Bibi è tornato. Dopo anni di governi deboli e di breve durata, e cinque elezioni negli ultimi quattro anni, quelle di ieri in Israele segnano un cambio di passo e hanno portata storica. Se per diverso tempo ampi strati di popolazione hanno accarezzato la speranza di un Israele senza Netanyahu, anche ma non solo per i suoi problemi giudiziari, questa speranza è stata travolta dal voto di ieri, con un’astensione più bassa delle precedenti tornate elettorali.
Non solo, diversamente dal passato, la coalizione di estrema destra guidata da Netanyahu ha una chiara maggioranza e sembra essere molto più unita. I due storici partiti di ebrei ultraortodossi haredim aumentano i propri seggi e sono destinati ad avere sempre più peso. Il vero vincitore è però il partito sionista religioso, che ha reso il kahanismo – movimento che vede la guerra come unica soluzione della questione palestinese e che si è reso protagonista di attentati terroristici in tal senso – mainstream sulla scena politica israeliana, cosa impensabile anche solo fino qualche anno fa. Quando la tv pubblica mostrava la situazione di festa al quartier generale del partito sionista religioso, dove balli e canti hanno continuato per tutta la notte, colpiva una cosa: erano tutti maschi. Ben-Gvir è il volto di questo partito. Gira con una pistola alla cintura che non ha esitato a puntare a un palestinese durante la campagna elettorale. Da “impresentabile”, poiché già seguace dell’organizzazione Kaj (considerata terrorista dallo stesso stato di Israele) e fan (tanto da avere appeso in casa un suo ritratto) di quel Baruch Goldstein che nel 1994 operò una strage nella moschea di Hebron, si troverà probabilmente ad avere un ruolo importante nel nuovo governo. In questo quadro, in cui, è il caso di dirlo, al peggio sembra non esserci mai limite, lo storico partito socialista continua a sopravvivere a malapena, mentre Meretz, che per decenni ha dato voce alla sinistra sionista favorevole alla soluzione dei due stati, non supererà la soglia di sbarramento per la prima volta dalle prime elezioni in cui si è presentato, quelle del 1992.
Nonostante l’avvicendamento al governo, le operazioni militari di Israele in Siria continueranno nel silenzio, e con il tacito assenso della Russia, a cui Israele non vuole rinunciare tanto che difficilmente inizierà a esporsi troppo sulla guerra in Ucraina. Se per quanto riguarda Gaza e Cisgiordania lo status quo non è mai stato minimamente messo in discussione, nemmeno dal blocco anti-Netanyahu – oggi arrivato a inglobare personaggi come Lieberman, già falco in governi a guida Likud nonché ministro della difesa – dall’altro, benché ciò sia difficile da immaginare considerate le azioni criminali degli ultimi anni, la repressione nei confronti dei palestinesi si annuncia ancora più aspra. Il recente accordo con il Libano sulla spartizione dei confini marittimi e dei relativi giacimenti petroliferi rischia di venire rivisto, e la preoccupazione mostrata da più parti è che la separazione dei poteri all’interno dello stato di Israele sarà messa in discussione, così come dichiarato apertamente dalla coalizione di estrema destra in campagna elettorale. Sempre sul lato interno, non possiamo poi che registrare che quella società liberale e multiculturale, protettrice dei diritti di donne e LGBTQ, di cui Tel Aviv era il biglietto da visita e a cui nemmeno per un minuto abbiamo mai creduto, ha ceduto del tutto il terreno a un Israele che mostra sempre più chiaramente il suo volto ultrareligioso, patriarcale e razzista.
Se il voto in Brasile e quello in Danimarca dipingono un quadro diverso, e incrinano la narrazione che vede un’avanzata globale della destra radicale populista, le elezioni in Israele segnano una direzione opposta. Sappiamo però anche che la composizione della Knesset (unica camera del parlamento) impatta solo relativamente la vita di donne e uomini palestinesi. Sia di chi, tra loro, ha cittadinanza o permesso di residenza ma è continuamente oggetto di razzismo e violenza, sia soprattutto delle e dei milioni di palestinesi senza cittadinanza, che dal 2006 non hanno la possibilità di partecipare a elezioni, e che vivono quotidianamente la realtà di un’apartheid mai messo in discussione dai principali partiti israeliani e sempre più accettato dalla comunità internazionale. Oltre ogni risultato elettorale, non smetteremo mai di ripetere che siamo al loro fianco.