domenica , 17 Novembre 2024

La guerra in Ucraina e le nostre lotte. Report della giornata di discussione del 15 gennaio

di CONVERGENX – PAROLE E PRATICHE IN MOVIMENTO

Pubblichiamo il report ragionato della giornata di discussione “La guerra in Ucraina e le nostre lotte”, che abbiamo contribuito a organizzare a Bologna lo scorso 15 gennaio e che ha realizzato un passo importante verso la costruzione di un discorso condiviso di opposizione alla guerra. La partecipazione alla giornata — oltre cento persone provenienti da diverse parti d’Italia — è stata composita non solo per la provenienza, ma anche perché ad ascoltare e discutere gli input iniziali, e con essi le possibilità e le difficoltà di una politica di pace, si sono incontrate attiviste femministe e transfemministe, operai e migranti, antirazzisti ed ecologiste, centri sociali, sindacalisti, collettivi di fabbrica, reti contro la militarizzazione del territorio, singole e singoli che hanno ragionato insieme sugli effetti di questa guerra sulle nostre lotte nell’intento di capire come l’opposizione alla guerra possa diventare il terreno di una possibile convergenza. Questo report non mira a fare una sintesi di questa eterogeneità, ma a mostrare che continuare questo confronto collettivo è quanto mai necessario: se tutti riconosciamo l’urgenza di costruire un’opposizione alla guerra, usiamo parole, chiavi di lettura, punti d’attenzione molto diversi, talvolta in contraddizione. La nostra intenzione è quella di fare in modo che queste differenze non siano un ostacolo invalicabile, ma una risorsa per la costruzione collettiva di una prospettiva condivisa, resa necessaria dall’urgenza degli eventi in atto e delle trasformazioni che stanno accelerando, oppure innescando.

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Accelerando oppure innescando: questi due termini rendono già evidente una questione che ha attraversato l’intera discussione. In che rapporto sta la guerra in Ucraina con l’insieme di crisi – ecologica, sociale, sanitaria, della produzione e riproduzione sociale, delle istituzioni politiche nazionali e sovranazionali – che abbiamo vissuto già prima della sua esplosione? Quali sono gli elementi di continuità, quale la discontinuità con cui la guerra in Ucraina ci impone di fare i conti? I tre input della prima sessione – dedicati a guerra e patriarcato (Carlotta – Ambrosia Milano), migranti (Gianluca – Attivista antirazzista, Trieste), precarietà (Cristina – Effimera) hanno in modi diversi insistito sul fatto che bisogna fare i conti con entrambi questi aspetti.

Non solo in Russia e in Ucraina, ma anche in Polonia o in Italia l’attacco alle donne, alla libertà di abortire, alle persone omosessuali e trans, l’apologia della maternità non sono una novità innescata dalla guerra. La guerra però sta producendo un ‘arruolamento’ di questi discorsi e delle politiche corrispondenti all’interno di un orizzonte materiale e simbolico che li rafforza in maniera decisiva. La maternità è valorizzata nella sua dimensione patriottica; l’ammissione delle donne come volontarie nell’esercito ucraino è letta essa stessa come un’estensione dei loro doveri di ‘protezione materna’; l’approvazione della Convenzione di Istanbul serve a fare dell’Ucraina, che fino a oggi non l’aveva sottoscritta, un paese realmente ‘europeo’, baluardo democratico contro il demone russo; milioni di profughe ucraine sono ributtate nel mercato del lavoro europeo come un ‘esercito di lavoratrici della cura’. Questo uso strumentale dei corpi non nasce con la guerra, ma la guerra lo irreggimenta per rafforzare la giustificazione di politiche patriarcali che permettono di ignorare e respingere ogni forma di opposizione. La domanda è allora come fare della prospettiva femminista una rottura dell’ideologia della guerra e dei suoi effetti anche mostrando la possibilità di politicizzare la maternità contro il suo arruolamento patriarcale, come stanno facendo le madri dei soldati in Russia, che si oppongono alla guerra ‒ e come innescare legami transnazionali contro di essa.

