A metà strada tra il primo e il secondo turno (che si svolgerà il 30 ottobre) delle elezioni presidenziali in Brasile, pubblichiamo un’analisi della congiuntura politica sviluppata da Homero Santiago, docente all’Università di San Paolo. Dal ragionamento proposto emergono alcuni elementi che oltrepassano i confini brasiliani, e che si inseriscono in un processo di media durata che vede un radicamento sociale dell’estrema destra in America latina (si pensi alla sconfitta in Cile del processo di una nuova costituzione o l’attentato a Cristina Kirchner) e in altri paesi (ad esempio la perdurante presenza di Trump e del trumpismo negli Usa) per certi versi inatteso, o comunque sottovalutato dalle forze di sinistra, ma che a uno sguardo attento poteva essere previsto, come abbiamo già avuto modo di segnalare in un’intervista a Marilena Chaui nel 2018. In particolare, l’odio della classe media brasiliana contro tutto ciò che appare anche vagamente progressista, la moralizzazione del discorso politico da parte delle sempre più presenti chiese pentecostali (che si oppone con violenza alle spinte provenienti dai movimenti sociali e dai gruppi femministi e LGBTQ), gli interessi dell’agrobusiness nello sfruttamento dell’Amazzonia e di altri territori, l’egemonia della violenta retorica bolsonarista nei social media, sono tutti elementi che contribuiscono a orientare una parte rilevante dell’elettorato verso il sostegno di un’alleanza composita tra capitale estrattivo, populismo patriarcale e violenza razzista che, anche nel caso di una vittoria di Lula, renderà molto difficile il governo del paese, e che richiederà un ripensamento radicale della strategia del PT e dei movimenti sociali brasiliani.
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L’ambizione è la madre della delusione. Impossibile non ricordare questa massima di almanacco se si considera, da un punto di vista di sinistra, il risultato della prima tornata delle elezioni generali brasiliane del 2 ottobre. L’aspettativa di una grande ondata rossa è stata seguita da una vittoria di sapore amaro che si è espressa in dispute elettorali più serrate del previsto e rovesciamenti di voti dell’ultimo minuto. Sebbene non sia stato un disastro, questa consapevolezza non porta sollievo allo spirito di coloro che rimangono nella frustrazione e nella paura riguardo al futuro più immediato.
In larga misura alimentata da sondaggi elettorali che si sono rivelati incapaci di rilevare i movimenti degli ultimi giorni di campagna, buona parte della sinistra ha lanciato una sorta di anticipata vendetta contro il bolsonarismo, prevedendo un clamoroso risultato di Luís Inácio Lula da Silva già alla prima tornata (oltre il 50% dei voti validi) e la vittoria dei candidati di Lula in posizioni strategiche nei governi statali e nel Senato, oltre a un ampio numero di seggi nelle legislature federali e statali. Come è evidente, niente di tutto questo è successo. Al contrario, nonostante la vittoria di Lula, con una partecipazione al volto dell’80% dell’elettorato il risultato finale è stato quello di un piccolo margine di differenza rispetto al suo principale avversario, Jair Bolsonaro (48% contro 43%), e di inaspettate sconfitte a livello statale, tra cui spicca quella per l’esecutivo e il Senato nello stato di San Paolo, il più importante della federazione e luogo di nascita del PT (il Partito dei lavoratori).
Lula e Bolsonaro si affronteranno ancora una volta il 30 ottobre e probabilmente (tenendo conto dei sondaggi e dell’enorme sfiducia nei confronti dell’attuale governo) vincerà il candidato di sinistra. La valutazione finale, tuttavia, sarà complessa e aspra, e non potrà sottrarsi ad alcune questioni politiche urgenti nel breve termine e ad altre, la cui approfondita considerazione determinerà, nel medio e lungo termine, gli esiti possibili della sinistra e della lotta contro l’estrema destra.
Anche se sembra un po’ avventato riflettere su un processo ancora in corso, pensiamo che ci siano già elementi sufficienti per formulare alcuni dei problemi posti alla sinistra dalle elezioni del 2 ottobre.
In primo luogo, in caso di vittoria di Lula, la sfida del rapporto con un parlamento eletto per la maggior parte tra le fila di Bolsonaro sarà enorme. In particolare, il bolsonarismo detiene ormai la maggioranza al Senato, che gli consentirà di agire direttamente (attraverso dei meccanismi previsti dalla Costituzione federale) contro il Tribunale Federale Superiore, che negli ultimi anni è servito da freno alla sua avanzata. In Brasile, a causa della fragilità della maggior parte dei partiti, le maggioranze, invece che nascere dalle urne, tendono a formarsi tramite intense trattative post-elettorali. Ora, è difficile scommettere su ampie composizioni tra la parte più ferocemente bolsonarista del legislativo e un eventuale governo Lula.
