di PERMANENT ASSEMBLY AGAINST THE WAR
Dopo quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina e dall’esplosione di una guerra di cui non si vede la soluzione, ovunque i governi hanno adottato una retorica e delle politiche di escalation. La guerra scuote i pilastri di un ordine globale già in via di estinzione; mentre alcuni attori e Stati sono direttamente coinvolti nella macchina della guerra, altri aspettano di vedere come si sviluppano le cose, pronti a cogliere l’occasione giusta e a mobilitare il proprio esercito. All’interno di questo egoistico gioco politico, incurante della prospettiva di un disastro nucleare, nessuna iniziativa istituzionale sta cercando attivamente di fermare la guerra in Ucraina. La guerra è un tutt’uno con le politiche degli Stati, e non abbiamo bisogno di altre tragedie né in Ucraina né altrove per riconoscere che questo è il contesto di una terza guerra mondiale. Dopo quasi un anno di guerra, la condanna assoluta dell’aggressione di Putin non può nascondere che siamo stati risucchiati in un gioco cruento in cui sono coinvolti diversi attori. È in questa situazione che i nostri sforzi devono essere diretti instancabilmente a costruire una politica transnazionale di pace.
Gli equilibri e le posizioni globali all’interno delle catene di valore vengono ridefiniti dalle politiche di guerra. Dove noi vediamo invasione e distruzione, i politici russi vedono la possibilità di mantenere il loro potere sui mercati di materie prime. Dove noi vediamo morte e l’aggravarsi della crisi nella riproduzione sociale, i politici europei e americani vedono opportunità per le grandi imprese. Dove noi vediamo una guerra da fermare, altri governi, compresi quello turco, iraniano o cinese, vedono la possibilità di ottenere un ruolo economico e politico centrale. Riproponendo un modello già noto, in Ucraina la lotta alla corruzione cela una competizione per gli enormi investimenti utili alla ricostruzione. Questo non ha molto a che fare con gli standard democratici dell’UE, quanto con l’assicurare agli investitori finanziari che saranno loro, invece di questo o quell’oligarca, a trarre profitto dalla ricostruzione. La corsa per accaparrarsi gli ordini per riparare i danni delle infrastrutture ucraine e l’entusiasmo della Commissione Europea, delle agenzie di consulenza globali e delle istituzioni finanziarie per le prospettive di ricostruzione sono senza vergogna.
Non sappiamo in che modo altri carri armati, missili, munizioni e investimenti in infrastrutture militari da parte di Europa e Stati Uniti cambieranno il corso della guerra. Da mesi sentiamo dire che ogni escalation renderà più vicina la fine della guerra, ma la realtà è che tutti si stanno preparando a una guerra ancora più lunga. Nonostante la sua aggressione omicida, Putin non è il solo a bramare i benefici della guerra. Le decisioni nei parlamenti di tutta Europa sono ridotte all’approvazione di scelte obbligate, dirette dai governi. I politici che esprimono anche un minimo disaccordo sulla consegna di armi all’Ucraina sono accusati di schierarsi con il nemico. Ogni timida resistenza viene così travolta in nome della difesa di “libertà, proprietà e profitti”, come candidamente dichiarato dal presidente Zelensky, mentre i nuovi Dottor Stranamore affermano di avere il pieno controllo e di conoscere i limiti delle loro azioni. Ma non possiamo credere alle loro rassicurazioni. All’interno di questo quadro, i discorsi nazionalistici mirano a mettere a tacere le voci dissenzienti e a silenziare i conflitti sociali dietro la nebbia della guerra. La saga dei carri armati delle ultime settimane ne è un esempio: al termine di settimane di tensioni, ora abbiamo un coinvolgimento maggiore nella guerra da parte di altri Paesi e nuove richieste di armi, tra cui aerei da combattimento.
Mentre la guerra in Ucraina distrugge e uccide, l’industria militare che sta ricevendo un enorme impulso ne ricava i migliori benefici. Il numero di industrie e filiere interessate alla guerra è in crescita. Rheinmetall, produttore tedesco di armi, è oggi sotto i riflettori e i suoi azionisti trarranno profitto da questa escalation. Lo stesso vale per i complessi militari-industriali di altri Paesi schierati dall’una o dall’altra parte della guerra. Tuttavia, anche se tutto questo ci è chiaro, non è semplice dare delle risposte. L’industria militare non è isolata: è parte di una complessa filiera che guida la ricerca, il settore dell’elettronica, delle risorse e della logistica, dei servizi e del lavoro. Per questo non è sufficiente rivendicare di essere semplicemente antimilitaristi. Dobbiamo scavare nelle conseguenze della guerra in Ucraina per opporci alle condizioni che impone e lottare per quei soggetti che le subiscono di più. Se vogliamo essere efficaci a lungo termine contro la guerra, se vogliamo contribuire a una politica transnazionale di pace, dobbiamo affrontare il fatto che la guerra colpisce l’intero settore economico, finanziario e industriale e scuote la riproduzione sociale. Essere antimilitaristi significa oggi stare dalla parte dei lavoratori, dei migranti, delle donne che pagano i prezzi più alti della politica di guerra al di là dei confini nazionali.
