di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
La rabbia dilaga in un’Europa che l’ideologia di guerra ha trasformato in un baluardo di democrazia e libertà contro l’autocrate russo e il dittatore cinese. In questa roccaforte della democrazia, governi come quello francese forzano decisioni su questioni cruciali come l’età pensionabile, a dispetto dei forti movimenti di opposizione e con buona pace di ogni confronto democratico. È questa l’Europa in guerra, che difende il suo presunto “stile di vita” e i cosiddetti “valori occidentali” chiudendo un occhio sulle violazioni dello Stato di diritto per non mettere in pericolo lo schieramento comune sul fronte occidentale. È questa l’Europa che sfoga ogni tipo di violenza contro i migranti e considera esseri umani come “minacce ibride”. È questa l’Europa che ha accolto con favore gli attacchi sferrati da Zelensky contro i lavoratori pochi mesi dopo l’inizio dell’invasione russa per aprire le porte agli investimenti esteri, che governeranno i piani di ricostruzione nel nome della proprietà, degli affari e dei profitti. È questa la democrazia europea, fatta di scelte obbligate prese nel buio degli uffici governativi e sorde alle richieste che provengono dalla società.
Ma scioperi e blocchi disturbano il sonno di chi crede di poter ottenere disciplina e sacrificio in cambio di una sicurezza all’insegna del riarmo e della sempre maggiore precarizzazione del lavoro e della vita. Nel Regno Unito, un’ondata senza precedenti di scioperi per reclamare l’innalzamento dei salari ha travolto il settore pubblico, spingendo addirittura il governo a mettere a punto una legge anti-scioperi nel tentativo di arginare il potenziale degli scioperi di intaccare il business as usual. In Germania, decine di migliaia di lavoratori del settore pubblico sono entrate in sciopero per chiedere aumenti salariali a fronte dell’inflazione crescente. I lavoratori tedeschi del settore dei trasporti hanno scioperato al fianco dei giovani attivisti durante lo sciopero globale per il clima, contro la prospettiva che il costo della transizione verde venga pagato attraverso i loro sacrifici, anziché quelli di datori di lavoro e investitori. Per tutta risposta, sono stati attaccati e accusati di irresponsabilità per aver varcato il confine che dovrebbe dividere gli scioperi sindacali da quelli politici. In Grecia, dopo che il governo ha provato a incolpare i lavoratori del settore ferroviario di un incidente che ha ucciso 60 persone, in diverse città sono scoppiate proteste contro le conseguenze assassine di anni di privatizzazioni e di attacco ai servizi pubblici e al pubblico impiego.
In tutta la Francia una nuova giornata di scioperi e mobilitazioni contro la riforma delle pensioni che alza l’età pensionabile da 62 a 64 anni si è tenuta ieri, 6 aprile. Da mesi, le città e le campagne francesi sono prese d’assalto dai manifestanti e le proteste si sono intensificate dopo che Macron ha forzato l’approvazione della riforma applicando l’articolo 49.3 della Costituzione così da aggirare l’assenza di una maggioranza parlamentare. Blocchi e scioperi proseguono, i servizi pubblici sono interrotti, il disordine e la rabbia regnano nella République. Milioni di lavoratori e lavoratrici, migranti, donne e uomini di tutte le età si rifiutano di pagare il prezzo dei piani francesi di reindustrializzazione e per il riequilibrio dei deficit statali dei Paesi dell’Unione Europea.
Ricordiamo bene quando, nel 2016, François Hollande utilizzò lo stesso articolo 49.3 per forzare l’introduzione della famigerata loi travail nonostante la presenza di un movimento di opposizione di massa. Quella mossa spalancò le porte alla precarizzazione del lavoro, parte integrante dei pacchetti di austerità imposti dall’Unione Europea all’indomani della crisi finanziaria globale. Da allora, in Francia e altrove, i modelli di workfare costruiti attorno alle politiche attive del lavoro hanno poggiato su ampi programmi di sgravi fiscali per le imprese e i datori di lavoro. Non sorprende che, per rendere la Francia attraente per gli investimenti e le industrie, non sia previsto alcun piano che aumenti la quota di contribuzione delle imprese. È evidente chi deve pagare per risanare la situazione finanziaria dello Stato francese.
