di MAURIZIO RICCIARDI
Questo testo riprende e amplia l’intervento del 20 marzo 2023 al Laboratorio di teorie antagoniste, organizzato a Bologna presso l’Ex-Centrale di via Corticella 129.
1. Le classi e la classe
Poniamo direttamente la questione: esiste ancora la classe? Possiamo dare per scontato che esistano le classi. Esiste cioè una classificazione degli individui in base alla differente posizione occupata all’interno del processo di produzione e riproduzione della società. È difficile negare che queste differenze esistano. Il problema è caso mai se è ancora utile ragionare in termini di classe per sottrarsi e possibilmente cancellare questa classificazione. Storicamente l’affermazione e, per un certo periodo di tempo, il predominio del linguaggio di classe è stato il modo in cui milioni di uomini e di donne hanno cercato di farla finita con la classificazione che li collocava in una posizione subordinata all’interno della società. Questo è un primo punto che deve essere sottolineato. Il linguaggio di classe ha un doppio significato: esso è originariamente un linguaggio d’ordine e solo successivamente diviene la rivendicazione di una possibile rivolta contro l’ordine delle classi. Inizialmente esso serve a classificare una molteplicità di fenomeni prima nelle scienze naturali e poi anche in quelle sociali, assegnando a ciascuno e ciascuna il suo posto. Questa ossessione classificatoria del sociale deriva dall’altrettanto ossessiva paura per il caos prodotto dalla presenza simultanea di una moltitudine di individui formalmente uguali senza alcuno status ascritto. I loro movimenti, le loro azioni, le loro stesse parole vengono percepiti come la minaccia di un disordine potenzialmente ingovernabile. La presenza delle classi è in un primo tempo attribuita alla contrapposizione all’interno del popolo di due gruppi divisi dalla loro diversa origine. Al gruppo dei conquistatori viene opposta la rivolta dei conquistati che ristabilisce il giusto ordine. A questa origine mitica della divisione in classi del popolo si sostituisce ben presto quella delle scienze sociali che utilizza una molteplicità di classificazioni per governare quello spazio specifico e determinato che è la società.
Classificare significa due cose: mettere ordine e conoscere quali sono gli elementi di quell’ordine. Da questo punto di vista la classificazione è una necessità subita, ma praticata anche da chi vuole valorizzare l’azione e i desideri di chi non è ancora riconosciuto all’interno della classificazione consolidata. Nella società delle classificazioni il primo passo è rivendicare l’esistenza di un gruppo che fino ad allora è sfuggito a ogni giudizio, ovvero che è stato considerato letteralmente inclassificabile. Da questo punto di vista, celebre e notevole è il dialogo che si svolge nel 1832 in un tribunale tra Auguste Blanqui e il suo giudice. «Il presidente: Qual è la vostra professione. Blanqui: Proletario. Il presidente: Non è una professione. Blanqui: Come, non è una professione! È la professione di trenta milioni di francesi, che vivono del loro lavoro e che sono privi di diritti politici. Il presidente: Ebbene, sia. Cancelliere, scriva che l’accusato è proletario».
Proletario è il nome non previsto di una classe all’interno della classificazione delle classi della società. Quello stesso nome non rimane poi stabile nel tempo, perché gli stessi proletari si autodefiniscono a lungo come classe operaia, ponendo così evidentemente la questione sulla differenza tra le due autodefinizioni. Ritorneremo su questo punto, perché oggi classe operaia viene considerata come la descrizione di una categoria professionale. Quando non viene data per scomparsa, o viene bollata come politicamente improponibile, essa viene riferita esclusivamente agli operai di fabbrica. E, siccome nessuno, almeno in Europa, vede più le fabbriche, allora non ci sono più nemmeno gli operai.
