giovedì , 21 Novembre 2024

Perversione senza sovversione. Alcune riflessioni a partire da una lettura parziale di Jack Halberstam

di MALOCCHIO

bell: «The danger of it not being available is we only then hear the horror story of our failure. We only hear the failure of attempts to be non-monogamous or attempts to reshape our notions of family and how you live in a household. […] I don’t feel, looking back, that failure characterizes those moments at all, but instead incredible triumph over the ways that our parents lived»

bell hooks, Stuart Hall, Uncut funk. A contemplative dialogue

Me-ti disse: Non ho trovato molte formule a base di «tu devi» che avessi voglia di pronunciare. Intendo dire formule di natura generale, formule che possono essere indirizzate alla generalità degli uomini. Però c’è una formula di questa fatta: «tu devi produrre».

Bertolt Brecht, Me-ti. Libro delle svolte

La traduzione italiana di The Queer Art of Failure (L’arte queer del fallimento, Minimum fax, 2022) arriva undici anni dopo la sua prima uscita negli Stati Uniti. Pubblicato nel 2011, il libro viene scritto nel pieno di una crisi economica che, a partire dal tracollo del sistema finanziario statunitense, ha dato il via a una serie di fallimenti a cascata di famiglie, aziende e Stati su scala globale. Davanti agli evidenti disastri di questa crisi mai finita, Jack Halberstam propone di ripensare la categoria del fallimento invitandoci a guardarne il lato positivo, creativo e potenzialmente sovversivo, con lo scopo di costruire un discorso alternativo e “contro-egemonico” che metta in discussione l’etica del successo, l’orientamento al profitto e le forme di pensiero positivo che informano la teoria liberale e sostengono la riproduzione della “società eterosessista e capitalista” contemporanea. In quello che l’autore sintetizza come «una specie di Manuale di SpongeBobs Square Pants sulla vita» (p. 8), il fallimento viene presentato come un «modo di essere» e di «non-essere», specificatamente legato a «generi, sessualità ed esistenze “perverse”» (p. 37), capace di dar luogo a forme di conoscenza e di resistenza collettiva, anti-capitaliste, anti-coloniali e femministe, a partire dalla rivendicazione del carattere anti-sociale, perverso, passivo, indisciplinato, masochista e indecente di stili di vita non conformi, divergenti, per l’appunto, queer. Il libro è dunque innanzitutto un invito a «fallire, perdere, dimenticare, disfare, annullare, sfigurare, non sapere» in quanto «modi di stare al mondo più creativi, più collaborativi e più sorprendenti» (p. 9), a non essere presi sul serio, ma ad «essere frivoli, promiscui e irrilevanti» (p. 14), ad aderire a forme contro-intuitive di conoscenza, a opporre un «rifiuto della padronanza» (p. 24). Assumendo queste indicazioni anche nel suo stile espositivo, Halberstam rifiuta i canoni argomentativi accademici tradizionali, preferendo piuttosto andare avanti «a tentoni», smarrendosi «nei territori del fallimento, della distrazione, della stupidità e della negazione» (p. 46).

Rimanendo fedele allo spirito del libro, che invita il lettore a perdersi e a non prenderlo troppo sul serio, vorrei mostrare perché esso sia, perlopiù, proprio un “grosso fallimento”, e in che modo questo fallimento sia a suo modo produttivo, perché in grado di raccontare qualcosa del presente e quindi, magari, dirci quali indicazioni politiche (non) trarne. Sempre convinto di non fare uno sgarbo all’autore, vorrei proporre infatti una lettura del libro deliberatamente parziale, in almeno tre sensi. Intanto perché evidentemente ne prenderò in considerazione solo alcune parti. Inoltre, ne fornirò una lettura parziale perché di parte, nel senso che guarda alle proposte politiche “fallimentari” contenute nel libro a partire da particolari posizioni soggettive, dunque parziali, e non dall’universale astratto che il libro in qualche modo ripropone. Last but not least, perché la posizione soggettiva dello scrivente permette di essere di parte: cioè dalla parte di chi sfida le condizioni sociali che limitano la libertà sessuale di alcune e alcuni, facendo di questa sfida una possibilità di liberazione per tutte e tutti. Prendere politicamente sul serio il fallimento come “stile”, oggi, significa allora chiedersi quali spazi politici apre e quali invece chiude, a chi parla e a chi invece non parla, che tipo di discorsi legittima e quali connessioni possibili preclude.

