di ISABELLA CONSOLATI
Negli anni ’50, Reinhard Höhn, ex generale delle SS, giurista prolifico e rinomato professore di diritto pubblico all’Università di Berlino durante il Terzo Reich, fonda e dirige un’accademia di management a Bad Harzburg che formerà più di mezzo milione di dirigenti della Repubblica Federale Tedesca. Questo anche grazie all’appoggio della folta e potente rete di ex nazisti e alla sua assunzione nella Società tedesca di economia politica, centro di ricerca del padronato tedesco e una delle molte “lavatrici” che operavano in quegli anni. Con Nazismo e management. Liberi di obbedire (Torino, Einaudi, 2021) dedicato a quella che potrebbe apparire poco più di un’inquietante conversione, Johann Chapoutot aggiunge un tassello all’ormai ampia serie di studi sul legame tra nazismo e industria, non solo durante la dittatura hitleriana, ma anche dopo che la Repubblica Federale Tedesca ebbe inaugurato il corso democratico. Chapoutot non si sofferma sull’appoggio che gli industriali tedeschi diedero al nazionalsocialismo, né sui tratti tecnocratici e manageriali della pianificazione dello sterminio di massa, né tantomeno sul modo in cui dal ventre nazista siano stati tratti metodi e braccia per reprimere insubordinazioni operaie ben al di là del crollo del regime. Il libro non indulge nemmeno sullo scandalo per l’impunità che permise a decine di migliaia di quadri dirigenti del Reich di continuare a occupare posizioni di spicco nella società del dopoguerra, in particolare dopo la legge di amnistia che nel 1949 prosciolse Höhn insieme ad altri 800.000 nazisti. Chapoutot si interroga piuttosto su una problematica che disorienta chiunque consideri la biografia intellettuale di personaggi che da nazisti si “rifecero una vita” dopo il crollo del regime, vale a dire l’impressionante continuità nelle convinzioni di fondo, ripulite sì dalla violenza antisemita e dal lessico razzista, ma tanto immutate nella sostanza, quanto è immutata la posizione di queste personificazioni del potere sociale. La concezione del management elaborata da Höhn e dai suoi collaboratori (tra cui non mancavano altre figure implicate nel regime hitleriano, ad esempio Karl Kötschau un eugenista radicale e membro delle SA, responsabile del sanatorio dell’accademia e impegnato a consigliare ai manager una dieta salubre e una giusta igiene) non si fonda su metodi totalitari di controllo e sorveglianza o sulla cieca obbedienza, tratti facili da riconoscere, condannare e relegare nel passato, bensì sulla cosiddetta “delega di responsabilità”, sull’autonomia e la libertà del personale, di cui la Repubblica Federale si fece vanto per decenni. “Un modo di lavorare ‘con gioia’ che si è diffuso dopo il 1945 e che oggi, in un’epoca in cui si ritiene che ‘l’impegno’, la ‘motivazione’ e il ‘coinvolgimento’ dipendano dal ‘piacere’ di lavorare e dalla ‘benevolenza’ della struttura ci è ormai familiare” (XIV), forse perché abituati da decenni in cui merito e cogestione sono saldamente in testa al decalogo dell’economia sociale di mercato. Eppure, quello che Chapoutot riesce a dimostrare è che, al di là dell’apparente svolta, le convinzioni di Höhn sono rimaste immutate nei loro tratti fondamentali. La domanda è allora come gli sia stato possibile traghettare la sua vicenda biografica e professionale oltre il guado senza alcuna crisi delle categorie di riferimento.
La continuità delle concezioni di fondo della produzione teorica di Höhn – giurista prima, teorico del management poi – diventa così più che il racconto di una greve vicenda individuale, il punto prospettico da cui osservare l’inaspettata prossimità tra la critica nazista dello Stato in nome del diritto concreto della comunità di popolo e la teoria post-bellica di un management gerarchico sì, ma non autoritario e fondato sulla “libera” adesione al lavoro. Lo spaccato che si presenta è dunque ben più interessante della denuncia della natura cripto-nazista del management, colpevole di ridurre persone e oggetti a risorse da gestire, e della fabbrica come l’ennesima esemplificazione della logica che avrebbe nel campo di concentramento la sua forma più estrema. A emergere è qualcosa di persino più inquietante, vale a dire il nazismo come parte della contemporaneità e il management democratico quale prosecuzione della revisione nazionalsocialista del lessico del potere e della struttura del comando.
