A due settimane dal tentativo di colpo di Stato da parte dei fedelissimi di Bolsonaro, all’interno di una situazione ancora molto instabile, pubblichiamo alcune riflessioni di Homero Santiago, che ha già scritto per il nostro sito sulle elezioni dello scorso anno. La situazione che viene descritta è quella di un paese spaccato tra il revanscismo bolsonarista (senza che la posizione delle Forze Armate si sia pienamente chiarita) e la rabbia della sinistra lulista e dei movimenti sociali, che però al momento non sembra essere in grado di rispondere adeguatamente sul piano della mobilitazione all’attacco della destra. Una destra che esercita ormai la sua egemonia sul ceto medio e medio-basso, ma che grazie all’alleanza con gli evangelici cerca di aprirsi un varco anche nelle favelas – per quanto la questione razziale ponga un discrimine e di fatto blocchi la penetrazione nel sottoproletariato urbano e nelle campagne. Nel frattempo, emergono ogni giorno dati e testimonianze sul massacro degli indigeni in Amazzonia, in nome di una politica estrattivista che fino ad oggi non ha conosciuto soluzioni di continuità.
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1. Tutto sembra indicare che è stato un tentativo di golpe, anche se con caratteristiche nuove che si avvicinano di più a quelle dell’assalto a Capitol Hill negli Usa, piuttosto che alla “vecchia scuola” latino-americana dei carri armati nelle strade. Forse allora, più che parlare di “golpe” si dovrebbe parlare proprio di un “assalto”: da novembre, con la vittoria di Lula, alcuni gruppi si sono accampati davanti alle sedi delle Forze Armate, con l’appoggio appena celato dell’esecutivo federale ancora controllato da Bolsonaro. Alla fine, hanno deciso di raggrupparsi a Brasilia (va detto, con un eccellente coordinamento) e di prendere d’assalto i palazzi governativi.
2. Per quale ragione? Per creare il caos. Mi permetto di ricordare quello che ho scritto in un articolo di qualche tempo fa su Politics[1], ovvero che la strategia del caos, secondo il nuovo quadro globale, è stata un dispositivo cruciale per la concentrazione del potere in Brasile come altrove: non tanto per difendere un puro e semplice cambio di presidenza, ma per giustificare un intervento occasionale (anche se dura anni, come nel caso di Fujimori) contro il disordine e l’anomia sociale. Il problema è quindi creare disordine. Credo che qualcosa del genere fosse presente nella strategia dei bolsonaristi. Alcuni giorni dopo l’assalto, nella casa dell’ex ministro della Giustizia di Bolsonaro è stata trovata la bozza di un decreto che avrebbe istituito uno “stato di difesa” (che la Costituzione prevede solo in caso di attacco straniero) a causa di disordini diffusi. Trovo molto significativo questo documento: a mio avviso (forse con un pizzico di cospirazionismo), l’idea era proprio quella di produrre un disordine diffuso. Ma questo non esclude un’altra lettura: l’obiettivo di rendere ineffettivo il governo eletto. Infatti, il primo mese di governo è di estrema importanza, e i golpisti sono riusciti proprio a sottrarlo alla nuova presidenza dal momento che tutto ciò che si è potuto fare è stato discutere degli eventi dell’8 gennaio. Riuscire a presentare un governo come inaffidabile è una strategia importante; direi che ci erano già riusciti con il governo Dilma.
3. Vale la pena sottolineare la brutalità dell’azione. C’è una disputa lessicale in corso, e a seconda dei casi possiamo parlare di: manifestanti, golpisti, vandali, terroristi. Sull’utilizzo di quest’ultimo termine, io non sono per nulla d’accordo. Penso che la caratterizzazione di “terrorismo” sia arrischiata, dal momento che, nella nostra tradizione, essa è stata applicata alle azioni di guerriglia urbana avvenute tra il 1968 e il 1975, durante la dittatura militare; in seguito, si cercò di definire diverse mobilitazioni dei movimenti sociali come “terroristiche”, ed è così che molti – compreso Bolsonaro – definiscono così le occupazioni del Movimento dei Sem Terra e dei movimenti per la casa. Di conseguenza, se un governo di sinistra accetta ora l’uso del riferimento al terrorismo politico, come possiamo garantire che entro dieci anni questa caratterizzazione non sarà usata contro i movimenti di sinistra più radicali? In breve, non mi piace la definizione “terroristi” perché temo che presto si rivolterà contro la stessa sinistra.
Come dicevo, vale la pena sottolineare lo spirito revanscista, distruttivo e brutale di coloro che hanno assaltato i palazzi di Brasilia. Hanno distrutto tutto e, con grande piacere, anche le opere d’arte. Brasilia, come sapete, è praticamente un museo a cielo aperto, patrimonio dell’UNESCO. Ci sono video e video di persone che distruggono statue, trafiggono dipinti, colpiscono con i machete pezzi storici. È stato un orrore: un disprezzo, un accanimento anti-artistico, che purtroppo si sposa molto bene con il leader Bolsonaro, visto che uno dei primi atti dopo il suo insediamento è stato quello di eliminare il ministero della Cultura e gli organi di regolamentazione del patrimonio storico.