Alcuni considerano il linguaggio di classe un residuo del passato, un’espressione veteromarxista. Potrebbe anche essere vero, perché sono stati soprattutto i marxisti a insistere sulla centralità politica della classe (operaia). Bisogna perciò capire se c’è una differenza tra parlare di classe e parlare delle classi. Come abbiamo detto, le classi evidentemente ci sono. Sono empiricamente evidenti. Ma in che cosa si distingue la classe operaia o proletaria dalle altre classi? C’è solo una differenza economica o sociologica, oppure c’è qualcosa in più e di diverso? Classe si rivela un concetto politicamente instabile. Nella società capitalista le classi ci sono sempre, la classe deve essere costituita. Purtroppo, con grande rammarico dei marxisti, il III libro del Capitale di Marx si interrompe dopo solo un paio di pagine del capitolo intitolato “Le classi”. Marx però ha abbondantemente chiarito cosa intendesse per classe e ha altrettanto approfonditamente analizzato la dialettica tra classi differenti della società. Eppure, oggi il riferimento alla classe, quando non viene accuratamente evitato, finisce per segnalare, come nel linguaggio intersezionale, un’insufficienza più che una possibilità. Quando esso nomina la classe assieme al sesso e alla razza fa riferimento essenzialmente alla povertà, cioè a una condizione subita e non a un’azione collettiva in grado di andare oltre la propria classificazione nella società. Non è comunque un caso che la classe venga fatta coincidere con la povertà, perché quest’ultima è tornata a essere ovunque la precondizione del lavoro salariato. Si lavora perché si è poveri e, registrando la presenza generalizzata della povertà, il discorso intersezionale registra anche il fatto che sempre più uomini e donne lavorano e rimangono poveri. È evidente però che, nonostante questo dato di realtà, la classe viene considerata insufficiente per motivare e legittimare l’azione politica. La molteplicità delle differenze maturate nella società stabilisce una tensione più o meno profonda nei confronti della classe. Eppure, una differenza specifica continua a esistere: gli appartenenti a una classe non vogliono affermare la condizione in cui sono, ma la vogliono superare; chi rivendica il carattere politicamente determinante del genere e del colore della propria pelle non vuole sopprimere né il genere né la razza. Allo stesso tempo, tuttavia, viene affermata una tensione che non è un’alternativa assoluta, perché storicamente il sesso e la razza sono stati principi di classificazione che, anche se non sempre, sono coincisi con la collocazione all’interno di una specifica classe.
Dentro a questa tensione si è affermato anche il ricorso al termine subalterni che, almeno nell’uso iniziale che ne hanno fatto i Subaltern Studies, indicava coloro che hanno subito l’assoggettamento coloniale e lo sfruttamento capitalistico in modi e luoghi differenti da quanto avvenuto in Occidente. Anche se poi il termine è stato applicato a contesti e periodi differenti, esso ha continuato a indicare coloro che non avevano avuto o che non hanno la possibilità materiale di costituirsi in classe secondo quei processi che si sono sviluppati in Occidente e ai quali è stato a lungo attribuito un significato normativo. Classe ha finito così per essere criticato e rifiutato da destra e da sinistra. Da destra il neoliberalismo ha affermato che non esistono le classi, ma solo gli individui. Da sinistra perché la classe si riferiva a una storia esclusivamente occidentale, operaia e maschile.
2. Gli elementi sociologici di una figura non societaria
La crisi del concetto di classe è dovuta anche all’impossibilità politica di continuare a ragionare in termini di classi operaie nazionali, che poi dovrebbero unirsi in una struttura internazionale, così come proponeva l’internazionalismo classico. Le diverse classi operaie non si trovano solo di fronte padroni già ampiamente transnazionali, ma la loro stessa composizione è transnazionale e varia rapidamente nel tempo. La stessa classe operaia nel senso di tutti coloro che in modi diversi contribuiscono all’autovalorizzazione del capitale è una figura della società mondo e non delle singole società nazionali. Il dominio transnazionale del capitale è alla base anche della necessità di opporsi di volta in volta a ogni suo singolo comando locale e, d’altra parte, la stessa classe operaia ha sempre più una composizione transnazionale, dalla quale si deve inevitabilmente prendere le mosse se si vuole pensarla come classe.
