Convergenza non è oggi il nome di una cosa. È piuttosto il nome di un problema. Ma è solo mantenendosi all’altezza del problema che essa può diventare qualcosa per il nostro movimento. Il problema non è nuovo, ma è reso ineludibile dalla Terza guerra mondiale in atto e da tutte le sue conseguenze sulle nostre vite. Mentre minaccia le nostre esistenze, la guerra rischia di mettere sotto scacco la nostra politica. E lo fa tanto più duramente quanto più essa sta rivelando tutte le falle di un ordine che ha assunto nomi diversi – imperiale, globale e, da ultimo, neoliberale – senza mai riuscire a trovare quello giusto per scacciare lo spettro dell’insubordinazione. Assistiamo così a rigurgiti reazionari in Italia come altrove, ma anche a insorgenze impreviste contro il regime dei confini e quello del salario, contro il regime patriarcale e un regime di accumulazione “verde” che sta esaurendo il pianeta e le nostre vite. Sono lotte importanti ma spesso episodiche, diffuse su scala transnazionale; eppure, il più delle volte sconnesse. Ecco allora il volto del problema, la X che deve alimentare il processo di convergenza: costruire uno spazio di potere che i soggetti dell’insorgenza possano riconoscere e praticare come proprio. Uno spazio in cui far valere rivendicazioni comuni, che acquisiscano forza espansiva e di massa, senza per questo rinunciare alle differenze radicali che esse esprimono.
Per questo motivo, assieme ad altre realtà, abbiamo dato vita a ConvergenX, proponendo momenti di dibattito su alcuni problemi che abbiamo ritenuto fondamentali per il processo complessivo di convergenza. ConvergenX è il tentativo di affrontare criticamente nodi politici importanti come quello della guerra, della riproduzione sociale e del regime del salario per contribuire al processo che porterà alla manifestazione del 22 ottobre a Bologna, che sarà l’occasione per spezzare un ciclo politico stanco, sfiancato dalla pandemia e spiazzato dalla guerra. Il 22 ottobre non è però in gioco solo la possibilità di un nuovo fronte di opposizione nelle piazze, certo più necessario che mai davanti all’escalation militare in corso e al neoliberalismo nero in arrivo. È in gioco la possibilità di riappropriarci di un’immaginazione politica tante volte tenuta nel cassetto, scambiando le nostre lotte, importanti ma spesso circoscritte a singoli territori o a singole vertenze, con il movimento reale.
Cattive abitudini del passato non possono ipotecare la convergenza del presente. Per questo motivo proviamo a indicare quali sono per noi i valori che quella X di ConvergenX deve necessariamente assumere, perché, come sempre le incognite, se non adeguatamente considerate impediscono di raggiungere la soluzione del problema politico che abbiamo di fronte. Le lotte delle e dei migranti non sono un accessorio della convergenza, ma devono semmai essere una delle sue spinte propulsive. I movimenti delle e dei migranti sono ad oggi tra le sfide più potenti ai disegni di riorganizzazione politica ed economica dello spazio globale che i signori della guerra, ad Ovest come ad Est, stanno provando a tracciare. La lotta contro il regime dei permessi di soggiorno continua a mostrare come la lotta per il salario vada oltre i confini del posto di lavoro. I migranti non sono solo il segmento più povero e sfruttato della forza lavoro contemporanea. Sono certamente anche questo, ma sono soprattutto un movimento di massa che attraversa continuamente i confini e i fronti e che rende impossibile pensare i movimenti di classe contemporanei su una scala solamente nazionale. La forza lavoro oggi in Italia non è più nazionale e non è più nemmeno bianca e questo è un dato di fatto dal quale dobbiamo obbligatoriamente partire, stabilendo che la lotta contro lo sfruttamento del lavoro migrante e contro il razzismo istituzionale è una parte irrinunciabile dei nostri processi di convergenza.
La seconda grossa incognita di questo processo di convergenza è come esso si relaziona con i movimenti femministi e transfemministi. A nostro parere, finora, questa questione non è stata affrontata con la dovuta e necessaria radicalità. Non si tratta tanto del tasso di comunicazione con le espressioni organizzate più o meno significative di quei movimenti. Si tratta invece di assumere fino in fondo quanto la risposta globale delle donne ai tentativi di riaffermare il dominio patriarcale sia stata negli ultimi anni una – e spesso la sola – risposta alla riconfigurazione dei rapporti di dominio e sfruttamento su scala globale. Si tratta di riconoscere che lo sciopero globale contro il patriarcato è stato ed è un processo al quale guardare per imparare e dal significato politico innegabile. Bisogna riconoscere che negli ultimi anni, attraverso una ridefinizione dello sciopero, il movimento globale delle donne ha retto l’urto di un sovranismo che da Trump a Bolsonaro e Orban, non potendo restaurare la sovranità dello Stato, ha almeno provato a rendere sovrano l’ordine familiare mentre smantellava le politiche di welfare. Bisogna riconosce, ancora, che sono oggi i movimenti femministi e transfemministi a respingere in prima linea i rigurgiti reazionari contro la libertà sessuale e a lottare contro lo stesso patriarcato democratico e occidentale dietro cui si nasconde tanto un’universale violenza maschile quanto un razzismo che vorrebbe far pagare alle donne migranti il prezzo più alto della riproduzione sociale.
