di MARCO MELITI
Com’è ormai prassi di fronte alle tragedie e alle crisi recenti, l’Unione Europea e i suoi Stati sono tanto rapidi a esprimere cordoglio quanto a intervenire tempestivamente per provare a contenerne o a capitalizzarne gli effetti. La terra al confine turco-siriano non aveva ancora smesso di tremare che la presidente von der Leyen già annunciava la necessità di impedire nuove migrazioni illegali. Il mar Jonio non ha ancora finito di restituire i corpi degli oltre ottanta migranti morti di fronte alla costa calabrese che la caccia agli scafisti in tutto il globo terracqueo viene pomposamente annunciata dal presidente Meloni. Se l’esternalizzazione delle frontiere non è un effetto diretto della guerra in Ucraina ma una tendenza di lungo corso, allo stesso tempo questa pratica si rende utile oggi per rispondere non solamente ai movimenti di donne e uomini migranti ma anche agli effetti globali dell’invasione russa. Estendere la propria influenza oltre i confini istituzionali tramite accordi bilaterali, investimenti, corridoi logistici e infrastrutturali o tramite la creazione di piattaforme come quella energetica è parte della strategia europea per competere nello spazio globale e ritagliarsi un posto nella corsa alle risorse strategiche, accorciare o ridefinire le filiere di produzione e approvvigionamento, provare a governare i movimenti della forza lavoro e pianificare nel medio-lungo periodo della transizione ecologica.
D’altronde, gli imperativi del RePowerEU prevedono appunto la diversificazione delle fonti energetiche per sganciarsi immediatamente dalla dipendenza dal gas russo, oltre che investimenti per la produzione futura di energia pulita. Così facendo, l’UE eccede costitutivamente e continuamente i suoi confini per destreggiarsi in uno scenario transnazionale in cui ogni ordine è temporaneo, perché i movimenti del capitale, le politiche delle potenze statali e sovra statali, così come le resistenze di quante e quanti cercano di opporsi a questi comandi, minacciano qualsiasi stabilità definitiva e non le lasciano che malinconici tentativi di pianificazione. Come sul fronte orientale, anche nel Mediterraneo i piani europei intrecciano il regime dei confini con quello delle politiche energetiche e climatiche. Per garantirsi un posto al sole in Africa oggi servono amministratori delegati e funzionari di governo che promuovono nuovi accordi per l’estrazione di gas e petrolio o finanziano megaprogetti di costruzione di impianti solari e di parchi eolici nel deserto. Contemporaneamente, servono piantoni che si assicurino che i migranti restino a casa loro e guardacoste, droni e motovedette per riacciuffare chi riesce a partire e prendere il largo verso l’Europa.
L’esempio italiano in Libia è il più evidente, ma certamente non l’unico né il primo. I partenariati europei con il vicinato meridionale legano esplicitamente i fondi per la transizione verde a quelli per il contenimento delle migrazioni. Dopo essere diventato a ottobre il primo green partner europeo, il Marocco a inizio marzo ha firmato un accordo di cooperazione con l’UE da 624 milioni di euro, di cui 115 di sostegno ai piani di transizione verde del paese africano e altri 150 per contrastare le migrazioni. La Tunisia sembra destinata a intraprendere la stessa strada. Nel frattempo, non è mancata la firma di un memorandum d’intesa con l’Italia da 200 milioni di euro, in cui la cooperazione per il contrasto delle migrazioni si intreccia con la creazione di posti di lavoro “sostenibili” e con la promozione delle energie rinnovabili. Dall’inizio della guerra in Ucraina, l’Algeria è diventata un fornitore energetico chiave per l’Europa. Forte dei miliardi di introiti per l’esportazione di combustibili fossili, firma oggi nuovi accordi, sul gas con l’Italia e sull’idrogeno verde con la Germania, mentre respinge migliaia di migranti ricacciandoli nel deserto a nord del Niger. Sull’idrogeno investe anche l’Egitto, che nel frattempo si impegna, assieme a Israele, a rifornire l’UE di gas. Anche in questo caso politica energetica e migratoria si intrecciano, così il ministro degli esteri italiano Tajani ha recentemente incontrato Al Sisi per assicurarsi la sua collaborazione nei respingimenti delle e dei migranti e supplire all’inefficienza della Libia, evidentemente ancora non abbastanza attrezzata nonostante i milioni forniti dall’Italia e dall’Europa.