La classe non è una figura spaziale, non implica la prossimità, ma piuttosto la sua rottura. La classe non organizza uno spazio che prima non c’era, ma ridefinisce lo spazio (sociale e non solo) a partire dalla trasformazione delle relazioni che negano il rapporto (di capitale).
Questa rottura costante dei vincoli spaziali e comunitari, della vicinanza, dell’assembramento, è il contrario dell’omogeneità. La classe si costituisce dentro a questa rottura, non è il risultato della lotta ma la sua pratica.
Il giovane Marx quando nel 1843 utilizza per la prima volta il termine proletariato parla di una «classe gravata da catene radicali; di una classe della società borghese, che in realtà non è una classe della società borghese; di un ceto che coincide con il decomporsi di tutti i ceti». Per Marx il proletariato è la «decomposizione della società». Quindi è una parte della società, ma ne è anche la negazione.
3. La società di classe e la sua neutralizzazione sociologica
Adorno annota giustamente che nonostante la critica necessaria di ogni neutralizzazione sociologica i «lavoratori vedono la società scissa in una parte superiore e in una parte inferiore». È empiricamente vero che i figli dei proletari fanno scuole diverse da quelle dei ricchi, che hanno possibilità minori di godimento dei beni sociali e che la conquista di maggiori possibilità pesa sulla loro vita e sui loro redditi in maniera diversa da ciò che è consentito ai ricchi. Mentre la società di classe è una specifica topologia, una partizione dello spazio sociale organizzato attraverso i suoi confini, l’esperienza quotidiana della disuguaglianza agisce «sull’esistenza dei singoli uomini in modo profondo, altrimenti il concetto di classe sarebbe certamente un feticcio». È a partire dallo scandalo quotidiano della disuguaglianza che la classe pratica la propria non spazialità contro le partizioni della società.
Risulta così evidente che dire classe significa anche descrivere la società in alcune sue articolazioni fondamentali. Allo stesso tempo il rischio è sempre quello di confermare la rappresentazione che ne deriva con le sue gerarchie. È anzi molto più di un rischio, perché è il modo in cui le scienze sociali si sono appropriate del discorso della classe per descrivere la società in maniera normativa. Esse non l’hanno solo descritta, ma hanno anche imposto il modo in cui essa doveva essere pensata e quindi quali politiche di classe si dovevano applicare, per mitigare gli effetti dirompenti della divisione in classi.
4. La classe e la sua organizzazione
Il risultato è stato una stabilizzazione delle classi che ha contribuito a rendere quello di classe un concetto politicamente instabile. Non è sempre stato così. La valorizzazione politica della classe è stata a lungo affidata alla sua organizzazione che per oltre un secolo si è chiamata partito. Classe e partito hanno definito a lungo un campo di tensione e lo hanno determinato. D’altra parte, se la classe era una parte differente da tutte le altre parti della società, era anche logico e conseguente che essa fosse organizzata in un partito diverso da tutti gli altri partiti. Diverso perché non puntava a governare la società, ma a rivoluzionarla. Il fatto che nella società esistano delle classi, cioè delle partizioni che assegnano a segmenti diversi della società possibilità differenti di accedere alla ricchezza prodotta, ha reso quasi autoevidente la necessità di un partito, di una partizione politica, specifica e particolare che si opponeva alle partizioni. Storicamente il discorso di classe ha due componenti che ritornano costantemente: la lotta sulla produzione della società e la sua organizzazione. Non si tratta tanto di affermare teoricamente la centralità esclusiva della lotta economica, ma di riconoscere praticamente che avere un salario più alto consente di accedere a prestazioni sociali altrimenti negate, così come era ed è assolutamente chiaro che ogni aumento del salario diretto o indiretto limitava e limita lo spazio di azione del profitto. Quindi ogni lotta per il salario era ed è una lotta per il potere. Il partito – un termine che oggi non a caso sembra subire lo stesso destino di classe – è stato lo strumento per organizzare questa lotta. Esso è stato una componente essenziale di quello che è stato il movimento operaio, ovvero della costellazione composta da classe, sindacato e appunto partito.
