di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
Traduciamo e ripubblichiamo un’intervista dalla Transnational Social Strike Platform a Simon Pirani, attivista, blogger e storico del clima e dell’energia. L’intervista è parte dell’iniziativa Climate Class Conflict promossa dal TSS, uno spazio di discussione transnazionale delle lotte ecologiste volto a costruire connessioni politiche fra iniziative climatiche altrimenti isolate. Una versione più breve dell’intervista sarà ripubblicata sul numero in costruzione di un giornale delle lotte a cura di Climate Class Conflict, che ospiterà anche un nostro contributo dall’Italia.
L’intervista a Simon ci invita a riflettere su come “rendere esplicite le connessioni” fra un’iniziativa per il clima e una politica di classe. Se già dopo la pandemia la transizione ecologica si presentava come un rompicapo dentro al quale l’ipotetica promessa di un futuro più verde si realizzava nella certezza di nuove vie di accumulazione per il capitale, la guerra di Putin in Ucraina ha reso ancora più visibile il nesso fra la transizione e la riorganizzazione della produzione e riproduzione sociale. Con le sue metastasi, questa Terza guerra mondiale pesa sulla nostra quotidianità quando viene utilizzata per giustificare i prezzi del gas alle stelle o l’estrazione di nuovi combustibili fossili a beneficio delle sole compagnie petrolifere. La guerra pesa nella scelta del nome di un ministero che scambia la Transizione per Sicurezza energetica, così da acclimatarsi nel crescente militarismo e nazionalismo alimentati dalla guerra. La guerra pesa tanto nella riorganizzazione neoliberale del settore energetico ucraino che, come Simon sostiene, l’Unione Europea sta già preparando per renderlo adatto alle esigenze del mercato unico, quanto nella ristrutturazione logistica e infrastrutturale dello stesso mercato europeo in cui si inserisce anche il Passante di mezzo (e quando Simon ricorda che il sindaco di Londra si autocelebra come “il più green al mondo” non può che tornarci in mente la vicenda nostrana della “più progressista” delle città italiane). La nostra iniziativa per il clima deve allora convergere con altre lotte e articolarsi in una politica transnazionale di pace capace di sfidare la violenza della guerra e lo sfruttamento del capitale anche quando travestito di verde e di rompere il nesso fra produzione, riproduzione e il peggioramento delle condizioni di vita di donne, migranti, persone lgbtqi+, operaie e operai, precari e precarie.
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TSS: Negli ultimi anni, il movimento per il clima – portato avanti soprattutto dai giovani – ha utilizzato lo sciopero come principale strumento politico per rivendicare una transizione giusta e la giustizia climatica a livello globale. Quale impatto pensi stia avendo questo movimento, in particolare sui movimenti sociali? Quali sono le principali sfide che il movimento per il clima deve affrontare ora?
Pirani: Grazie per queste domande. Innanzitutto, vale la pena di riflettere sul modo in cui è cambiato il significato di “sciopero”. Per quanto ne so, per almeno due secoli ‘sciopero’ ha avuto un significato piuttosto ristretto, e cioè il rifiuto collettivo di svolgere un lavoro retribuito. Era l’arma fondamentale della lotta della classe operaia contro i datori di lavoro. Ma sotto l’impatto dei movimenti femministi e di altri movimenti, ‘sciopero’ ora include una gamma più ampia di azioni. I “Fridays for Future” del movimento degli studenti sono una di queste azioni.
Vorrei poter rispondere alla tua domanda sull’impatto che tutto ciò sta avendo sui movimenti sociali! Credo che sarà il tempo a dirlo. C’è stato un momento in cui i nuovi movimenti emersi nel 2018 – nel Regno Unito, Fridays for Future ed Extinction Rebellion – sembravano avere il potenziale per cambiare i movimenti sociali in generale. Poi è arrivata la pandemia che ha reso molto più complicata la possibilità di organizzarsi e l’intero processo è stato interrotto.