Qui forse sarebbe interessante contrapporre l’estrema destra europea e americana (Bolsonaro e Trump). Mi sembra infatti che, in generale l’estrema destra europea (penso ai casi francese, italiano e ungherese) presenti un discorso in cui la cultura ha un posto centrale, un patrimonio culturale che pretende di fungere da tassello fondamentale per l’identità nazionale e che, proprio per questo motivo, si oppone di solito in modo xenofobo alle interferenze straniere. Non accade lo stesso nel caso dell’estrema destra americana, e nemmeno nel bolsonarismo brasiliano, per i quali, invece, la cultura sarebbe diventata un campo quasi interamente “contaminato” dalla sinistra, da quello che loro chiamano “marxismo culturale”; da qui una politica deliberata (con il sostegno della parte neoliberale del governo) di separazione tra Stato e cultura (più o meno nel senso in cui si parla di separazione tra Stato e religione). In breve, vedo la differenza tra un discorso in cui la cultura è fondamentale, e un altro in cui la cultura gioca il ruolo di nemico.
4. È un dato acclarato che ci sia stata negligenza da parte delle forze di sicurezza, il che ha permesso l’azione dei golpisti. Nei giorni seguiti all’assalto, diversi video hanno mostrato la “fraternizzazione” di molti poliziotti con i golpisti, ma anche che alcuni poliziotti venivano aggrediti. La domanda che sorge è dunque fino a che punto questa negligenza sia attribuibile alle truppe, o agli ufficiali, o a entrambi. Il fatto è che il segretario per la sicurezza del Distretto Federale (DF), ovvero il comandante delle truppe, ex ministro della Giustizia di Bolsonaro che ha redatto la bozza dello “stato di difesa” e che si trovava negli Stati Uniti, è stato arrestato lo stesso giorno; al governatore del Distretto Federale è stata comunicata una sospensione di 90 giorni, per accertare le responsabilità.
5. Per quanto riguarda il punto delicato (e a mio avviso il più delicato) del coinvolgimento dei militari nel bolsonarismo, si tratta di un fatto più o meno assodato. A tale proposito sono necessarie alcune riflessioni. Il bolsonarismo è ampiamente diffuso tra la polizia militare dello Stato (l’istituzione della polizia “militare” è un retaggio della dittatura; essa è definita dalla Costituzione come “forza ausiliaria” dell’esercito). Questo si è manifestato con forza negli ultimi anni ed è molto difficile valutare come possa influenzare, se non le decisioni, perlomeno i risultati di certe scelte. Un chiaro esempio è dato dalla brutale repressione dello scorso novembre delle manifestazioni pro-Lula a Recife/Pernambuco, uno Stato governato dal Partido dos Trabalhadores (PT). In altre parole, una cosa è il governo e le sue linee guida, un’altra cosa è ciò che fanno i militari. Che cosa fare con la polizia militare è un problema cruciale in Brasile. Non a caso, un grido tradizionale della sinistra nelle manifestazioni fa riferimento proprio a questo problema: “non è finita, deve finire; voglio la fine della polizia militare”.
6. Più in generale, la costituzione sociale del blocco politico che sostiene Bolsonaro è una questione complessa, che costituisce e costituirà nel prossimo futuro un problema molto serio. La base bolsonarista è piuttosto eterogenea e, di norma, non coinvolge nessuno di quelli che potremmo definire sottoproletari. C’è una porzione significativa di “evangelici”, a causa della difesa bolsonarista dei programmi conservatori (contro l’aborto, l’educazione sessuale nelle scuole, ecc.). Tuttavia, è una classe media molto meno tradizionale di quella che ha sostenuto Fernando Henrique Cardoso (che potrebbe in parte aver votato Bolsonaro, ma che non è bolsonarista). La mia opinione è che il bolsonarismo sia un fenomeno transclassista: parte dagli individui che hanno iniziato a odiare lo Stato, e di conseguenza le istituzioni; che pensano che la cosa migliore sia la riduzione di tutte le tasse e l’apertura alla “libertà” individuale di crescita economica: insomma, una congiunzione tra liberali classici e conservatori classici. Credo poi che sia importante distinguere tra un elettore di Bolsonaro e un bolsonarista. Questo rientra in quello che lo stesso Bolsonaro definisce un “buon cittadino”, cioè un individuo (la parola e importante, perché è come se il sociale non esistesse) che mantiene la propria famiglia, che preferisce non pagare le tasse e investire il proprio denaro, che crede che la sicurezza sia una questione individuale, e per questo è favorevole all’ampia libertà di possesso di armi. Questo tipo di persona proviene più comunemente dalle classi medio-basse, ma può provenire da qualsiasi classe: è più un carattere che non una appartenenza di classe.