La transizione diventa l’occasione per gestire le migrazioni nel Mediterraneo, promettendo al contempo un clima più vivibile, un capitalismo più verde e una generale stabilità economica, politica e sociale, tutte condizioni necessarie per prevenire le partenze. La transizione non si presenta quindi come una semplice rivoluzione produttiva, non si limita cioè alla sostituzione del petrolio col solare o del motore a scoppio con quello elettrico. I piani di transizione impattano globalmente sulla riproduzione delle società in cui si realizzano e promuovono un ambiente verde specifico nel quale il capitale può continuare ad accumularsi sfruttando le gerarchie sociali, patriarcali e razziste che riproduce. La spinta verso la privatizzazione e la gestione da parte di imprese transnazionali del settore energetico è l’imperativo che segna il ritmo delle transizioni nordafricane. L’UE cerca di promuovere quest’ambiente per mezzo di accordi di libero scambio pensati sul modello dei Deep and Comprehensive Free Trade Agreement (DCFTA), a oggi formalizzati solo sulle frontiere dell’Europa orientale con Ucraina, Moldavia e Georgia e ora riproposti su quella meridionale. La Banca mondiale chiede la fine degli investimenti statali nel settore energetico nordafricano e indica una serie di riforme volte ad attrarre capitali privati internazionali. Il razzismo del presidente Kaïs Saïed nei confronti delle e dei migranti sub-sahariani è però fonte d’imbarazzo per i banchieri mondiali che hanno perciò congelato la possibilità di un prestito da 20 milioni di euro alla Tunisia per la costruzione di cavi utili a esportare l’energia solare in Europa. Come a dire: la transizione si serve del razzismo istituzionale solo se non è esplicitato in discorsi cospirazionisti di sostituzione etnica che mettono a repentaglio non tanto la vita delle e dei migranti che ne subiscono gli effetti violenti, quanto l’assicurazione degli investimenti. Senza di questi non c’è transizione e senza transizione non ci sono posti di lavoro per vincolare a un luogo chi altrimenti è in movimento.
Che siano realizzati al di là o al di qua del Mediterraneo, i piani di transizione hanno infatti bisogno di forza lavoro. Nelle fantasie di Stati e capitale i migranti tornano comodo quando si mettono a disposizione e il loro movimento può essere contenuto o valorizzato a seconda delle necessità del mercato. Sono utili all’Europa che decreta i flussi di lavoratori che ha bisogno di sfruttare in lavori poveri e informali. Sono utili alle imprese transnazionali e ai loro progetti di capitalizzazione della transizione energetica, perché possano annunciare la stabilizzazione a casa loro di quei migranti in potenza. Sono utili come arma di ricatto e pressione per i paesi con cui l’Europa contratta la polizia delle sue frontiere per ottenere maggiori finanziamenti e strappare accordi vantaggiosi. Sono utili, infine, come forza lavoro ricattabile anche in Nord Africa, come dimostra il caso della Tunisia, dove i permessi di soggiorno vengono rifiutati per mancanza di un contratto e i migranti si ritrovano ad accumulare multe da ripagare con lavori precari per i mesi passati senza documenti in attesa di un rimpatrio. In ogni caso, mai sono considerati nella loro autonomia né per la pretesa di libertà che rivendicano e affermano.
L’illusione di una transizione liscia e senza contraddizioni si infrange di fronte all’occupazione di campi agricoli per la realizzazione di megaprogetti per produzione di energia pulita, o di fronte al consumo intensivo dell’acqua per raffreddare gli impianti solari in zone che già risentono drammaticamente della siccità strutturale, conseguenza della crisi climatica. La crisi idrica delle oasi e la riduzione dei terreni coltivabili per le cooperative locali – mentre restano integri quelli per le monoculture intensive gestite da imprese multinazionali – impatta sulle comunità locali e in particolare sulle donne, ampiamente impiegate nel settore agricolo. Crisi climatica e crisi della riproduzione sociale si sovrappongono, spingendo uomini e donne a migrare verso le città o verso l’Europa, e al tempo stesso imponendo l’economia delle rimesse a chi resta. L’allucinazione sviluppista che vede nella produzione di energia un veicolo di trasformazione positiva per le comunità locali cozza poi con l’immediata canalizzazione dell’energia prodotta da questi impianti nella rete di cavi sottomarini che attraversa il Mediterraneo, cosicché le multinazionali dell’energia possano fare affari in Europa mentre interi villaggi locali rimangono senza elettricità. Anche laddove i posti di lavoro non si sacrificano sull’altare della transizione, questi appaiono tutt’altro che sostenibili. Dalle condizioni quasi schiavistiche nelle miniere per l’estrazione di minerali fondamentali per la transizione agli impianti energetici nel deserto, la logica che sta dietro è lo sfruttamento differenziato di uomini e donne che occupano posizioni diverse in una lunga catena del valore transnazionale. La transizione si dà anche come sincronizzazione di queste differenze e riproduzione di queste gerarchie.