Quest’anno, quando la fase peggiore della pandemia è passata, ho notato due tendenze. La prima è la crescita della protesta per le questioni climatiche in Africa e il riconoscimento di questo fenomeno da parte dei gruppi del Nord globale. In realtà, i movimenti in Africa non sono una novità: il Delta del Niger vanta decenni di organizzazione contro l’estrattivismo delle compagnie petrolifere che distrugge l’ambiente locale e impoverisce la popolazione. La novità sta nella ampiezza di alcuni nuovi movimenti, soprattutto contro la rinnovata spinta allo sfruttamento delle riserve di gas. Coalizioni come Don’t Gas Africa e Stop EACOP (East African Crude Oil Pipeline) sono significative. E molti gruppi in Europa hanno fatto della solidarietà con il Sud globale un elemento fondamentale della loro politica sulle questioni climatiche.
La seconda tendenza è il movimento di scienziati, ingegneri e altri che considerano una loro responsabilità parlare di politica climatica. Una decina di anni fa, gli scienziati che, come Michael Mann, parlavano di politiche erano una piccola minoranza; ora, Mann è affiancato da persone politicamente più radicali, come quelle che recentemente hanno invitato alla disobbedienza civile in un articolo su Nature Climate Change. Ci sono poi organizzazioni come l’Architects Climate Action Network, che parlano con una certa autorevolezza della decarbonizzazione degli edifici, un passo enorme e necessario verso l’abbandono dei combustibili fossili.
Una grande sfida è quella di riunire questi movimenti in modo da sfidare efficacemente Stato e capitale. Abbiamo appena assistito allo spaventoso sequestro dei colloqui sul clima della COP27 da parte delle compagnie petrolifere e delle nazioni produttrici di petrolio. Dal 1992, questi colloqui hanno avuto un’importante funzione egemonica, e cioè quella di mantenere un collegamento tra le azioni dello Stato e la società civile. Il cambiamento climatico è una questione globale; ci si aspetta che le persone, per quanto organizzate, esprimano le loro preoccupazioni allo Stato in cui vivono. Il pericolo, dal punto di vista del potere statale, è che questa connessione si stia spezzando. Sempre più persone capiscono che gli Stati stanno cospirando intenzionalmente con il capitale per portare il mondo al disastro, e che questo sta colpendo centinaia di milioni di persone in tutto il Sud del mondo in questo momento. La sfida che ci attende è quella di generalizzare e organizzare questo movimento per realizzare un cambiamento sociale senza il quale la furia del riscaldamento globale continuerà ad accelerare.
Dopo la pandemia, la transizione verde ed energetica è emersa come un pilastro dei piani di ricostruzione dei governi. In questo senso, la transizione verde può essere vista dal punto di vista dell’impatto che ha sia sulla produzione sia sulla riproduzione sociale. Questo la rende per noi un terreno di lotta con cui i movimenti per il clima devono confrontarsi. Su quale piano è possibile costruire connessioni, considerando le diverse condizioni che donne, lavoratori e lavoratrici, migranti, e persone lgbtq+ affrontano a livello transnazionale come effetti della crisi climatica stessa e del suo governo neoliberale?
Il primo e urgente compito è quello di decostruire il lessico delle “transizioni verdi”. Con molte di queste parole, le imprese capitaliste cercano di presentare le loro attività come “verdi” per continuarle senza interruzioni. Credo che il greenwashing, per la scienza del clima, oggi sia più pericoloso del negazionismo. Trenta o persino vent’anni fa il negazionismo climatico era plausibile. I danni provocati dal riscaldamento globale non erano così evidenti per la maggior parte delle persone e nei paesi ricchi erano in gran parte invisibili. Il susseguirsi di estati torride, le inondazioni e le ondate di calore che hanno colpito il nord e il sud del mondo hanno cambiato le cose e, a mio avviso, sono la causa dei nuovi tipi di movimenti sulle questioni climatiche.