Sul fronte delle migrazioni, sono diversi i processi in atto su cui la guerra interviene: l’esternalizzazione e la militarizzazione delle frontiere, il trattamento differenziato dei rifugiati, le politiche di respingimento. Se si guarda alla rotta balcanica, questi processi sono stati l’effetto del tentativo dell’UE di governare gli impressionanti movimenti di migranti determinati dalla guerra in Siria del 2015. Non bloccarli, perché la gestione di quei movimenti è funzionale a quella della forza lavoro e della sua illegalità, che è il motore di intere filiere della produzione come quella agricola del sud d’Italia. Così, l’accoglienza differenziata delle profughe ucraine ha mostrato l’elasticità del sistema dell’asilo, che lascia sempre più spazio all’arbitrio in base al bisogno di forza lavoro e a una politica delle frontiere piegata sulle necessità strategiche imposte dallo scontro bellico. Questo è evidente nella ridefinizione degli equilibri tra gli Stati della rotta balcanica e l’UE, che sempre più dallo scoppio della guerra in Ucraina fa dei migranti e del controllo dei loro movimenti un elemento di trattativa e di ricatto in relazione a processi di integrazione politica ed economica.

Sul terreno del lavoro, infine, la guerra in Ucraina agisce approfondendo un processo di precarizzazione che va avanti da decenni. La precarietà è stata la risposta a lotte e movimenti soggettivi di rifiuto dello sfruttamento. Questa risposta è passata per lo smantellamento del diritto del lavoro, una costante produzione di lavoro povero, l’individualizzazione del rischio della precarietà, l’accento sulla competitività per la valorizzazione del proprio capitale umano, l’economia della promessa. Su questo terreno – ulteriormente aggravato dall’aumento esponenziale della disoccupazione seguito alla pandemia – fanno presa l’ideologia e gli effetti materiali della guerra: la prima rafforza l’idea dell’individuo che deve farcela da solo ‘combattendo’, i secondi – dall’aumento dei prezzi del gas a quello delle spese militari a scapito del welfare – intensificano la coazione al lavoro sottraendo reddito e impoverendo il salario. Il problema è allora quello di sfuggire alla presa dell’ideologia di guerra sviluppando un punto di vista precario su di essa. Mostrare, per esempio, che il ‘fronte occidentale’ è tutt’altro che unito e omogeneo, rifiutando la precarietà e la coazione al lavoro giustificate in nome della guerra, e rompendo il silenzio che essa cerca di imporre su questo rifiuto.

Il problema di misurarsi con la continuità e la discontinuità in relazione alla guerra in Ucraina è emerso anche dagli input della seconda sessione, dedicati a guerra e opposizione alla guerra (Laboratorio Crash), guerra e globalizzazione (Sandro – Euronomade), guerra ed ecologia (Lara ed Elena, Climate Social Camp) e guerra e trasformazioni dello Stato negli Usa (Felice – New York). Da questa seconda sessione è emersa una tensione tra il riconoscimento che la guerra è un elemento intrinseco al processo di riproduzione del capitale, e la necessità di interrogarsi sul significato specifico di questa guerra in relazione alle possibilità di mobilitarsi per contrastarla, ai suoi effetti ecologici, alle trasformazioni dell’ordine globale e delle sue istituzioni in relazione alle catene transnazionali del valore.

Le forme di opposizione alla guerra sono inevitabilmente molteplici – dalla fuga e diserzione al sabotaggio, dagli scioperi alla ‘guerra alla guerra’, come quella combattuta in Rojava – e non esistono modelli da seguire, perché dipendono dalle posizioni dei soggetti che le praticano. Questa guerra segna però uno scarto rispetto a quelle dei primi anni duemila, espressione di un eccezionalismo americano che relegava la guerra al di fuori dell’Occidente facendone una «operazione di pace» o polizia internazionale. Se allora la parola d’ordine della «resistenza alla guerra» è stata l’elemento di innesco di un movimento Anti-War, ora non sembrano esserci più queste condizioni, perché con il conflitto in Ucraina la guerra torna a essere uno strumento legittimo di risoluzione delle controversie internazionali. Il problema aperto è di fare entrare l’opposizione alla guerra dentro alle nostre lotte – sul lavoro, contro il patriarcato, contro la militarizzazione – e a partire da qui rispondere ai suoi effetti disciplinanti producendo possibili convergenze tra lotte e soggetti diversi.

Guardando agli eventi in atto dal punto di vista della globalizzazione, la sua ‘fine’ era stata già annunciata durante la pandemia. La tensione tra spazi del capitale e spazi politici ha innescato una ‘transizione egemonica’ nella quale la guerra è una necessità giustificata. La guerra in Ucraina è diversa da altre perché tocca il centro di un sistema mondiale in crisi: il declino dell’egemonia statunitense fa della guerra lo strumento per la costruzione di un nuovo ordine multipolare. D’altra parte, la guerra in Ucraina non si ferma in Ucraina, tanto che si può parlare di un «regime di guerra» che condiziona le nostre vite e le nostre lotte, che richiede di reinventare l’internazionalismo in queste nuove coordinate, di abbandonare l’eurocentrismo e di pensare la pace in termini ‘costituenti’, non solo come assenza di guerra ma anche nella prospettiva di trasformare la realtà reinventando gli spazi politici delle nostre lotte.

