di ANNA NASSER
Lavorare di più, per più tempo senza un aumento dei salari né delle pensioni, che sono già delle pensioni di miseria. Questo, in breve, è il sunto della riforma proposta dal governo di Macron che ha infuocato tutta la Francia negli ultimi mesi e in particolare nelle ultime settimane. Il problema non è solo l’aumento dell’età pensionabile dai 62 ai 64 anni. Altri elementi della riforma penalizzano lavoratori e lavoratrici precarie, ad esempio il conteggio sull’intera carriera per il saldo pensionistico che non tiene conto della precarietà del lavoro e della diminuzione dei “salti di carriera” o il fatto che viene aumentata l’età per ottenere una piena pensione fino a 43 anni di contributi versati. Cosa dire a migliaia di lavoratori e lavoratrici con contratti precari, part-time e con lunghi periodi di disoccupazione alle spalle? La riforma sembra quasi una punizione retroattiva per coloro che non hanno sempre lavorato con contratti stabili, incluse le donne e gli uomini migranti che ogni giorno lottano contro salari da fame per rinnovare il loro permesso di soggiorno o lavorano senza documenti, rimanendo esclusi dalle pensioni e dai brandelli di welfare state che rimangono in Francia. E quindi è stato sciopero. All’alba dell’undicesima giornata, con la chiamata a uno sciopero a oltranza e rinnovabile giorno per giorno che ora arriva al 20 maggio, pezzi sparsi del paese si sono bloccati per giorni e alcuni per settimane. Negli ultimi mesi hanno scioperato maestre e insegnanti, lavoratori dell’amministrazione pubblica e dei trasporti, operai di vari settori cruciali dell’economia francese.
Non è semplice prevedere – e lascia anche il tempo che trova – la durata della mobilitazione né i possibili risultati: in pochi, compresi i sindacati, si aspettavano una partecipazione così alta e l’accelerazione di marzo, dovuta all’autoritarismo del governo che ha infuocato le piazze delle ultime settimane. Prima di marzo, e dopo il voto in Senato, sembrava tutto perduto: già si tiravano in ballo esperienze passate di riforme approvate e mai messe in pratica – una improbabile concessione del Sieur Macron – o si cominciava a pensare al prossimo passo della lotta o alle prossime elezioni. Che la crisi sociale potesse avere la forza di aprire una vera e propria crisi politica non era scontato. Una crisi che certamente è dentro al governo e alle istituzioni come mostra l’uso dell’articolo 49.3 della costituzione del ’58 che permette di evitare il voto del parlamento in alcuni casi – che sia un comma autoritario e proprio di un presidenzialismo à la français gaullista non deve sorprendere. Ma è anche dentro ai partiti. Più che i partiti di opposizione, chi ha dato il la alla mobilitazione sono stati i sindacati sulla spinta dei lavoratori e delle lavoratrici. E come altro potrebbe essere quando la coalizione NUPES non sembra reggere l’urto dei contrasti degli ultimi mesi sulle strategie con cui portare avanti l’opposizione alla riforma nelle aule parlamentari, con buona pace di chi attende la fine della Quinta Repubblica per mano di Mélenchon e un nuovo processo costituente? La forzatura di Macron ha radicalizzato ancora di più le posizioni e rinsaldato le opposizioni politiche e sindacali, oltre che infiammare le proteste. «Nessuna marcia indietro» è la parola d’ordine comune che tutti hanno ripetuto nelle ultime due settimane. È diventato un mantra per i sindacati rispetto a scioperi e manifestazioni, che hanno portato per le strade cortei quasi 800.000 persone nella sola Parigi tra il 7 e il 23 marzo, così come per i netturbini in sciopero che hanno lasciato accumularsi per settimane i rifiuti sui bordi dei grandi boulevards del centro, aggiungendo un tocco di realtà alle foto dei turisti spaesati. Anche gli studenti di licei e università in tutta la Francia hanno aderito alle manifestazioni, occupando a oltranza spazi e sostenendo i picchetti chiamati dai sindacati e i blocchi. «Nessuna marcia indietro», però, sembra essere anche lo slogan di Macron e del suo governo. Un governo guidato da un presidente beffardo e arrogante che invoca l’unità nazionale e che fa orecchie da mercante alle rivendicazioni che risuonano nelle piazze e al sostegno dell’opinione pubblica rispetto al movimento dello sciopero.
Non è facile fare previsioni e dire verso dove andrà questo movimento, ma siamo a una fase di svolta. Oggi, 5 aprile, i rappresentanti di tutte le sigle sindacali hanno avuto un colloquio fallimentare con il governo, invitati dalla prima ministra Élisabeth Borne solo il giorno prima della prossima giornata di lotta e sciopero. Con un comunicato congiunto che invoca il ritiro della riforma e rilancia la manifestazione di domani e le mobilitazioni successive, l’intersindacale ha confermato che lo scontro non è concluso e né che si concluderà con il voto del Consiglio costituzionale della settimana prossima. Che si parli di pensioni è scontato nonostante l’ambiguità del governo che continua ad affermare di non voler fare passi indietro sulla riforma né di metterla in pausa temporaneamente, come proposto la settimana scorsa dal segretario della CDFT Laurent Berger. Ed è qui che siamo fermi, prima dei due giorni di aprile che daranno una direzione a un movimento che, più che essere sull’orlo della rivoluzione, è a un bivio: molto dipende da se i sindacati e il governo decideranno di rientrare nelle forme classiche di contrattazione. Ma che cosa resta oltre ai sindacati? Non è più solo un conflitto sulle pensioni, è diventata una mobilitazione che mette in discussione l’intero sistema. Vi è stata una moltiplicazione delle pratiche e dei terreni di lotta che mostra la forza del processo dello sciopero permanente e non solo per lo strumento della grève reconductible à la française: le manifestations sauvages dalle 18 in poi, i picchetti, i blocchi, i cortei oceanici che hanno attraversato i centri di tutte le città francesi, le riunioni pubbliche dei sindacati, le università occupate da studenti, lavoratrici e lavoratori – o almeno da quelli che sono riusciti scioperare.