La crisi di questa costellazione organizzativa ha lasciato la classe senza organizzazione. Ovvero davanti a un problema ancora oggi sostanzialmente irrisolto. Non è stato risolto da nessuna delle esperienze che hanno reagito alla rottura di quella costellazione. Non lo hanno risolto i centri sociali, non lo hanno risolto i social forum o la proposta dell’assemblea come luogo di comunicazione di esperienze politiche diverse. Non lo hanno risolto tutte quelle forme organizzative che hanno cercato di connettere i movimenti del lavoro vivo con il territorio in cui si collocavano, mentre buona parte di quei movimenti dipendevano ormai dalla globalizzazione del capitale. Non lo risolvono nemmeno i mille collettivi orgogliosi e gelosi della loro specificità e autonomia che poi si trovano in lunghissime assemblee spesso difficili da decifrare. Eppure, è impossibile ragionare in termini di classe senza porsi il problema della sua organizzazione. La classe non è un sentimento e nemmeno una percezione. Con una semplificazione politica apparentemente brutale Lenin ha scritto: «Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare». Secondo Lenin, dunque, non basta riconoscere la conflittualità che inevitabilmente esplode nella società capitalistica, bisogna osare pensare e praticare processi che vadano oltre il conflitto presente, che scelgano il terreno della lotta invece che subirlo. In altri termini si deve porre la questione di un potere in grado di modificare le condizioni presenti.
Forse però non si tratta di individuare un luogo su cui fondare quel potere, ma si deve pensare piuttosto a intensificare i processi che si esprimono nelle lotte.
D’altra parte, nemmeno la fabbrica è stato il luogo del potere operaio negli anni Sessanta e Settanta.
5. La fabbrica e la classe operaia
Quei decenni sono stati invece il momento di massima porosità del confine della fabbrica, la struttura che il capitale aveva utilizzato e utilizza per concentrare, sfruttare e controllare la forza lavoro. Gli anni Sessanta e Settanta sono stati il momento in cui il potere operaio è divenuto potere sociale imponendo la propria presenza politica contro le gerarchie che tanto in fabbrica quanto nella società si pretendevano indiscutibili. La politica della fabbrica non è mai stata limitata ai soli impianti produttivi. Ha investito il territorio circostante stabilendo connessioni che andavano bel oltre lo specifico sito produttivo. La fabbrica è stata un centro di potere che si irradiava in tutto lo spazio circostante, grazie al rapporto instaurato con lo spazio urbano. In questa lotta dispiegata per il potere sociale, la classe operaia è stata ed è molto più che l’insieme dei lavoratori impiegati in fabbrica. Ora non è che non esista più la classe operaia. Sociologicamente esiste sempre. Non esiste più il potere operaio capace di dare forma allo spazio circostante, a coinvolgere nella sua lotta una molteplicità di altre figure sociali. Quando questo accade ancora oggi essa sembra una lotta di pura resistenza e in qualche modo destinata alla sconfitta. Penso a quello che è successo nell’altra Porto Marghera, ovvero la fabbrica di elettrodomestici Electrolux nel trevigiano, che ha continuato a lottare negli ultimi decenni, ma è evidente che il nucleo di potere che essa ha rappresentato nel tempo si è progressivamente assottigliato. Eppure, grandi concentrazioni operaie continuano a esistere su scala globale. Basta pensare all’interporto di Bologna, che è senza dubbio una grande fabbrica, ma non è un nucleo di potere capace di espandersi sulla città. In parte ciò è dovuto al fatto che buona parte di quelli che ci lavorano sono migranti, ovvero una sezione di classe operaia che mette in scacco anche il discorso operaista sulla composizione di classe. In parte è dovuto al fatto che, nel momento in cui la fabbrica è diventata un problema politico, il capitale ha reagito frammentandola, in modo da rendere difficili se non impossibili i collegamenti autonomi di classe; l’ha dislocata in luoghi dove il potere politico democratico, socialista o postsocialista ostacola quando non reprime i tentativi di organizzazione operaia. Questa cancellazione politica della fabbrica ha generato un sospetto diffuso e condiviso sugli stessi operai di fabbrica, che per decenni sono stati considerati i garantiti, i privilegiati e i rappresentati rispetto ai precari senza garanzie e senza rappresentanza. La classe operaia è diventata così una categoria di mestiere. Non un concetto politico, ma coloro che lavorano in fabbrica.