La guerra in Ucraina può essere vista, però, anche come effetto di una precedente crisi energetica e la sua differenza rispetto ad altre guerre può essere ridimensionata se la si pensa dal punto di vista ecologico, poiché rientra in una necessità del capitale di attivare nuovi cicli di accumulazione. È innegabile, però, che la guerra abbia anche un elevatissimo impatto ecologico e che l’attuale guerra in Ucraina stia incidendo profondamente sulle politiche industriali ed energetiche. Basta pensare agli investimenti di Leonardo che riconvertiranno gli stabilimenti Fiat per produrre materiali bellici, e a come l’industria bellica accentua processi di estrazione di risorse che a loro volta hanno impatti diretti sulle condizioni fondamentali di riproduzione della vita di milioni di persone su diversi territori.

Infine, la guerra ha effetti istituzionali profondi: negli Stati Uniti, la trasformazione dello Stato federale risale almeno alla presidenza Obama e coincide con la crisi finanziaria dalla quale è emerso, tra le altre cose, il ruolo centrale di società di investimento mastodontiche come BlackRock, già pronta ad accaparrarsi il processo di ricostruzione post-bellico in Ucraina. Negli Stati Uniti è sempre più intenso l’intreccio tra finanza, apparato militare e industria, rafforzato dal nuovo concetto strategico della NATO e dalla sua proiezione globale. Di fronte alla crisi dell’egemonia americana, la guerra in Ucraina è l’occasione per testare la capacità di ingerenza strategica degli Stati Uniti in relazione alle catene transnazionali del valore, sostenuta da un ruolo sempre maggiore del potere esecutivo che ha anche lo scopo di governare processi inediti di soggettivazione che sono emersi negli ultimi anni, dallo sciopero femminista alla women’s march a Black Lives Matter. Il problema è capire se e come l’opposizione alla guerra può intrecciare e attivare questi processi di soggettivazione.

L’ultima parte della discussione è stata introdotta dalla domanda su che cosa significa una politica di pace di fronte a processi di questa portata, e alla differenza di posizioni e letture su di essi (Isabella, ∫connessioni precarie). Di fronte all’assenza di un movimento contro la guerra, ci sono state esperienze come quella della Permanent Assembly Against the War, che si riunirà a Francoforte il 10-12 febbraio, che hanno permesso di praticare una comunicazione transnazionale capace di superare le divisioni imposte dalla logica della guerra. Questo è stato possibile affermando che la pace non è assenza del conflitto o pacificazione sociale e che non possiamo affidarci agli Stati che fanno la guerra ottenerne la fine. Bisogna pretendere la fine della guerra in Ucraina, ma anche opporsi ai suoi effetti materiali e ideologici, alla violenza e alla coazione che impone.

Questa guerra sta per esempio chiudendo gli spazi per le politiche di transizione ecologica, già insufficienti, e sta offrendo la giustificazione per reprimere le lotte contro il ritorno al fossile, come è accaduto a Lützerath. Dobbiamo continuare a chiederci: come costruire una lotta per la pace capace di stabilire connessioni tra lotte eterogenee, rompendo i fronti imposti dalla guerra? Come opporsi agli effetti della guerra riconoscendo non solo le sue conseguenze locali, ma anche la necessità di contrastarli articolando le lotte in una prospettiva di lotta transnazionale? Davvero possiamo parlare di un nuovo ordine, o di un regime di guerra, o dobbiamo porci il problema di fare i conti con il disordine e l’imprevedibilità di questa guerra, che rende necessario accumulare la forza per intervenire nella contingenza?

Il dibattito che si è aperto a partire da queste domande ha coinvolto tutti i collettivi presenti (Radio Onda d’Urto – Brescia, Effimera, Iskra – Napoli, Non Una di Meno – Reggio Emilia, Movimento No Base – Coltano, ∫connessioni precarie, Macao – Milano, Askatasuna – Torino, Collettivo contro la guerra e il carovita – Modena, Sicobas, Collettivo di fabbrica GKN, Euronomade, Bologna for Climate Justice) e molti singoli e singole. Rimandando al video dell’ultima parte dell’assemblea per chi voglia ascoltarli tutti nel dettaglio, ne proponiamo una restituzione ragionata, che fa emergere tanto alcune prospettive condivise, quanto alcune linee di tensione che crediamo debbano essere tenute aperte per fare un prossimo passo che non si limiti a registrare le diverse posizioni in campo, ma che faccia lo sforzo di pensare collettivamente i problemi che quelle tensioni pongono.