Quello che è rimasto è il tentativo, senza scappatoie né strade dritte dettate da una convergenza solo nominale, di articolare delle connessioni con le altre lotte. A Sainte-Soline oltre alle brutali violenze della polizia e alle bugie del ministro dell’interno Darmanin rispetto alle violenze compiute e ai mancati soccorsi, questa connessione tra militanti della ZAD (zone à défendre) e scioperanti si è vista chiaramente. Ha risuonato nelle strade di Parigi il grido «Retraites, planète: même combat» e la provocazione «Quelle réforme pour un planète qui brule?» Una domanda che resta nell’aria carica di lacrimogeni di cortei che chiamano in discussione non solo le pensioni o il lavoro, ma l’intero sistema produttivo e riproduttivo. I continui scioperi dei lavoratori delle raffinerie, uno dei settori energetici centrali e ancor di più rilevanti in tempi di guerra, come dei lavoratori di TotalEnergies sono un pezzo di risposta a questa domanda, certamente non privo di contraddizioni nella dialettica tra posti di lavoro da mantenere, profitti da redistribuire e la rivendicazione di una lotta che si gioca dentro la crisi climatica e non solo. Anche il movimento dei migranti e dei sans-papiers è sceso in piazza contro la riforma e contro la legge razzista sull’asilo e l’immigrazione proposta da Darmanin, solo momentaneamente spostata a un futuro non meglio definito grazie anche alle mobilitazioni contro la riforma delle pensioni. Le donne e gli uomini migranti sono scesi in piazza per protestare contro una riforma che non tiene conto delle loro pensioni e contro una legge che rafforza e implementa le procedure di rimpatrio forzato e di messa al lavoro di una manodopera migrante solo nei settori “sotto tensione”, scelti convenientemente da ogni département a seconda delle proprie esigenze. Nelle manifestazioni non mancano cartelli, canti e slogan contro una riforma che non fa altro che sancire, una volta di più, la posizione subalterna delle donne nel mondo del lavoro francese e le cui pensioni sono in media minori di quelle dei loro colleghi. I collettivi e le organizzazioni femministe sono scesi in piazza contro le discriminazioni e la violenza che le donne e le persone LGBTQIA* si trovano a dover combattere quotidianamente nel mondo del lavoro, così come il rifiuto della riforma sulle pensioni è risuonato forte durante le piazze dell’8 marzo.
Questo movimento dello sciopero, come spazio di non soltanto organizzazione contro la riforma, ma anche contro il sistema di produzione e riproduzione sociale non è una esperienza solo francese né il mero risultato delle politiche macroniste. I salari che stagnano, l’inflazione rampante, l’aumento della precarietà e i tentativi di sorpassare i processi decisionali democratici sono solo alcuni dei fenomeni che accomunano alcune delle proteste e degli scioperi a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, che hanno trovato spazio imprevisto nelle fratture di un ordine messo in crisi, dopo la pandemia, anche dalla guerra. Gli scioperi delle infermiere e dei lavoratori delle ferrovie in Inghilterra, che continuano da mesi nonostante i tentativi del governo britannico di limitare il diritto allo sciopero, e le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici in Germania per un aumento salariale che tenga conto degli elevati tassi di inflazione sono, come il caso francese, lotte contro i tentativi statali di far ricadere su donne, lavoratori e migranti i costi della crisi ecologica e della guerra.
Perché se la guerra non è esplicitamente citata nelle manifestazioni di queste settimane, le sue conseguenze e il tentativo di gestirne gli effetti sono ciò che ha spinto centinaia di francesi, studenti, lavoratori, femministe, sans-papiers e migranti a scendere nelle piazze e urlare il loro rifiuto al tentativo di riforma del governo. È impossibile, infatti, pensare che la guerra, quella guerreggiata in Ucraina e le sue conseguenze mondiali, non abbia qualche effetto anche qui, ancor di più al netto della crisi economica ed energetica che ha fatto sentire il suo peso anche in Francia, con un forte aumento dell’inflazione nell’onda lunga della pandemia. Così come è difficile non notare un legame tra la guerra e la gestione sempre più verticistica del governo francese nel tentativo di mantenere centrale la posizione del paese in una geografia globale di capitali e alleanze. Le proteste francesi di questi mesi sono la risposta al disordine transnazionale in cui ci troviamo e alla sua guerra. Il tentativo di ricomporre un qualche ordine passa anche per la gestione governativa francese rispetto al passaggio di una riforma che, parafrasando Macron, non può non passare. L’autoritarismo del governo è sempre più malcelato, e l’uso del 49.3 non è che l’altro lato della medaglia istituzionale della violenza e della repressione che si vede nelle strade parigine, dove agenti di polizia a bordo di motociclette inseguono, fermano, perquisiscono, mettono sotto sorveglianza e manganellano manifestanti e giornalisti. Dopotutto, la grève deve continuare per vincere quella che è una guerra con Macron e una lotta contro il razzismo, lo sfruttamento e la violenza del suo governo: «Macron nous fait la guerre et sa police aussi», non per caso, è il titolo di un comunicato del sindacato Solidaires della settimana scorsa e un ben noto slogan delle manifestazioni degli ultimi cinque anni.