Qui a Londra abbiamo un sindaco laburista che sostiene di essere il più verde del mondo. Gli abbiamo chiesto di cancellare un progetto di costruzione stradale, il Silvertown Tunnel. Qualsiasi ricercatore sul clima o sui trasporti vi dirà – e in effetti un nutrito gruppo di loro lo ha detto al sindaco l’anno scorso – che se si vogliono raggiungere gli obiettivi climatici non ci possono essere grandi infrastrutture incentrate sulle automobili nelle città del mondo ricco. Il sindaco non solo si rifiuta di ascoltare, ma per giunta costruisce la reputazione “verde” sulla base di operazioni vetrinistiche e relativamente poco costose. Il governo del Regno Unito, come è ovvio, fa ancora peggio: parla di “transizione verde” mentre autorizza nuove estrazioni dai giacimenti di petrolio e pianifica progetti stradali. E poi l’Unione Europea, che dovrebbe essere un attore chiave per la decarbonizzazione, a luglio ha riconosciuto gas e nucleare come combustibili “verdi” ai fini degli investimenti. È una questione di soldi: le aziende produttrici di combustibili fossili possono contare anche su questo quando competono con quelle produttrici di energie rinnovabili. In tutti questi casi, il greenwashing è combinato con soluzioni tecnologiche: veicoli elettrici, idrogeno, cattura e stoccaggio del carbonio – sono tutte soluzioni di dubbia efficacia in termini di decarbonizzazione, ma tutte vie facili per l’accumulazione di capitale.
Greenwashing e tecno-balle ci portano davvero sulla strada della catastrofe. La grande forza dei movimenti sociali e dei movimenti di lavoratrici e lavoratori deve essere rivolta contro di essa. Ciò significa a sua volta che, all’interno di questi movimenti, dobbiamo prestare maggiore attenzione alle tecnologie e al rapporto tra tecnologie e cambiamento sociale. Esistono tecnologie che possono abbattere enormemente il consumo di combustibili fossili e contemporaneamente servire le comunità e migliorare la giustizia sociale. In Europa, dato che il prezzo del gas che riscalda le case è salito alle stelle, non c’è niente di più importante che isolare termicamente le case e dotarle di condizionatori d’aria elettrici. Anche se l’elettricità viene prodotta dal gas, un condizionatore riscalda una casa in media quattro o cinque volte più efficacemente di una caldaia a gas. Se la casa è isolata correttamente (e la maggior parte delle case di lavoratori e lavoratrici non lo è), è necessaria ancora meno elettricità.
In un momento in cui milioni di lavoratori e lavoratrici devono far fronte a bollette energetiche impagabili, i socialisti dovrebbero pretendere apertamente queste tecnologie e chiederne l’immediata introduzione ai governi locali e nazionali. Questo potrebbe unire la questione climatica con i crescenti movimenti contro l’inflazione e in difesa degli standard di vita. Per quanto riguarda i trasporti, si dovrebbero rifiutare nuovi progetti stradali e auto elettriche e rivendicare come nostre tecnologie fondamentali come piste ciclabili, scooter elettrici, e trasporti pubblici economici o gratuiti. E poi potremmo aprire la prospettiva di sistemi energetici urbani integrati e cercare modi per fronteggiare il capitale e lo Stato che hanno tutto da guadagnare nel rimandare questi cambiamenti, limitandosi a modifiche incrementali dei sistemi attuali, mantenuti saldamente sotto il loro controllo.