È emerso ancora per tutta la discussione il problema della continuità e della discontinuità, che non riguarda soltanto la comprensione dei processi in atto, ma ha anche degli effetti sui modi e le possibilità di costruzione di un’opposizione alla guerra, su che cosa significa o può significare creare le condizioni per una convergenza contro la guerra, ma anche su come è possibile intendere la pace.

Una prospettiva è quella che considera il carattere ‘endemico’ della guerra per il capitalismo: la guerra è necessaria alla sua riproduzione ed è una risposta alla sua crisi, e lo hanno reso evidente altre guerre recenti, a partire da quelle nei Balcani e in Siria. In quest’ottica, lotte anticapitaliste sono già immediatamente lotte contro tutte le guerre. Altri hanno sottolineato la differenza della guerra in Ucraina rispetto ad altre guerre: si tratta di una guerra che avviene alle porte dell’Europa, che può essere paragonata ai conflitti mondiali precedenti per la sua portata, e che può essere considerata la prima guerra di ampia scala che fa pienamente parte della crisi climatica, per il suo intreccio inestricabile con la crisi energetica. Anche se la si mette in continuità con le crisi egemoniche che hanno innescato le grandi guerre precedenti, questa guerra più che indicare una ridefinizione del campo dell’egemonia dopo la crisi di quella statunitense sembra l’indicatore di un disordine di lungo periodo con cui dobbiamo fare i conti, legato certo alla crisi del capitalismo ma non ascrivibile semplicemente a uno dei suoi molti effetti mortiferi.

A noi sembra che il campo di tensione indicato da queste prospettive ponga alcune domande fondamentali: se la guerra in Ucraina è ’differente’ dalle altre, lo è soltanto a uno sguardo ‘eurocentrico’, oppure perché i suoi effetti hanno una proiezione mondiale che incide in modo immediato sulle condizioni di vita e lavoro, oltre che sul rapporto tra società e istituzioni, in ogni parte del mondo? È sufficiente leggere questa guerra a partire dalle grandi trasformazioni che innesca sul livello ‘geopolitico’ per definire il campo di un’iniziativa possibile, o è necessario uno sforzo ulteriore per rendere evidente il nesso tra questa guerra e le nostre lotte?

Rispondendo a quest’ultima domanda, molti interventi hanno portato alla luce alcuni punti condivisi: bisogna fare i conti con la riduzione al silenzio imposta dalla guerra, che riguarda sia i fronti su cui essa è combattuta – basta pensare al fatto che in Ucraina sono in atto politiche di attacco al lavoro e al diritto di sciopero completamente nascoste dall’ideologia di guerra – sia le nostre lotte in ogni parte del mondo. Tuttavia, anche se gli effetti della guerra sono immediati, in termini di aumento del costo della vita, impoverimento dei salari, e perché la sua ideologia limita le possibilità di lotta e anzi delegittima ogni lotta, non sono altrettanto evidenti per chi li subisce. “Fare controinformazione”, “alzare il livello di consapevolezza”, “rafforzare la riflessione” sugli effetti materiali della guerra sono solo alcune delle formule che sono state usate per indicare la necessità di fare i conti con quella che è stata definita una “timidezza dei movimenti” di fronte a questa guerra, lo spiazzamento che essa ha prodotto. Anche se si riconosce che ci sono state manifestazioni contro la guerra – come quella del 5 novembre a Roma – che indicano l’esistenza di un’opposizione, o almeno il fatto che non c’è un appoggio incondizionato alla guerra come quello dichiarato dalla propaganda – bisogna anche dire chiaramente che il pacifismo di cui sono state espressione non è sufficiente, che la pace diplomatica tra gli Stati non interromperà le politiche patriarcali, razziste e di sfruttamento che sono state descritte durante gli interventi della giornata, che la pace deve essere qualificata, deve essere riempita di contenuti per indicare terreni di lotta possibili.

Qui si delinea una delle sfide più alte, che ancora una volta si scontra con il problema di fare i conti con le parole e le esperienze che abbiamo a disposizione e soprattutto con quelle che non abbiamo. Alcuni interventi hanno sottolineato la necessità di evitare l’opposizione frontista costruendo una solidarietà con le ucraine e gli ucraini, e non con il loro governo, con chi viene bombardato e con chi in Russia viene represso e incarcerato perché si oppone alla guerra. Altri interventi hanno sollevato la necessità di andare oltre i riferimenti ai popoli e l’invocazione di solidarietà, cercando di individuare le linee di frattura che tagliano i fronti della guerra, ma che possono anche costituire terreni di articolazione di posizioni eterogenee, facendo di migrazioni e precarietà, riproduzione e lavoro, ecologia e welfare gli ambiti intrecciati della nostra politica di pace.