Durante il nazismo, Höhn si dedica al ripensamento del vocabolario dell’autorità facendo della distruzione dello Stato e dell’individualismo che ne accompagna la vicenda moderna un compito anche teorico. La direzione [Führung] in luogo del dominio, la comunità di popolo in luogo della società divisa dalla lotta di classe, l’adesione in luogo dell’obbedienza. Negli scritti nazisti sul diritto e sull’amministrazione, Höhn contrappone il governo autoritario al management moderno, criticando l’instaurazione nella storia europea di un vincolo unilaterale di soggezione allo Stato a discapito di un rapporto di fedeltà reciproca conforme alla libertà germanica. Per Höhn come per il regime, la comunità dell’impresa deve diventare allora il correlato economico della comunità di popolo: l’opposizione di classe che rischiava di fare di ogni fabbrica il luogo di una lotta senza quartiere doveva essere conciliata e risemantizzata in senso comunitario. Una priorità che non fu affidata solo alla propaganda e all’omicidio, ma fu promossa anche attraverso enormi investimenti con lo scopo di rendere più accettabile il gigantesco sforzo che la guerra stava richiedendo al sistema produttivo tedesco e per evitare che gli scioperi sempre più intensi dei primi anni ’30 sfociassero in rivoluzione. Si tratta di metodi di “conquista” di adesione e consenso debitamente coniugati con l’inserimento in ogni fabbrica di ufficiali legati alla Gestapo, con l’impiego sempre più massiccio di lavoratori stranieri nei confronti dei quali l’unico metodo era la pura soggezione – si calcola che nel 1945 ne fossero impiegati 15 milioni in Germania –, senza disdegnare l’uso di ingenti dosi di metanfetamina somministrate come farmaci agli operai per aumentarne la resistenza. Tutto questo con l’intenzione di rendere la fabbrica un ganglio stabile e disciplinato della comunità di popolo.
Ebbene, è un’esigenza non molto diversa quella che si esprime nel nuovo management che si adatta perfettamente alla Repubblica federale: non è più tempo di soggezione unilaterale, di obbedienza cieca. Il tempo della dittatura – prima era il burocratismo dello Stato come apparato, il giudaismo, l’astrattezza della società di classe; ora è il nazionalsocialismo – è finito. Nell’azienda si devono dare rapporti tra collaboratori, persone che pensano e agiscono in modo autonomo. Non la lotta tra dominanti e dominati, ma l’armonia tra direzione e personale. Il dirigente non deve dare indicazioni dettagliate sul contenuto delle azioni, ma comunicare “direttive” e fissare “obiettivi”, delegando la responsabilità affinché i singoli siano meritevoli e trovino da sé i mezzi migliori per raggiungere un certo fine. Certo, “questa libertà […] era un’ingiunzione contraddittoria: nel management immaginato da Höhn si è liberi di obbedire, di realizzare gli obiettivi imposti dalla Führung. L’unica libertà risiedeva nella scelta dei mezzi, non in quella dei fini” (76). Ma, argomenta Chapoutot, non è questa la stessa libertà che, dietro l’eterno richiamo alle selve tacitiane in cui schiere di teutoni razzolavano fieri, ha portato a definire il regime nazionalsocialista una poliarchia, in forza del proliferare di agenzie, di corpi e iniziative personali in cui all’adesione incondizionata alle decisioni del Führer corrispondeva una notevole autonomia di iniziativa in cui capi e capetti erano non solo liberi di obbedire, ma soprattutto liberi di comandare? E non è questa superfetazione di organi, fondata sulla “delega di responsabilità”, ciò a cui autorevoli studi riconducono i tratti più abominevoli della politica di sterminio? Questa organizzazione caotica e antiburocratica ammantava il lavoro e l’adesione alla comunità di un’apparenza di libertà e autonomia che poté essere trasferita senza difficoltà nella cornice democratica del dopoguerra, diventando il fiore all’occhiello del miracolo economico. La continuità del prestigio di un Reinhard Höhn impone così di riconsiderare il rapporto tra democrazia e totalitarismo ben al di là della loro opposizione quali forme politiche.
Sul finire degli anni ’60, sotto la spinta dei movimenti studenteschi, il passato di Höhn viene infine a galla e l’accademia di Bad Harzburg comincia a perdere lustro. Nel 1971 esce un lungo articolo nel giornale socialdemocratico Vorwärts contro la “fucina delle élites” e il suo cuore nazista. Nel 1977 la RAF assassina Hanns Martin Schleyer, ex allievo di Höhn, a sua volta passato dalle SS alla guida della Confederazione tedesca degli imprenditori. Il metodo di Bad Harzburg non ha però ancora esaurito la sua gittata: dopo il fallimento dichiarato nel 1989, una parte dell’Accademia si trasferisce in Russia, su iniziativa della collaboratrice di Höhn Gisela Böhme, per formare decine di migliaia di manager nell’ex Unione Sovietica. Höhn da parte sua continuerà a scrivere e ripubblicare le sue opere sul management e morirà nel 2000, poco prima di compiere 96 anni, celebrato dalle grandi testate della stampa tedesca che di lui salutano “il manager di genio, l’insegnante di talento e l’infaticabile ricercatore” (84).