Lo sciopero globale delle donne ha mostrato che la convergenza non è la via breve della ricomposizione di ciò che faticosamente esiste, non è solo il piano di comunicazione delle lotte esistenti, ma deve porsi il problema di stabilire le condizioni di possibilità per l’insorgenza di tutti e tutte coloro che non hanno ancora la forza o la possibilità di lottare. Essa non può essere solo la fotografia del presente, ma aprirsi ai rischi del futuro, facendo della molteplicità di rifiuti dell’oppressione, dello sfruttamento e della povertà il punto di partenza della sua progettualità. Le stesse lotte sul salario, fondamentali in un momento in cui esso è sempre più incerto e sempre più compresso, non possono essere sganciate da una più generale lotta per il reddito, senza il quale milioni di precarie e lavoratori poveri non saranno in grado di riprodurre la propria esistenza. Questa per noi è una terza incognita fondamentale per ricercare la soluzione del problema convergenza. Non è oggi possibile alcuna lotta sul salario che non sia anche una lotta sul reddito. La lotta per il salario e per il reddito è necessariamente una lotta contro il lavoro, in quanto rapporto brutale di sopraffazione e di sfruttamento che va ben oltre i confini della fabbrica e si estende capillarmente in tutta la società dando un significato materiale a quello che viene chiamato neoliberalismo. In questo scenario, convergenza significa fare della riproduzione sociale nel suo complesso un terreno di lotta decisivo contro un’inflazione che viene scaricata sui salari – che dovranno comprare sempre più welfare, oltre che riscaldamento e generi alimentari sempre più costosi – per salvaguardare il valore dei profitti.
La nostra convergenza dovrebbe infine porsi all’altezza del piano transnazionale con cui già deve fare necessariamente i conti. Questa è una grande incognita che nessuno è in grado di determinare in tutte le sue variabili. L’escalation in corso mostra che la guerra non ha confini. Il crollo di un ponte in Crimea può oggi generare conseguenze impreviste in ogni luogo: sui mercati finanziari come sulle nostre bollette, sulle sorti di un oleodotto o del nostro posto di lavoro, sull’aria che respiriamo così come sul futuro di un giovane uomo spedito al fronte o di una giovane donna costretta a fare la parte della madre eroina. Ed è ormai chiaro che questo futuro potrebbe toccare a chiunque, poco importa quanto distante viva da Kiev. Così come è chiaro che di fronte a una guerra senza limiti, alla prospettiva sempre presente di un suo allargamento, alla crescente militarizzazione delle scelte politiche ed economiche non possiamo lasciare che la ragione geopolitica continui a giocare con le nostre vite. Nessuno contesta il diritto degli ucraini a difendersi, ma non abbiamo bisogno di ingenui inni alla resistenza quando l’olocausto nucleare si staglia all’orizzonte. Lasciamo ad altri il compito di misurare le affinità (elettive?) e divergenze tra il “compagno” Zelensky e “loro”. Noi non vogliamo essere né vittime né carnefici, ma la fine della guerra non è una mera questione di restaurazione del vecchio ordine territoriale. C’è invece bisogno che dalla nostra convergenza prenda forma una prospettiva autonoma, capace di contestare la guerra per i suoi effetti devastanti sulla vita di milioni di lavoratrici e lavoratori, precarie, migranti, donne e persone lgbtqi+.
La convergenza dovrebbe essere pienamente consapevole dell’influenza decisiva che il piano transnazionale esercita su ogni iniziativa politica. Le specifiche rivendicazioni territoriali hanno evidentemente un carattere fondamentale, perché rispondono ai bisogni immediati e individuano punti di impatto concreti. Non possiamo essere però a noi rinazionalizzare l’iniziativa politica e nemmeno possiamo essere noi a rivendicare l’autonomia delle lotte locali. Altri già lo fanno meglio di noi e con intenzioni ben peggiori. Si tratta allora di accogliere la sfida di connettere piani, avendo il coraggio della complessità del compito e senza paure delle sperimentazioni che esso impone. Mentre il passato sembra rivendicare i suoi diritti, fatti di nazionalismo, di patriarcato, di autonomie differenziate, di lavoro più o meno coatto, noi dovremmo avere il coraggio di andare oltre copioni già scritti e messi in scena molte volte.
Proprio per la natura sovranazionale di tutti i processi che ci attraversano, fare convergenza significa attaccare l’ordine della guerra, costruire una politica transnazionale di pace che disinneschi la spirale di morte, sfruttamento, razzismo e patriarcato che emana dal conflitto in corso. Per noi politica transnazionale di pace non è un negoziato tra Stati o il pretesto per fare opposizione al governo, ma un processo espansivo e autonomo di convergenza transnazionale contro l’ordine della guerra mondiale. È a questa politica che l’Assemblea permanente contro la guerra lavora ormai dall’inizio del conflitto in Ucraina, riconoscendo cioè la necessità di costruire un movimento di massa transnazionale contro la guerra che riconquisti la possibilità di lottare per un futuro senza sfruttamento e oppressione.
Mettere a tema le incognite della convergenza non significa colmare un deficit di rappresentanza di operai, poveri e precarie, che non vanno neanche più a votare, perché in fondo di essere rappresentati non sanno bene che farsene. Convergere per insorgere significa per noi stabilire uno spazio di potere per chi non ha potere, per chi è costretto al lamento perché non c’è spazio per la lotta, per chi “un altro mondo è possibile” è solo un lusso perché la realtà è la realtà e non ha alternative migliori da offrire. Significa intercettare un bisogno di organizzazione che sale dalle insubordinazioni quotidiane, che rischiano di ritrovarsi sole se non sosteniamo la loro convergenza. Una convergenza che non può fare a meno delle differenze che la alimentano, così come non può fare a meno di uno spazio transnazionale necessario al superamento di schemi politici che hanno fatto il loro tempo. Se la manifestazione del 22 ottobre sarà senz’altro un punto di arrivo di un lungo processo di dibattito e di organizzazione, dopo quella data starà a noi affrontare le incognite che lo attraversano per realizzarne il superamento.