Questo imbarazzo è evidente nella nota che accompagna la traduzione del volume di Angela Davis Donne, razza, classe: «Infine per il termine class e in particolare il suo uso nell’espressione working class abbiamo deciso di conservare la versione inglese o usare in qualche caso l’espressione “classe lavoratrice”. Avessimo tradotto il saggio di Davis a caldo, nel 1981, avremmo potuto usare senza problemi “classe operaia”. La formula però indica troppo le blue collars che oggi incidono meno nella popolazione working class. L’espressione “classe operaia” è stata usata solo quando Angela Davis scrive esplicitamente di donne operaie che lavorano in fabbrica». La dichiarazione è un po’ buffa. Nel 1981 la classe operaia c’era (ed era una presenza politicamente rilevante), ma oggi evidentemente – a posteriori – non ci sarebbe più, con il risultato di farne un concetto nemmeno sociologico, ma solo professionale. Eppure, Davis lo utilizza mentre parla della storia statunitense dell’Ottocento quando le blue collars erano persino una minoranza professionale. Ne fa quindi un uso politico, come d’altra parte fa Marx quando parla di classe operaia o di operaio collettivo, indicando una linea di cesura contro le classificazioni e non un tanto o non solo un processo di identificazione. Non l’evidenza di un’identità, ma la costituzione di un soggetto in movimento.
Angela Davis utilizza inoltre una semantica di classe che non rimanda solo all’identificazione di un suo segmento, ma punta direttamente allo scontro. Per lei la classe è una linea di confronto e di scontro che conserva il segno della schiavitù, non perché pensi che ogni oppressione sia schiavitù o che lo sfruttamento capitalistico sia meccanicamente la continuazione della schiavitù con altri mezzi. Angela Davis ha ovviamente una chiara consapevolezza della specificità della schiavitù e del suo contenuto razzista. Non usa però classe come un concetto prioritariamente inclusivo, ma attraverso di esso individua un avversario. Non a caso parla di «classe degli schiavisti» e «classe di proprietari di schiavi». Allo stesso tempo sottolinea che il riferimento alla schiavitù si diffonde anche tra le donne bianche di classe media che lo utilizzano come metafora per indicare l’oppressione del lavoro domestico e del matrimonio. E bisogna anche ricordare che l’espressione “schiavitù del lavoro salariato” diviene importante e pericolosa, quando comincia a essere utilizzata dagli operai del nord degli Stati Uniti che minacciano così di collegare la propria situazione di sfruttamento a quella degli schiavi del sud. La necessità di rispondere a questa connessione imprevista è tra le cause della guerra civile americana.
Angela Davis mostra inoltre come può essere maneggiato un altro concetto complesso come quello di classe media, senza considerarlo una sorta di nucleo sociale autonomo che può essere alternativamente attirato nel pozzo gravitazionale del capitale o in quello della classe operaia. Scrive Davis: «Tra le donne lavoratrici e le donne provenienti da facoltose famiglie di classe media erano sicuramente le operaie quelle che avevano più diritto a fare confronti con lo schiavismo». Allo stesso tempo rileva che sono state soprattutto le donne di classe media a percepire una maggiore affinità con la condizione delle donne e degli uomini neri diventando agitatrici e sostenitrici nelle loro lotte. La classe media non le serve per indicare una condizione mediana nella sociologia della società, ma l’evidenza di una rottura e di una connessione possibile (e storicamente avvenuta) contro il dominio presente. Classe media indica qui la presenza di un discontento e l’attivo schieramento con altri oppressi. Queste donne di classe media sono politicamene rilevanti perché vogliono smettere di essere un elemento della riproduzione patriarcale e razzista della società. Davis dice che queste donne sono prese dentro un dilemma, lo descrive, ma le interessa la parte dalla quale viene sciolto. E questa soluzione non è stata quella di tutte le donne della classe media.