            Fallimenti senza storia

Riprendendo la nozione di “teoria bassa” di Stuart Hall, Halberstam articola la propria proposta politica a partire dalla ricostruzione di un archivio queer del fallimento. Un archivio composto di cartoni animati, di film di serie ‘B’, di romanzi, di musica punk e di arti figurative, con cui mostrarci che in alcune forme di produzione culturale di massa, apparentemente “stupide” si celano talvolta messaggi potenzialmente sovversivi, fatti di rappresentazioni “negative” e anti-sociali, di desideri di radicale alterità e perversione. È soprattutto nei cartoni animati più recenti, dove le tecniche CGI (Computer Generated Imagery) hanno potuto mettere in forma animata le folle, che Halberstam rintraccia dei veri e propri depositi di saperi su forme alternative di relazioni sociali, dove alle configurazioni della famiglia parentale tradizionale e all’etica neoliberale dell’affermazione individuale vengono preferiti racconti di amicizie improbabili, di alleanze inter-specie, di cospirazioni collettive contro sfruttatori e oppressori. Dall’utopia anarchica e femminista delle “gramsciane” Galline in fuga, alle lotte ecologiste inter-specie di La gang del bosco, passando per l’amicizia ribelle e anticapitalista tra una bambina e un mostro in Monsters&Co., o per la parodia della costruzione sociale del sesso in Robots, i film d’animazione Pixar e DreamWorks hanno inaugurato un nuovo genere di rappresentazioni animate per bambini capaci di mostrarci come fare dei nostri quotidiani fallimenti un’arte. Al centro della vicenda del protagonista di Alla ricerca di Nemo, un giovane pesce pagliaccio con una pinna atrofica, non c’è l’esaltazione di un’impresa individuale, ma la costruzione di un rapporto nuovo e non-edipico tra padre e figlio che passa niente di meno che da una rivolta di creature marine orchestrata con la complicità di un pesce (Dory) che soffre di continue perdite di memoria.

La questione della memoria e le potenzialità queer del dimenticare occupano un ruolo centrale in questo elogio del fallimento. Dory, inconsapevole eroina queer, non ricorda nemmeno cosa ne è dei membri della propria famiglia, e deve ogni volta costruire daccapo i propri legami, dando vita a relazioni sempre contingenti ed effimere. Dimenticare si carica di “perversione” proprio perché permette di interrompere la temporalità lineare della trasmissione di un sapere eterosessista dai genitori ai figli. «Per le donne e le persone queer – scrive Halberstam – dimenticare può essere uno strumento utile per manomettere la normalità, la consuetudine e il loro regolare funzionamento» (p. 118). Sempre secondo questa lettura, mentre normalizzano forme di maschilismo giocando sulla presunta naturalezza del maschio “scemo ma dolce”, i personaggi demenziali di film come Scemo più scemo, 50 volte il primo bacio o Fatti, strafatti e strafighe, nascondono in realtà messaggi che inneggiano a forme di perversione anti-sociale associate al dimenticare, all’andare in loop, al perdersi, cioè di pratiche di resistenza di cui i soggetti “anormali” dovrebbero appropriarsi facendone esplodere il potenziale trasformativo.

A ben vedere, questa critica a una funzione sostanzialmente conservatrice della memoria, che Halberstam rintraccia da Dory a Valerie Solanas, passando per una lettura molto discutibile del femminismo post-coloniale, evita puntualmente di fare i conti con la storia. Se il libro è innanzitutto una specie di etica del situazionismo, e in parte un’estetica del fallimento, non stupisce che i soggetti chiamati politicamente in causa agiscano, cioè falliscano, fuori dallo spazio e dal tempo. D’altra parte, in questo archivio queer del fallimento, fatto perlopiù di cartoni senz’altro formidabili, non c’è spazio per storie di soggetti collettivi realmente esistiti. Donne, sfruttati, gay, neri, trans, proletari nelle pagine del libro non hanno storia, ma esistono solo in funzione della riproducibilità eterna di una norma e per questo non hanno nemmeno bisogno di memoria. Inoltre, costruendo l’opposizione fondamentale lungo la direttrice normalità/perversione, non solo viene occultata la gerarchia sociale tra donne e uomini all’interno della “normalità” eterosessuale, ma le esistenze segnate da desideri e sessualità “perverse” sono schiacciate all’interno di un’unica categoria universalizzante – queer – che cancella le differenze al proprio interno, mentre impedisce la solidarietà e la complicità con chi è fuori dal recinto. Halberstam è attento a non riproporre una visione identitaria delle identità sessuali («Non c’è ovviamente niente di essenziale che lega gay, lesbiche e persone trans a queste forme di non-essere e di non-diventare…»), e quindi nega un rapporto immediato tra perversione e sovversione. Tuttavia, poiché la perversione come fallimento non coincide con la sovversione dei sistemi sociali e simbolici, ma li presuppone, questa finisce per condannare qualsiasi tentativo di azione politica («…ma non possiamo sperare che i sistemi sociali e simbolici che associano la “perversione” al perdere e al fallire spariscano semplicemente, come per magia» (p. 164)). Senza scomodare la categoria dell’intersezionalità, dietro cui spesso si cela l’impossibile desiderio di segmentare in parti equivalenti l’esistente, si dovrebbe almeno riconoscere che la stessa possibilità di una “perversione” non è indifferente alla posizione degli individui rispetto a razza, classe e sesso. In altri termini, possiamo davvero permetterci tutt* di fallire? E poi, chi ha davvero voglia di fallire? Per tornare alle masse rivoltose dei cartoni di Halberstam, perché non chiederci, piuttosto, come riuscire in dei meravigliosi successi collettivi?