Dai tempi dell’introduzione delle riforme di austerità in diversi Paesi dell’Unione Europea, molte cose sono cambiate. Ci troviamo nel bel mezzo di una trasformazione globale segnata da minacce di escalation bellica, aumento del costo della vita e inflazione crescente, nonché dagli effetti del cambiamento climatico e dalle conseguenze di una pandemia globale. Oggi come sette anni fa, la riforma viene presentata come una questione di responsabilità. Una classe politica che giorno dopo giorno mette in pericolo il futuro di milioni di persone, rifiutandosi di prendere contromisure efficaci contro il degrado ambientale e la possibile escalation bellica, accusa i manifestanti francesi di essere egoisti e irresponsabili nei confronti dei loro figli.
Mentre l’innalzamento dell’età pensionabile viene presentato come una necessità per non aumentare il deficit pubblico francese, in tutta Europa nell’ultimo anno la spesa per la difesa ha raggiunto l’1,5% del PIL complessivo. I costi che ne deriveranno supereranno di gran lunga anche l’ambizioso pacchetto da 807 milioni di euro del Next Generation EU, varato durante la pandemia. Con un budget complessivo di 43,9 miliardi di euro per il 2023, la spesa per la difesa della Francia è aumentata di 3 miliardi di euro, arrivando a rappresentare la seconda voce di spesa del governo dopo quella per l’istruzione. Secondo il piano di Macron, entro il 2030 la spesa per la difesa sarà raddoppiata rispetto al 2017, anno in cui è salito al potere, perché bisogna essere realisti e pronti ad affrontare guerre sempre più brutali e numerose.
Alla luce di tutto ciò, “sacrificio” è la parola più ricorrente nelle stanze di governo in Francia e in Europa. Infatti, dopo aver opposto la legittimità delle piazze a quella delle urne e aver lasciato alla forza della polizia il compito di decidere quale delle due debba prevalere, il presidente francese si è appellato al realismo che chiunque si aspetterebbe da un comandante in capo. Dimenticandosi delle decine di migliaia di persone morte perché la produzione non poteva fermarsi, Macron ha sostenuto che la pandemia ha viziato i lavoratori e le lavoratrici francesi, che si sono abituati ad essere pagati dallo Stato senza dover lavorare, un po’ come soldati in licenza. Ora occorre rimettere le cose in ordine e serrare i ranghi. Lasciate pure che il popolo si diverta a fantasticare di democrazia: lui continuerà a lavorare “a pieno regime”, perché è suo il duro compito di affrontare emergenze, come la crisi idrica e la situazione geopolitica, rispetto alle quali la rabbia delle piazze è semplicemente risibile. Prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina e l’inflazione: troppe spese sostenute per proteggere il popolo, che ora deve ricambiare e obbedire mentre vengono prese scelte obbligate. Ma, contro la pretesa di Macron di trasformare i lavoratori, i migranti, gli uomini e le donne in soldati del lavoro, la loro risposta en masse è lo sciopero.
Partecipiamo e supportiamo il movimento francese, nella consapevolezza che l’attuale ondata di lotte e scioperi va ben oltre la Francia. Abbiamo bisogno di uno sforzo collettivo per aprire spazi in cui le diverse forme di rifiuto dei sacrifici e della disciplina che sembrano essere la conseguenza incontestabile di una congiuntura transnazionale segnata da guerra, vincoli fiscali e degrado climatico possano rafforzarsi e connettersi tra loro. Sta a noi fare in modo che ogni sciopero, ogni rivolta, ogni protesta sia una voce che si alza dalla parte di tutti e tutte coloro che rifiutano un futuro già scritto dai paladini del realismo militarista che, dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ha invaso il nostro immaginario politico.