E che dire di noi? Sentiamo con urgenza la responsabilità di organizzarci contro la guerra e contro le trasformazioni che produce. Sappiamo che questo può avvenire solo se affrontiamo la portata delle sfide attuali, a partire dal riconoscimento delle differenze e con l’obiettivo di costruire un terreno di lotta comune. Dobbiamo andare oltre la frammentazione e il “campismo” imposti dall’ideologia della guerra. Rifiutiamo la logica degli Stati nazionali e non accettiamo che i discorsi nazionalistici o gli allineamenti geopolitici sequestrino la nostra immaginazione politica.
Allo stesso tempo, dobbiamo affrontare il fatto che la parte del mondo in cui la maggior parte di noi vive e lotta è direttamente coinvolta nella guerra in Ucraina. I rappresentanti delle istituzioni europee ammettono direttamente o indirettamente che “siamo in guerra”, e le politiche europee e gli equilibri politici vengono rimodellati di conseguenza. Mentre la guerra continua, vediamo come posizioni un tempo relativamente distanti tra gli Stati membri dell’UE, come la Polonia e la Repubblica Ceca, la Germania o la Francia, trovino ora una cauta convergenza con l’incoraggiamento degli Stati Uniti. Nell’attuale congiuntura politica europea, vogliamo affrontare le divisioni tra “Est” e “Ovest” ed evitare le contrapposizioni tra esperienze e forme di organizzazione, con l’obiettivo di imparare gli uni dagli altri, costruire un rifiuto comune delle politiche di guerra e lottare contro le diverse forme di sfruttamento, razzismo e patriarcato che viviamo. Guardando oltre l’Europa, vogliamo rafforzare i ponti esistenti tra le diverse sponde del Mediterraneo e verso l’Asia centrale e costruirne di nuovi.
Di fatto, la guerra favorisce un aumento del costo della vita, produce ancora più povertà in tutto il mondo, rimanda le misure per affrontare la crisi climatica; i governi non hanno all’ordine del giorno nessun piano per promuovere i diritti civili e sociali; dopo quasi tre anni di pandemia qualsiasi ipotesi di espansione della spesa di sanità e welfare è cancellata dall’aumento delle spese militari; i lavoratori sono chiamati a contribuire a tutto questo mettendo da parte le loro richieste; vengono rafforzati i ruoli patriarcali; e i movimenti dei migranti vengono ridefiniti come ‘minaccia ibrida’, legittimando così la militarizzazione delle frontiere. Dietro i discorsi sui presunti “valori europei” si nasconde una realtà che alimenta l’odio tra le persone attraverso la disparità di trattamento dei rifugiati, l’ipocrisia di concedere protezione temporanea alle ucraine lasciandole esposte a un duro sfruttamento, il rifiuto di accogliere disertori e obiettori, siano essi ucraini, russi o bielorussi.
Tuttavia, mentre la guerra sta ridisegnando il panorama politico, i conflitti sui luoghi di lavoro sono in aumento. Un’ondata di scioperi sta attraversando diversi paesi e lavoratrici e lavoratori resistono agli attacchi contro le loro vite e contro l’aumento delle ore di lavoro. In Francia e nel Regno Unito si stanno portando avanti scioperi di massa; scioperi sparsi disturbano i piani delle piattaforme e delle aziende multinazionali; gli attivisti per il clima riuniti a Lützerath hanno manifestato grande forza; i migranti continuano a sfidare il regimi dei confini e il razzismo istituzionale; le donne e i movimenti femministi si stanno organizzando forti dell’esperienza dello sciopero femminista; in Iran, principale alleato di Putin, le rivolte di uomini e donne stanno scuotendo il regime patriarcale. Lo sciopero è in queste lotte uno strumento che va oltre i confini dei luoghi di lavoro e delle condizioni sociali. Dentro queste lotte vogliamo rafforzare il nostro impegno a sviluppare una politica transnazionale di pace che miri a rovesciare la politica di guerra e apra la strada a strategie collettive per un mondo diverso. Questo significa per noi anche affrontare le divisioni e la mancanza di comunicazione tra i movimenti, condizioni e luoghi differenti, che sono rese più profonde dalla guerra.
Per queste ragioni, parteciperemo all’incontro transnazionale organizzato a Francoforte dal 10 al 12 febbraio dalla Transnational Social Strike Platform e da Interventionistische Linke. A Francoforte ci proponiamo di approfondire la comunicazione transnazionale, costruire nuove relazioni e sviluppare strategie comuni a lungo termine, oltre a discutere delle prossime mobilitazioni, tra cui lo sciopero del clima del 3 marzo e lo sciopero femminista dell’8 marzo. Sappiamo che è necessario fare di più. Abbiamo bisogno di una mobilitazione transnazionale contro la guerra in Ucraina e contro le politiche di guerra. Dobbiamo organizzarci per costruire una politica transnazionale di pace. Questo è il principale obiettivo dell’Assemblea Permanente contro la guerra, ed è qualcosa che possiamo e dobbiamo pianificare insieme: vogliamo di più, cominciamo a farlo a Francoforte.