Non c’è unanimità su questi temi tra gli scrittori che pretendono di proporre risposte socialiste alla crisi climatica. Jacobin, una delle maggiori riviste di “sinistra” in lingua inglese, preferisce discutere di soluzioni tecnologiche come l’estrazione diretta di CO2; Verso, la casa editrice di “sinistra”, sforna libri (ad esempio questo e questo) che sostengono questa tecnologia. Che cos’è questa ossessione per le grandi tecnologie altamente speculative gestite dallo Stato? A mio avviso fa parte dell’ossessione della “sinistra” per i grandi cambiamenti gestiti dallo Stato. Questi approcci sminuiscono il potere dei movimenti sociali, anzi il potere della società di fare qualsiasi cosa.
La domanda sull’intersezione delle questioni climatiche con i problemi delle donne, di lavoratori e lavoratrici, delle e dei migranti e delle persone Lgbtq+ è molto ampia! Ed è importante porre queste domande molto ampie, ma non credo che ci siano risposte facili. Penso che il punto che ho già sollevato – sulla possibilità di unire i movimenti per il clima con le lotte per il costo della vita – si applichi alle donne, alle persone Lgbtq+ e alle e ai migranti tanto quanto a lavoratori e lavoratrici. Nella misura in cui le e i migranti, le donne e le persone Lgbtq+ sopportano già il peso di altre disuguaglianze, la crisi del costo della vita li colpisce più duramente.
La società capitalista è piena di molteplici ingiustizie, che vengono esacerbate dal cambiamento climatico in modi diversi. Per esempio, nella nostra campagna contro il progetto del tunnel di Londra, abbiamo sostenuto che il tunnel è sia dannoso per il clima globale (perché aumenta un traffico stradale già eccessivo in una città del mondo ricco), ma anche negativo in termini di inquinamento atmosferico locale prodotto da quel traffico. Il tunnel riverserà il traffico che interessa la zona a nord del Tamigi nel distretto di Newham, una delle aree del Regno Unito maggiormente affetta da problemi d’inquinamento atmosferico e la cui popolazione è perlopiù povera ed etnicamente diversificata. I progetti infrastrutturali, sostenuti non dal nostro squilibrato governo conservatore ma dal partito laburista, stanno ammassando miseria sulle persone più vulnerabili della società. Le connessioni sono reali: dobbiamo sempre renderle esplicite.
L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin ha avuto effetti devastanti prima sulle e sugli ucraini costretti a combattere o a fuggire per salvarsi la vita, e poi anche sullo scenario politico globale. Se guardiamo alla guerra da un punto di vista europeo, ci rendiamo conto di quanto abbia inciso profondamente sui piani di transizione verde ed energetica dell’Unione, per esempio con il RePowerEU che è solo uno dei tanti strumenti legislativi istituiti per affrontare la crisi energetica prodotta dalla guerra. Quali sono, secondo te, i principali effetti che la guerra ha avuto sulle politiche verdi dell’UE e come pensi che influiscano sulle possibilità dei movimenti per il clima di lottare contro la transizione verde?
Vorrei fare un’osservazione sulle cause e sugli effetti. La guerra ha interrotto l’esportazione di grano, olio di girasole e altri prodotti agricoli dalla Russia e dall’Ucraina e, oltre ad alimentare l’inflazione, ha prodotto il pericolo di carenza di cibo soprattutto in Nord Africa. C’è poi la cosiddetta “crisi energetica”, che dovremmo decostruire.
Nel caso del petrolio, la produzione russa è diminuita a causa delle sanzioni del governo occidentale. Ma l’enorme aumento del prezzo del petrolio significa che, per il momento, le entrate russe derivanti dalle vendite di petrolio sono molto maggiori rispetto all’anno precedente. Se il petrolio rimane la principale fonte di denaro per la Russia, il gas è il simbolo di un proficuo rapporto commerciale costruito con la Germania e con altri Paesi dell’Europa occidentale negli ultimi quarant’anni. Questa relazione è stata distrutta con decisioni deliberate del Cremlino. Il Cremlino, che controlla Gazprom, la più grande compagnia di gas, ha deciso dall’inizio dell’anno scorso di limitare i volumi di gas consegnati all’Europa, per esercitare una pressione politica. Dopo l’invasione dell’Ucraina a febbraio, Gazprom ha chiuso ulteriormente i rubinetti e non ha consegnato i volumi richiesti dai contratti a lungo termine.