Questa complessità del rapporto tra desiderio, identità e memoria viene messa a tema in maniera straordinariamente efficace in una conversazione tra bell hooks e Stuart Hall pubblicata sotto il titolo Uncut funk. A contemplative dialogue. In un passaggio molto significativo, hooks mette in discussione la lettura della famiglia come istituzione reazionaria e conservatrice offerta dal femminismo bianco, e lo fa a partire dai ricordi della propria infanzia vissuta sotto la segregazione razziale. hooks riconosce la funzione della famiglia nella riproduzione del “paradigma eterosessista” che reclama la subordinazione delle donne e stabilisce l’eterosessualità come sessualità ‘normale’, e tuttavia ricorda che, per molte nere e molti neri, è stata anche un luogo di resistenza alla violenza del suprematismo bianco nello spazio pubblico. L’accento sulla differenza dell’esperienza nera è ciò che permette a hooks di mostrare che la memoria ha una potenza liberatoria per i soggetti oppressi, precisamente perché permette di guardare al presente come modificabile, in quanto prodotto di una storia di dominio e di rifiuto di quel dominio. Non è un caso che, secondo Halberstam, la protagonista del romanzo Amatissima di Toni Morrison può liberarsi dal fantasma del passato della violenza schiavista solo quando dimentica sua figlia. Per hooks, al contrario, solo quando Sethe ricorda le ragioni storiche del suo gesto violento riesce a liberarsi dal fantasma del passato.

         Il fascista che è in me, il fascista che è in te

Il problema della storia e di una “storia della perversione” emerge in realtà nel quinto capitolo, il più interessante del libro, dedicato al rapporto tra omosessualità e fascismo. Il capitolo comincia criticando una certa storiografia che ha nascosto la parte “brutta” della storia delle minoranze sessuali, preferendo raccontare di una progressiva e lineare emancipazione (una tendenza presente peraltro anche in Italia dove si è arrivati a proporre una “storia culturale della comunità LGBT”). Questa operazione di offuscamento è stata praticata, oltre che da una parte della storiografia, anche dagli attivisti dei movimenti omosessuali tedeschi e statunitensi negli anni Settanta, i quali hanno ignorato le prove di una collaborazione di uomini gay al regime nazista, favorendo invece un’identificazione con le vittime, per esempio, attraverso l’uso del triangolo rosa. Mentre Halberstam rifiuta la posizione che guarda al virilismo fascista come definizione stessa dell’omosessualità, nella formula per esempio di “amore per l’identico”, al tempo stesso vuole problematizzare l’idea secondo cui vi sarebbe una totale mancanza di connessioni tra i due. Se guardiamo alle storie di personaggi come Ernst Röhm o Gertrude Stein, rispettivamente omosessuale a capo delle squadre d’assalto e intellettuale lesbica ed ebrea collaborazionista sotto Vichy, oppure alle teorie misogine e razziste del “virilismo omosessuale” della Gemeinschaft der Eigenen (la «comunità di speciali»), siamo costretti a interrogarci più a fondo sul rapporto tra politica ed erotismo, a partire anche dal “lato oscuro” del fallimento. Chiedersi perché l’immaginario fascista continui a riproporsi come feticcio sessuale, nel fascino delle divise o nell’esaltazione estetica virilista, significa per Halberstam prendere sul serio l’intreccio tra eros, potere e morte che si dà nelle forme di perversione. La conclusione aperta della sua riflessione su omosessualità e fascismo è quindi un invito a non «permetterci di accontentarci di connessioni lineari di comodo fra desideri radicali e politiche radicali», ma di «lasciarci turbare da quelle relazioni pericolose, e politicamente problematiche, che la storia mette sul nostro cammino» (p. 276).