Altrettanto complessa sarà l’opera di annullamento degli effetti del bolsonarismo nel campo dei diritti sociali e civili, della preservazione dell’ambiente, dei rapporti tra i poteri e le forze armate e forze di polizia e, infine, tra lo Stato e il mercato. Vale la pena ricordare qui l’esempio dello smantellamento degli organi e dei meccanismi di ispezione ambientale negli anni di Bolsonaro – quando il Brasile ha conosciuto i tassi di deforestazione più alti della sua storia e sono stati condonati miliardi di reais di multe per crimini ambientali – con il consenso di una parte importante del settore agropecuario che risponde per quasi la metà della bilancia commerciale brasiliana ed è politicamente e culturalmente dominante in diverse regioni del paese.
La migrazione all’ultimo minuto dei voti di alcuni candidati minori alla presidenza verso Bolsonaro dimostra la persistenza dell’anti-lulismo, dell’opposizione al PT e alla sinistra, che ha preso corpo con l’operazione “Lava-Jato”[1]. L’improvvisa svolta negli stati importanti e l’improvviso aumento del favore elettorale per Bolsonaro contro tutte le previsioni non possono essere spiegati da un incidente; piuttosto, indicano tendenze politiche radicate. Così come non è credibile che tutti gli elettori di Bolsonaro siano bolsonaristi, è molto probabile che, in una feroce disputa elettorale, preferirebbero qualsiasi nome a un presidente di sinistra. Insomma, il bolsonarismo ha mostrato una capillarità, una capacità di parlare a chi non è già suo, che non ci si aspettava.
Le campagne politiche sono state trasferite quasi completamente nel mondo virtuale; uno straniero arrivato in Brasile a metà settembre, basandosi solo sull’atmosfera delle strade difficilmente avrebbe immaginato che fosse in corso una campagna elettorale. Ora, l’abilità bolsonarista nell’universo dei social media è riconosciuta; salvo rare eccezioni, il discorso della sinistra non è ancora riuscito ad adattarsi alle nuove tecnologie. E con ciò arriva un ulteriore problema: quale deve essere la direzione da dare all’adattamento ad esse? Di fronte alla massiccia diffusione di fake news e all’uso intimidatorio dei media praticato dai gruppi bolsonaristi, ad esempio, c’è chi difende l’adozione di meccanismi simili da parte della sinistra (un deputato federale allineato con la campagna di Lula ha addirittura affermato che il bolsonarismo non si sconfigge senza essere un po’ bolsonarista). Ma – ecco il punto cardinale – ha senso agire secondo modelli di comportamento propri del nemico?
Sulla stessa linea, le elezioni di quest’anno, ancor più delle elezioni del 2018 che hanno eletto Bolsonaro per la prima volta, hanno determinato la centralità delle “questioni morali” (o così definite) nel dibattito politico: valori cristiani, patria, famiglia, aborto, corruzione, politica sulle droghe, diritti LGBTQIA+, uguaglianza di genere, ecc. È vero che questo aggiornamento dell’agenda è direttamente legato all’emergere di ampi settori di matrice neo-pentecostale (oggi più o meno un terzo della popolazione brasiliana), ma mostra anche una crescente attenzione dei settori cattolici verso agende più legate ai valori religiosi. Insomma, sembra esserci uno scarto fra le attuale preoccupazioni di più della metà della popolazione e le grandi questioni che hanno scandito il dibattito politico nazionale almeno fino al secondo governo di Dilma Roussef (2015-2016), in particolare il problema del superamento della disuguaglianza strutturale della società brasiliana, da perseguire a ritmi più lenti e con un’azione di mercato predominante (la via socialdemocratica di Fernando Henrique Cardoso), piuttosto che a un ritmo più rapido e attraverso un’azione statale forte (la via del PT). La sinistra sconta ancora un’enorme difficoltà ad adattarsi (e di nuovo si pone il problema del significato di questo adattamento) alle nuove domande.
Molti altri problemi e questioni certo si porranno ancora fino alla fine di quest’anno, con i risultati definitivi delle elezioni generali e il “clima” dei primi mesi successivi, tanto che la vittoria riguardi una parte, quanto che vada all’altra. Però, da un punto di vista politico di sinistra, una conclusione più ampia è già all’orizzonte e sembra inevitabile: ciò che viene chiamato “bolsonarismo” è un fenomeno che va oltre lo stesso Bolsonaro e punta a un’organizzazione di destra ed estrema destra che è riuscita a raccogliere una forza all’interno della società brasiliana – riconfigurata in termini sociali, politici, culturali e religiosi da fattori che sono tuttavia da chiarire – che forse non si vedeva almeno dal 1964, data dell’ultimo colpo di stato militare.
Non è mica un disastro, bisogna continuare a ripetersi; ma l’orizzonte non è dei migliori.
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[1] L’operazione Lava-Jato (autolavaggio) è una inchiesta giudiziaria avviatasi nel 2014 su un enorme giro di tangenti dell’impresa petrolifera Petrobras, che ha coinvolto numerosi personaggi politici, tra i quali lo stesso Lula. Lula è stato dichiarato colpevole e tenuto in carcere dal 2018 fino a pochi mesi fa, quando l’impianto accusatorio è stato smantellato dalla Corte Suprema. Voci insistenti hanno parlato di un’ingerenza degli Usa – interessati a limitare il potere di Petrobras – nella gestione dell’inchiesta.