Il Cremlino ha distrutto le sue relazioni commerciali con l’Europa in nome della sua avventura militare imperialista in Ucraina. Questo è il primo motivo per cui i prezzi del gas all’ingrosso sono aumentati così bruscamente. La seconda ragione è che il mercato del gas all’ingrosso è stato completamente liberalizzato, e questo modello tende a ingigantire gli effetti sui prezzi quando ci sono delle carenze. Alcuni governi europei hanno adottato misure per proteggere le famiglie dagli effetti peggiori di questi prezzi all’ingrosso; altri, come il Regno Unito, non lo hanno fatto.
Le misure di RePowerEU sono state contestate – credo correttamente – da ricercatori e ricercatrici energetici e da specialisti di politica urbana. Secondo loro, le misure più efficaci per ridurre la dipendenza dal gas russo sono programmi intensivi di isolamento delle case e l’istallazione di condizionatori, come ho già detto, oltre che l’aumento della produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Invece di fare questo, i politici europei hanno usato la “crisi energetica” come scusa per favorire nuovi e massicci investimenti nella produzione di petrolio e gas, cioè di fonti fossili che dovrebbero essere lasciate sottoterra! Una volta approvati tali progetti, ci possono volere comunque fino a dieci anni per l’estrazione di risorse. Quindi queste politiche non hanno assolutamente nulla a che fare con la soluzione del problema dell’approvvigionamento di gas per questo o il prossimo inverno. È un modo per garantire un’ancora di salvezza per le compagnie petrolifere e consentire loro di ignorare gli obiettivi climatici.
Come pensi che la politica climatica e quella di classe possano relazionarsi tra loro nello scenario di guerra in cui viviamo, in modo da superare le divisioni artificialmente costruite tra gli interessi delle e degli attivisti per il clima e quelli dei lavoratori e delle lavoratrici?
I contorni del tipo di politica che potrebbe unire i movimenti di classe e quelli per il clima mi sembrano chiari: un programma accelerato per l’isolamento delle case e l’istallazione di condizionatori d’aria elettrici; estendere le forme di proprietà statale e sociale sulle reti elettriche, in modo che non siano gestite a scopo di lucro; gli alti prezzi del gas non devono essere pagati dalle famiglie; l’elettricità e il riscaldamento dovrebbero essere forniti come servizi, non come merci; dare priorità all’elettricità prodotta da fonti rinnovabili e all’integrazione dei sistemi energetici nell’interesse pubblico; allineare i sistemi energetici con le misure per affrontare il riscaldamento globale.
Il modo principale per affrontare il riscaldamento globale è ridurre l’uso dei combustibili fossili. Il punto su cui dobbiamo insistere è che molte delle tecnologie necessarie per farlo esistono già; gli ostacoli derivano dal modo in cui gli Stati gestiscono le economie e le società nell’interesse del capitale. Anche le richieste di cambiamenti sociali che si interfacciano direttamente con lo Stato possono spingere in avanti la decarbonizzazione. Gli esempi dell’isolamento e del riscaldamento domestico, o del trasporto pubblico al posto delle auto elettriche, sono solo i più ovvi. Lo stesso principio può essere applicato all’intera società.
L’estrema destra affronta la questione dal lato opposto. Sostengono che l’aumento delle bollette energetiche delle famiglie sia il risultato delle spese militari sostenute dai governi per aiutare l’Ucraina, ma non è così; lo presentano come un fardello che grava sulle spalle dei lavoratori, insieme (ovviamente) ai rifugiati ucraini. Stiamo anche assistendo al vergognoso spettacolo della “sinistra” in Europa occidentale che asseconda questa narrazione, collegandola alle loro false affermazioni secondo cui l’invasione assassina della Russia è stata causata dalla NATO, come se il Cremlino non avesse nulla a che fare con essa. L’unione delle lotte sociali con quelle per il clima è anche un mezzo per respingere e sconfiggere l’influenza della destra.