6. I movimenti sociali sono movimenti di classe
Anche in questo caso a essere centrale è la dissoluzione delle classificazioni. Non basta fermarsi alla loro identificazione, limitandosi al conflitto che le stabilisce e le caratterizza. Lo stesso vale per la dissoluzione della configurazione storica del movimento operaio che avviene a partire dal lungo Sessantotto. Nei decenni successivi alla istituzionalizzazione neoliberale della società corrisponde l’azione e la presenza di movimenti che la contestano, ma anche talvolta ne favoriscono il continuo adattamento. Con questo intendo dire che non solo parti di questi movimenti si istituzionalizzano (per esempio i verdi in Germania, che sono però solo l’esempio più eclatante), ma che l’espressione dei movimenti può rivelarsi funzionale alla dinamica stessa della società. Questa moltiplicazione di movimenti ci interessa nella stessa misura in cui ci interessa il riferimento alla classe.
Se la classe è rilevante nel momento in cui mette in discussione la società di classe e quindi anche se stessa, i movimenti divengono politicamente interessanti quando assumono un connotato di classe, cioè non esprimono solo la specifica rivendicazione che li fa sorgere, ma mettono in discussione la produzione e la riproduzione della società.
Fino a quando rimangono movimenti, essi inoltre mettono in tensione le modalità di istituzionalizzazione della società. Il rapporto tra classe e partito è venuto meno proprio per l’eccesso di istituzionalizzazione, perché si è sclerotizzato in formule che impedivano la discussione e la critica e che alla fine hanno prodotto la sterilizzazione della classe e l’obsolescenza della forma partito. Il complicato e finora irrisolto rapporto con l’istituzionalizzazione caratterizza invece i movimenti che politicizzano continuamente delle questioni sociali: ovvero, essi rendono evidente che c’è una cesura, un contrasto che richiede una mediazione o può portare a una lotta, pur essendo ancora lontani da immaginare una adeguata forma organizzativa che possa dare continuità a questi contrasti. Dal punto di vista di classe i diversi movimenti non sono indifferenti, ciò significa che non possono essere collocati uno di fianco all’altro senza antitesi. Sono cioè l’espressione di tensioni spesso contrapposte all’interno della società mondo.
Secondo Marx, il movimento sociale è già un movimento politico, proprio perché mette in discussione la forma della produzione e della riproduzione della società. In questo senso i movimenti sociali sono movimenti di classe. Essi, tuttavia, non possono essere sommati secondo una logica in definitiva parlamentare o, se si vuole, ecclesiastica. Una logica che appare in molte se non tutte le convocazioni delle nostre iniziative di movimento, nelle quali molto democraticamente tutte le rivendicazioni sono messe una accanto all’altra, secondo la logica che non si può e non si deve escludere nessuno e secondo la convinzione aritmetica che la somma delle parti produce immediatamente una forza collettiva. In questo modo la ricchezza politica della molteplicità delle rivendicazioni soggettive viene risolta attraverso il semplice calcolo delle parti. La moltitudine diviene un problema aritmetico, invece che l’evidenza della tensione di classe che la innerva. Un esempio pratico del carattere problematico della moltitudine è stata la manifestazione del 22 ottobre 2022 a Bologna. Una grande manifestazione, un sospiro di sollievo che ha suscitato grandi aspettative. Guardando dentro a quella manifestazione si vedeva un grande blocco di giovani e giovanissimi mobilitati intorno a tematiche soprattutto ecologiche e alla rivendicazione di una vita se non migliore almeno bella. Lo spezzone della GKN. Uno spezzone molto grande di sindacalismo di base composto soprattutto da operai migranti. Uno spezzone tutt’altro che insignificante composto anch’esso da giovani che riprendevano slogan e mimavano comportamenti di un passato quasi remoto. Nudm ha scelto di non avere un suo spezzone, ma c’erano centinaia di donne con i pañuelos che mostravano chiaramente a cosa facevano riferimento.
