità di saltare spesso da una serie a un’altra aumenta la competizione, riduce il potere contrattuale e toglie la possibilità di “salire di grado”.

Come sopra accennato, l’Intelligenza Artificiale minaccia di essere la pietra tombale sull’intera professione. Nel prossimo futuro programmi come ChatGPT4 saranno infatti in grado di generare sceneggiature a costo zero, sulla base di precedenti film o episodi televisivi. Il prodotto sarebbe sicuramente mediocre, ma uno sceneggiatore umano lo potrebbe poi sgrezzare e “umanizzare” per un compenso molto inferiore a quello che percepirebbe per una sceneggiatura completa. Questo è lo scenario da incubo che la WGA cerca di scongiurare, introducendo normative a protezione dei lavoratori viventi. Le compagnie hanno finora risposto che è troppo presto: la ben nota strategia è quella di procedere in un quadro di comodo vuoto normativo, fino a creare uno status quo che poi sarebbe difficilissimo da smantellare.

Quella in atto è una delle più grandi rapine della storia umana: tecnologie come ChatGPT4 e DallE stanno fagocitando milioni di testi o immagini (prodotti da esseri umani) per poi remixare i frammenti in prodotti che possono essere usati a beneficio di chi li controlla, senza aver acquisito alcun diritto legale sul materiale di base, e senza pagare nessuno. In altre parole, siamo di fronte a un’enorme macchina di plagio e appropriazione del patrimonio umano collettivo. Non solo scrittori e illustratori, ma quasi tutti professionisti di arti e discipline creative, hanno ampie ragioni per preoccuparsi: la voce e le sembianze di un attore o di un cantante, per esempio, possono già essere artificialmente riprodotte, ibridate e manipolate a piacimento. Non è difficile immaginare che in futuro il cast di un film sia stabilito da algoritmi, con variazioni da mercato a mercato – o anche su richiesta del consumatore individuale – e attori generati al computer.

Ovviamente questa riduzione e svalutazione della componente umana sarebbe una catastrofe culturale e morale. La concezione ideale della tecnologia è che questa offra soluzioni a problemi umani: sostituire l’essere umano con la macchina nel lavoro creativo non risolve un problema (che non esiste) ma serve solo ad arricchire chi produce e controlla queste macchine. La stessa industria dello spettacolo rischierebbe di diventare irrilevante (già oggi miliardi di persone preferiscono guardare cani, gatti e sconosciuti su TikTok). Ma se la vecchia Hollywood era governata da “uomini di spettacolo”, che per quanto rapaci erano comunque affezionati al prodotto, le moderne piattaforme digitali fanno parte di enormi conglomerati quotati in borsa e devono soddisfare le richieste degli azionisti. Non contano qualità artistiche, interessi generali della società, e nemmeno il futuro dell’industria sul lungo termine. Contano solo ‘market share’, valutazione e dividendi. È per questo che da almeno vent’anni l’industria ha progressivamente perso interesse per l’originalità, puntando tutto sugli adattamenti, serializzazioni e rifacimenti di intellectual properties già note, che offrono ritorni di incassi più prevedibili ed “eccitanti” per il mercato azionario. Basti pensare alla Disney, che oggi comprende anche Fox, Marvel, Pixar, e Lucasfilm (Star Wars), non avendo quindi il minimo bisogno di produrre più nulla di originale.

Come sempre, l’ossessione per i ‘margini di crescita’ finisce coi tagli dell’occupazione e del costo del lavoro: meno ricevono i dipendenti, più aumentano i profitti e quindi stipendi e bonus dei CEO, finché i dipendenti non si ribellano. Paradossalmente, è come se i nuovi padroni dell’industria non avessero imparato nulla dai film e le serie su cui guadagnano fantastiliardi e pensassero che Darth Vader fosse l’eroe della storia. Lo sciopero degli sceneggiatori ha quindi una dimensione politica che va molto al di là dei diretti interessati e si colloca fermamente nel pieno del risorto labor movement Americano. La WGA è entrata in sciopero con un voto a favore del 98%. DGA (registi), SAG (attori), IATSE (maestranze specializzate) e Teamsters (camionisti e manodopera) hanno dato il loro pieno supporto, sapendo che dovranno rinegoziare i loro stessi contratti collettivi sulla scia di questa battaglia. In definitiva, sono in ballo il futuro di un’intera industria e la possibilità di ancorare l’uso delle nuove tecnologie all’interesse collettivo anziché a quello dei plutocrati. Le conseguenze si sentiranno in tutto il mondo.

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