Ci sono ovviamente diverse varianti da discutere, ma io credo che soprattutto due aspetti meritino di essere sottolineati. In primo luogo, un certo odio o revanscismo di classe di fronte alle politiche di inclusione sociale dei governi di sinistra (ad esempio, oggi, nelle università pubbliche, il 50% degli studenti deve provenire da scuole pubbliche); a proposito di questo revanscismo di classe, credo che il documento più importante sia il film Que horas ela arrive? (in italiano, un titolo infelice, che enfatizza la questione familiare e perde il collegamento con il mondo del lavoro domestico e l’ascesa sociale della figlia: È arrivata mia figlia!). In secondo luogo, il ruolo dell’operazione Lava-Jato nella costituzione di un certo senso comune borghese, ovvero: le istituzioni non vanno bene, sono tutte corrotte, ecc. Ebbene, nel momento in cui tutti sono corrotti, in cui lo Stato e le istituzioni sono marce, la cosa migliore sarà distruggerli brutalmente. In questo senso, distruggere una vecchia identità significherebbe preparare (sicuramente in modo barbaro) una nuova vita, un nuovo paese…
7. Il caso delle forze armate è ancora più ambiguo. Gli accampamenti bolsonaristi sono sempre stati organizzati davanti alle caserme (aree considerate di uso esclusivo dei militari), e quindi hanno avuto in qualche misura il consenso della leadership militare. Questi gruppi, accampati da novembre, erano organizzati e si sono spinti fino a preparare attentati – è stata scoperta una bomba su un’autocisterna che doveva essere fatta esplodere all’aeroporto di Brasilia. Le Forze Armate, compatte, non si sono mai espresse; alcuni ufficiali hanno detto che la manifestazione era legittima, a patto che non ci fosse violenza. Dopo le violenze dell’8 gennaio, nessuno, ma proprio nessuno delle Forze Armate ha parlato. Insomma, la posizione delle Forze Armate è il punto chiave, perché, mi arrischio a dire, grazie al bolsonarismo sono diventate la chiave di volta della congiuntura. Cosa hanno fatto, cosa fanno e cosa faranno?
8. In questo senso, vale la pena sottolineare l’importanza del sostegno internazionale. Per il Paese in generale, che ha seguito gli eventi in TV, è stato di grande significato ascoltare la sequenza di posizioni contrarie agli attacchi da parte dei governi di tutto il mondo. La mia ipotesi è che, pensando al caso dei militari, la secchiata d’acqua fredda sia arrivata quando l’ambasciata statunitense ha dichiarato il suo sostegno al governo eletto e al presidente Lula. La tradizione delle Forze Armate brasiliane, dopo gli anni ’50, è di una vicinanza organica agli Stati Uniti. Neppure Bolsonaro può far andare un generale brasiliano contro gli Stati Uniti. Resta il problema: siamo un Paese sotto la tutela di Biden. E se Trump tornasse?
9. Infine, cosa verrà fuori da tutto questo? Questo è il punto attualmente in discussione. Anche se la sinistra brasiliana e i movimenti sociali hanno dato vita a numerose manifestazioni di piazza a sostegno del governo eletto e per chiedere la punizione dei golpisti, tuttavia lo schieramento non è omogeneo. Una parte rilevante della sinistra grida “no all’amnistia”, cioè tutti coloro che hanno partecipato in qualche modo agli atti dell’8 gennaio devono essere ritenuti responsabili. Una parte minore della sinistra (con cui io mi schiero), e anche del governo, pensa che non sia il caso di incriminare genericamente centinaia di persone, ma che ci si debba concentrare sui leader e sui finanziatori degli atti golpisti. Resta ancora da capire, per tutti, cosa fare quando Bolsonaro tornerà in Brasile (attualmente è ancora negli Stati Uniti). Se viene arrestato, diventerà immediatamente un martire; se non succede nulla, sembrerà che non abbia avuto nessuna influenza sugli atti dell’8 gennaio, il che non è vero. Siamo dunque in un’impasse.
10. Detto questo, i problemi rimangono. Cosa fare con le forze militari statali (a mio avviso, il problema più grande)? Come comportarsi con le forze armate? È bene sostenere che finora non hanno detto nulla, il che dimostra un rarissimo disaccordo al loro interno?
11. Un ultimo aggiornamento, infine: c’è stato un vero e proprio terremoto istituzionale: per la prima volta un presidente ha deciso di confrontarsi con le Forze Armate (sempre più implicate negli attentati golpisti dell’8 gennaio), e il vertice dell’esercito è stato cambiato. Un generale golpista se n’è andato (l’ultima goccia è stata la disobbedienza a un ordine presidenziale) ed è entrato un generale chiaramente legalista, non bolsonarista. Inoltre, il Paese è in un profondo stato di shock per la situazione degli indigeni Yanomami. Nonostante tutte le dichiarazioni ufficiali rilasciate dal governo federale negli ultimi anni, si è scoperto che le popolazioni indigene della più grande riserva forestale del Brasile, sottoposte a pesanti attacchi da parte di minatori illegali, vivono una situazione di estrema carenza sanitaria e alimentare. Le immagini, presentate ai brasiliani quasi ogni giorno, sono di una forza tragica che non si può descrivere.
[1] H. Santiago, Bolsonarismo e Pandemia. Necropolitica, autoritarismo e neoliberalismo in Brasile, in «Politics», 2021/1.