Bisogna guardare dentro alla convergenza per capire se e come questi segmenti di classe possono produrre un’iniziativa comune, perché se non ci riescono non è perché esistono i ceti politici maligni e ambiziosi, ma perché le pretese soggettive di ognuno di quei segmenti parlano un linguaggio di classe che non comunica immediatamente con gli altri.
La moltiplicazione e la frammentazione dei linguaggi di classe producono certamente una ricchezza nuova, ma sono anche la causa per cui moltissimi uomini e donne che oggettivamente vivono in condizioni di assoggettamento e sfruttamento non riescono ad accedere all’azione comune e nemmeno si riconoscono come classe.
I movimenti ridefiniscono le pratiche della classe. La sua eventuale costituzione deve partire dalla moltitudine di figure che non devono semplicemente essere ridotte a unità, ma non possono nemmeno essere considerate come una pluralità indifferente. Se si vogliono considerare i movimenti da un punto di vista di classe non basta nominarli al plurale, in modo che tutte le loro rivendicazioni vengano messe su di un piano di parità formale, di fatto senza comunicazione. Le differenze devono essere prese sul serio e non semplicemente sommate. Devono essere prese sul serio perché non stabiliscono solo un campo di tensione verso l’esterno, verso quello che un tempo veniva definito il nemico di classe, ma anche verso l’interno. Il problema è se queste differenze si fissano in identità, se si risolvono in una indisponibilità pratica a mettere in discussione ciò che si è. Lo specifico politico della classe è proprio questo: chi ne è parte, chi parla e lotta dalla prospettiva di classe, lo fa perché vuole smettere di essere quello che è.
Riassumendo: i movimenti possono essere solo movimenti della società, ma possono essere anche processi in cui la sua produzione e riproduzione viene contestata materialmente. Da questo punto di vista, oggi, non è possibile alcuna definizione della classe e quindi della lotta di classe che non tenga conto della complessità dei movimenti del lavoro vivo che continuano a irritare la società. Movimenti dei e delle migranti che attraversano i confini degli Stati e delle leggi, mettendone in discussione la legalità politica, ma obbligando anche a ripensare le stesse categorie con cui la classe è stata finora intesa. Movimenti antirazzisti che operano nella stessa direzione anche all’interno di Stati che si pretendono omogenei. Movimenti contro le guerre, e oggi in particolare per contestare l’invasione russa dell’Ucraina, il nazionalismo di ogni tipo e il militarismo globale occidentale. Movimenti femministi e transfemministi che contestano la struttura patriarcale della società e la configurazione sessuale dei rapporti sui quali essa si regge. Movimenti ecologisti che lottano dentro al mutamento climatico, opponendosi alla distruzione mercificata della natura e alle diseguaglianze che essa riproduce. Movimenti della produzione immediata, ovvero i movimenti di tutti coloro che sono costantemente sottoposti ai processi di valorizzazione del capitale e vivono quindi delle molteplici forme del salario.
Ciò impone tuttavia di condividere l’assunto che il capitale è la potenza sociale che organizza l’esistenza di tutti coloro che partecipano direttamente o indirettamente alla sua valorizzazione. Se non si accetta questo presupposto è inutile parlare di classe e, anche se lo si fa, essa torna a essere una modalità di classificazione tra le altre.