In questa prospettiva si misura però di nuovo il problema della continuità e della discontinuità rispetto ai movimenti sociali esplosi tra la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia, dalle primavere arabe a occupy wall street al movimento transfemminista globale. Di fronte alla guerra è sufficiente riprendere quelle rivendicazioni e quelle forme di organizzazione? Il femminismo può essere lo stesso di fronte alla riorganizzazione della riproduzione sociale imposta dalle politiche di guerra, e a milioni di profughe che riempiranno le fila dell’esercito del lavoro di cura? L’antimilitarismo e l’ecologismo possono essere gli stessi, quando la guerra intreccia la militarizzazione e le politiche ecologiche con quelle industriali su scala transnazionale? Sono sufficienti le parole d’ordine di sempre, quando l’opposizione alla guerra prende anche forme non organizzate o frammentate, dai movimenti dei migranti attraverso i confini agli scioperi diffusi per rifiutare il prezzo della guerra? Per pensare a che cosa di nuovo e diverso la pace può costituire, come facciamo i conti con la necessità di accumulare le forze che non abbiamo per praticare una politica di pace?

Sono domande che si intrecciano con un altro campo di tensione, che è quello che riguarda la dimensione di una possibile opposizione alla guerra e il modo in cui il livello transnazionale su cui si dispiega e quello locale su cui manifesta i propri effetti sono messi in rapporto oppure in opposizione. Ci sono tentativi di mostrare gli effetti locali – a partire dalla devastazione del territorio – dei processi di militarizzazione come quello che avviene a Coltano, che intersecano interessi industriali e logistici strategici. C’è la registrazione del fatto che la trasformazione degli spazi politici di cui la guerra è espressione ridefinisce l’orizzonte euroatlantico e richiede una ripoliticizzazione dell’Europa oltre l’Europa. C’è l’invocazione di un nuovo internazionalismo, ma anche la critica dell’internazionalismo che mantiene la nazione come suo riferimento essenziale e rischia di riprodurre un nuovo blocco della discussione e dell’iniziativa, anche considerando che questa guerra non può trovare una risoluzione e una sintesi politica nazionale. C’è l’idea che la guerra – proprio perché apre il problema dell’autonomia energetica – faccia spazio a progetti di reindustrializzazione nazionali che favoriranno l’occupazione, e c’è l’insistenza sulle catene transnazionali del valore e l’impossibilità di sfidare il comando capitalistico imposto con la guerra su un piano puramente nazionale. C’è anche l’esperienza di un movimento come Non Una di Meno, che dimostra che la dimensione transnazionale può essere produttiva di iniziative anche a livello locale, in una prospettiva di potenziamento e non di reciproca esclusione. Una domanda emersa dalla discussione è allora proprio questa: se la prospettiva è quella di costruire una mobilitazione contro la guerra, è sufficiente partire dalle lotte locali esistenti, o si deve aspirare a qualcosa di più? Possiamo pensare la convergenza come l’intreccio delle lotte già date, o abbiamo il problema di costruire parole e possibilità per incontrare un rifiuto della guerra diffuso, ma non ancora politicizzato? Se la convergenza deve essere radicata nell’insorgenza, come si fa a produrre dentro e contro la guerra un’insorgenza che non c’è, ma di cui riconosciamo la necessità?

Si tratta di problemi che riguardano che cosa sia la convergenza e come costruire le condizioni affinché il rifiuto della guerra e la pace come politica delle lotte siano davvero il terreno di una convergenza che non sia una semplice sommatoria. Porsi questo problema significa misurarsi con le iniziative in campo – lotte fondamentali come lo sciopero del clima del 3 marzo e lo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo – affinché il rifiuto della guerra si intrecci con la battaglia ecologista e quella contro il patriarcato. Ma significa anche, per noi, gettare le basi per qualcosa che ancora non c’è, in cui non solo la guerra risuoni in ogni lotta, ma l’opposizione alla guerra diventi la possibilità per una articolazione e un rafforzamento reciproco di lotte che altrimenti rischiano di restare confinate nella propria specificità o dimensione locale. Per questo lo spazio che si è aperto domenica 15 gennaio per noi deve rimanere aperto.

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