La guerra è ancora in corso, è difficile da leggere in tutte le sue dinamiche militari, ed è ora in una fase di escalation. Allo stesso tempo, questo non dissuade l’UE dall’avviare piani di ricostruzione postbellica dell’Ucraina, che prevedono la riforma del sistema energetico per renderlo adatto agli standard del mercato europeo. Puoi dirci qualcosa di più su questo processo in corso? Quali sfide pone la ricostruzione post-bellica ai movimenti sindacali, sociali e climatici sia in Ucraina che fuori dal Paese?
È troppo presto per dire cosa comporterà la ricostruzione del sistema energetico ucraino. Per quanto è possibile capire dalle notizie, gli attacchi missilistici russi di ottobre hanno messo fuori uso un terzo delle centrali elettriche. A novembre, le interruzioni di corrente erano così gravi che il governo stava organizzando l’evacuazione dei civili dalle zone del fronte, perché forse non ci sarebbe stato modo di fornire calore e luce durante l’inverno. Questo bombardamento incessante delle infrastrutture civili incarna il tipo di guerra combattuta dal Cremlino: una guerra non solo contro lo Stato ucraino, ma anche contro la popolazione ucraina.
Nonostante le circostanze estremamente difficili, i socialisti ucraini hanno delineato politiche di ricostruzione postbellica basate su investimenti pubblici, difesa dei diritti dei lavoratori e cancellazione del debito estero dell’Ucraina. Queste proposte sono in netto contrasto con i piani della Commissione europea e del governo ucraino, che prevedono maggiori privatizzazioni, l’apertura di spazi per i mercati in stile neoliberale e nuovi attacchi ai diritti dei lavoratori. Spero che questi temi vengano discussi più ampiamente nei movimenti sociali e sindacali di tutta Europa.
La ricostruzione del sistema energetico è stata discussa in un recente evento online organizzato da Spilne (Commons), la rivista socialista ucraina. Ho suggerito i principi che i movimenti sociali ucraini potrebbero tenere a mente per la ricostruzione post-bellica, tra cui (i) l’attenzione all’elettricità da fonti rinnovabili (che potrebbe ridurre drasticamente l’uso di carbone e gas); (ii) il potenziale di riduzione del flusso di energia (il che è ottimo, perché le infrastrutture vecchie e poco efficienti dal punto di vista energetico dovranno comunque essere sostituite); (iii) il fatto che la fornitura di energia sia un diritto o un servizio, non una merce (in linea con l’opposizione dei socialisti ucraini alle imposizioni neoliberali); e (iv) l’uso di tecnologie compatibili con i nostri obiettivi di giustizia sociale e di lotta contro il capitale.
Una tecnologia a cui dovremmo assolutamente opporci è la produzione di idrogeno da elettricità rinnovabile in Ucraina finalizzata all’esportazione nei Paesi europei. Questa proposta, sostenuta dalla Commissione europea e dal governo ucraino, puzza di neocolonialismo e di greenwashing. Nella nostra discussione è emersa anche la questione dell’energia nucleare, che gode di un forte sostegno all’interno del governo ucraino. Sebbene a breve termine il sistema elettrico ucraino avrà bisogno dell’energia nucleare per mantenere le luci accese, non c’è alcuna ragione per cui i socialisti dovrebbero sostenere l’espansione di questa costosa tecnologia, inevitabilmente legata allo Stato e ai militari. L’elettricità rinnovabile e le misure di conservazione dell’energia non risolvono tutto dall’oggi al domani, ma dovrebbero essere il nostro obiettivo per combinare la lotta per fermare il riscaldamento globale con i nostri obiettivi di giustizia sociale.