Ciò non significa che l’unico luogo in cui il capitale deve essere contrastato è il posto di lavoro, derubricando ogni altra contestazione a una contraddizione secondaria che si risolverà in un futuro più o meno lontano. Nessuna organizzazione può collocare quelle differenze in una gerarchia funzionale per maneggiarle con comodo. Il lavoro vivo è attraversato da tensioni che devono essere assolutamente riconosciute come tali e assunte come terreno di incontro e di scontro altrettanto importante di quello contro il capitale. Da questo punto di vista la razza, il sesso, la giustizia climatica non sono condizioni ulteriori rispetto al lavoro vivo e alle sue rivolte, ma sono suoi movimenti interni e producono conseguenze e tensioni che lo definiscono nella sua complessità. Non sono movimenti sociali nel senso di movimenti della società, ma dinamiche interne al lavoro vivo che deve rompere praticamente le sue classificazioni interne così come deve rompere quelle imposte dalla tradizione e dal capitale.
7. L’autodissoluzione della classe
Questa pratica è una lotta che – scrive Marx nella Miseria della filosofia – è una vera e propria guerra civile, cioè uno scontro interno alla società della classificazione, portato avanti dall’associazione dei classificati. Qui tradizionalmente veniva posta l’annosa questione della coscienza di classe, che non è comunque un concetto psicologico. Non può cioè essere intesa come una consapevolezza superiore che viene acquisita e che prima mancava. Il passaggio avviene quando la massa dei classificati non lotta soltanto contro il suo avversario immediato, non si oppone solamente e non resiste soltanto, ma diventa una classe in se stessa, ovvero mettendo in gioco le sue stesse relazioni interne, determinando così il carattere specifico della sua azione. In altri termini,
la moltitudine di figure soggettive diviene classe non solo perché ha lo stesso nemico, ma attraverso le relazioni che sviluppa al suo interno. Se queste relazioni non mutano non c’è nemmeno la classe.
Se è vero quello che abbiamo detto sui movimenti sociali, ciò significa che la classe è il rifiuto pratico della posizione a cui sembra di essere destinati dall’organizzazione complessiva della società. La classe non è un’identità, ma un rischio. Non è la conferma di ciò che si è, ma il rischio di diventare qualcos’altro. Non basta nemmeno il presentarsi in massa: essere tanti contro i pochi che detengono il potere o che godono dei frutti dello sfruttamento. Non basta l’identificazione di un nemico comune. La classe non è una folla, nella quale ogni differenza perde la propria specificità o addirittura deve smettere di contare. La costituzione in classe è questo processo di trasformazione di chi vi prende parte. Più complesse sono le contraddizioni all’interno del lavoro vivo, più urgente diviene il dilemma organizzativo, che può essere risolto solo tenendo conto di questa composizione in movimento.
Le classi ci sono sempre. La classe no. Questo è il punto più complesso in un momento storico che fa del pluralismo la sua cifra. Cioè in un momento storico in cui affermare l’unicità di un processo sembra minacciare l’esclusione di altre manifestazioni della vita. La classe può esistere al singolare solo se non viene intesa come un processo di unificazione con la conseguente cancellazione delle differenze esistenti. È però altrettanto evidente che il processo che rende possibile la classe implica che chi vi partecipa metta in discussione la propria differenza e non la voglia vedere rappresentata come in un qualsiasi parlamento. Se infatti la classe non è una condizione sociale, non è nemmeno l’affermazione della propria identità differente, ma piuttosto il processo che si muove dentro e contro la condizione sociale e le sue classificazioni. Dentro alla lotta della classe devono modificarsi le relazioni, all’interno di un processo che non si muove verso una società diversa, ma è la pratica attuale di relazioni che sfuggono alle classificazioni. Da questo punto di vista dimostra tutta la sua importanza l’affermazione di Walter Benjamin: «Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa che lotta». Si tratta di un processo precario che impone di ritornare costantemente sui risultati che sembrano acquisiti. Ogni acquisizione è temporanea, così come la razionalità su cui si basa la lotta è provvisoria, ovvero né esclusiva né assoluta. La classe, in definitiva, non deve conquistare un potere collocato al suo esterno, ma può essere quel potere che muta alla radice le condizioni della sua stessa produzione fino a cancellarle.