La storia recente mostra d’altra parte che anche nell’epoca neoliberale non mancano queste “relazioni pericolose”. Halberstam ricorda come, con la “guerra al terrorismo”, il discorso anti-islam ha dato vita a «sospette alleanze politiche fra populismo di destra e diritti gay» (p. 262). Il riferimento è soprattutto a politici come l’ex leader del Partito della Libertà Austriaco Jörg Haider o al politico olandese Pim Fortuyn, i quali non hanno avuto problemi ad abbracciare la destra razzista e misogina pur essendo omosessuali e (nel caso di Fortuyn) favorevoli ai diritti LGBT. Eppure, per rintracciare queste “relazioni pericolose” tra pulsioni reazionarie e diritti gay non è necessario avventurarsi nei territori della destra reazionaria e nei (fortunatamente pochissimi) casi di leader omosessuali e fascisti. La filosofa femminista radicale lesbica Marilyn Frye, già negli anni Ottanta, metteva in questione l’affinità politica tra movimento delle donne e delle lesbiche da una parte, e il movimento gay per i diritti civili dall’altra. Per Frye, il movimento per i diritti civili statunitense, capitanato da uomini gay bianchi, aveva fatto propria un’agenda politica capace di riprodurre quella male-supremacist world view che sostiene l’oppressione e la cancellazione simbolico-politica delle donne. All’interno di un più complessivo “pensiero fallocratico”, che trova spazio in alcuni ambienti culturali delle comunità gay, il problema della discriminazione finisce per caricarsi del significato di una “evirazione”, di una negazione della piena titolarità di quella “cittadinanza maschile”, che nei diritti proprietari trova la propria positivizzazione. È importante sottolineare che Frye non accosta deterministicamente omosessualità maschile e pensiero fallocratico, e nemmeno nega la necessità di una lotta sui diritti. Anzi, dopo aver criticato come essenzialmente maschilista una politica che rivendica l’universal right to fuck, invita gli uomini gay a praticare una politica radicale dalla parte delle donne inventando nuove “forme di slealtà” verso la mascolinità e il male-suprematism.

A ben vedere, tutt’altro che sovversivo, oggi, il fallimento rischia di presentarsi come l’altra faccia dell’antropologia del populismo del capitale, sostenendo proprio quell’idea di “cittadinanza maschile” del cui fallimento si nutrono le destre liberali o reazionarie. Reclamare il fallimento negherà pure l’idea competitiva e auto-imprenditoriale di un certo individualismo liberale, ma lo fa però riscrivendosi nel ruolo del soggetto “ferito” alla ricerca di protezione e di un risarcimento monetario dallo Stato. In un interessante intervento di qualche anno fa, Halberstam ha messo in guardia i movimenti femministi e queer dalla retorica del trigger e del trauma come tattiche neoliberali di psicologizzazione della differenza politica e di individualizzazione dei problemi associati alle disuguaglianze sociali. L’articolo di Halberstam sottolinea, nuovamente, come si siano date pericolose alleanze tra istanze “progressiste” e politiche di destra, per esempio tra l’idea di safe space e logiche securitarie, oppure tra la pretesa di un certo “igiene” nel linguaggio e forme di censura. Mentre non possiamo che essere d’accordo con queste considerazioni, resta poco convincente come praticare il lessico del fallimento, proponendo un soggetto universale e astorico passivamente definito in un sistema sociale e simbolico, dovrebbe invece evitare di ricadere proprio in quella stessa logica securitaria e vittimistica neoliberale.

Il problema del fallimento d’altra parte conosce nella pretesa dei diritti, in quanto richiesta di tutela di interessi individuali, il proprio rovescio. Oggi, nel pieno della terza guerra mondiale e, potremmo aggiungere, nel mezzo dei fallimenti che la guerra ha prodotto, il discorso dei diritti sembra tornare ad occupare perversamente l’intero campo dell’immaginazione e dell’iniziativa politica. Mentre assistiamo al montare di una destra sfacciatamente reazionaria, che fa della “minaccia gender” l’arma per legittimare le proprie politiche patriarcali e razziste, la faccia democratica e progressista del patriarcato usa strumentalmente i diritti LGBT per portare avanti le proprie politiche neoliberali e per squalificare i paesi “nemici” secondo l’occasione.

I diritti sono senz’altro qualcosa che non possiamo non volere. Eppure, davanti alla richiesta urgente delle associazioni LGBT ucraine di una legge che riconosca le unioni civili perché venga data la possibilità a gay, lesbiche e bisessuali di seppellire i propri partner, o di poter dar loro assistenza in ospedale, dovremmo pure chiederci se vogliamo qualcosa di più, se è possibile cioè fare della rivendicazione della libertà sessuale un rifiuto collettivo di questa guerra. Non possiamo che rifiutare allora le posizioni che, mentre invocano la pace, usano il regime spudoratamente patriarcale di Putin come pretesto per giustificare il coinvolgimento dei paesi europei in questa guerra, o per tacere delle riforme neoliberali che stanno rendendo le vite di donne, lavoratrici e lavoratori e migranti in Ucraina sempre più insostenibili. Se la lotta per la libertà sessuale può diventare un terreno in grado di stabilire delle connessioni politiche tra differenti condizioni sociali, ancora più frammentate da questa guerra, dovremmo pur pretendere di fare della nostra lotta collettiva contro l’oppressione e lo sfruttamento una lotta di successo.

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