È proprio a partire dal rifiuto di queste condizioni che negli anni passati si sono date forme di resistenza e di lotta dentro e contro questo regime di transizione. Lotte che hanno un carattere globale perché vanno oltre la singola rivendicazione sociale o ambientale. Lotte organizzate a partire dai centri di produzione, estrazione e commercializzazione delle risorse energetiche e di quelle per la transizione e che hanno affrontato contemporaneamente le condizioni di produzione e riproduzione della vita in quei luoghi e l’autoritarismo dei governi e il connubio coi capitali esteri, con cui spartiscono i mega profitti della vendita dell’energia. In Marocco, i minatori hanno bloccato le miniere di cobalto per chiedere l’utilizzo dell’acqua per l’irrigazione dei campi, mentre il movimento El Kamour a Tataouine, nel sud della Tunisia, ha impedito per mesi l’avvio della produzione dell’ennesima centrale di energia pensata specificamente per il mercato europeo e ha contrattato con il governo tunisino posti di lavoro, salari più alti e un fondo annuale per lo sviluppo della regione. La reazione da parte del governo tunisino è stata una maggiore militarizzazione delle zone attorno agli impianti energetici e lo scontro con gli esponenti del movimento che hanno continuato la lotta dopo che governo e compagnie private hanno disatteso gli accordi raggiunti, fino alla scorsa estate quando la guerra in Ucraina e la corsa europea per sganciarsi dal gas russo si sono tradotte in maggiori pressioni e un’ulteriore legittimazione della violenza contro gli scioperanti.
La lotta dentro e contro la transizione verde del capitale è un elemento centrale della nostra iniziativa transnazionale perché oggi le politiche ecologiche si traducono in politiche finanziarie, istituzionali, industriali e di controllo dei movimenti della forza lavoro, e pertanto riguarda tutti e tutte. Lottare contro l’affermarsi di un regime ecologico di accumulazione significa anche riconoscere l’impatto decisivo che la guerra in Ucraina sta avendo nel determinare i ritmi e le logiche delle transizioni. La ridefinizione continua della sicurezza nazionale, per esempio, intreccia insieme la possibilità di disporre di beni critici, fra cui l’energia e le terre rare, con l’irrigidimento del regime dei confini e del razzismo istituzionale. È anche per questo che si possono realizzare connessioni tra lotte e soggetti diversi, disarticolando la contraddizione cavalcata dal capitale per dividere gli interessi di lavoratori e lavoratrici da quelli di chi lotta per il clima, così come successo in Marocco o in Tunisia. Non è un caso che lo stesso sindacato che ha partecipato alla lotta contro le centrali solari nel deserto tunisino sia quello che oggi riempie le piazze contro il razzismo nel paese nordafricano. Queste lotte ci indicano già alcuni elementi di connessione praticabili per rovesciare la logica del profitto e delle catene del valore. C’è cioè una continuità fra le lotta nelle miniere marocchine e quelle di quante e quanti lottano per non essere schiacciati dal ricatto del permesso di soggiorno o dallo sfruttamento in fabbriche più o meno verdi da quest’altra parte del mare. La stessa continuità la rintracciamo fra chi si oppone ai rigassificatori a Piombino e a Ravenna, ennesima promessa di liberazione dalla Russia e dalla geopolitica, e quante e quanti hanno contrastato l’espansione della miniera di carbone a Lützerath, che proprio la guerra ha permesso ora di realizzare. C’è una continuità, infine, fra le lotte delle donne e degli uomini migranti che spingono per entrare in Europa e quelle di quante e quanti resistono ai ricatti e alla violenza del razzismo istituzionale su scala molto più che europea. Rendere evidenti queste connessioni e articolare queste continuità è la sfida di un’iniziativa transnazionale per un conflitto climatico e di classe, capace di costruire linguaggi e strumenti di organizzazione comuni a partire dalle condizioni diverse in cui ci troviamo.