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Nonostante non affolli più i feed degli smartphone e scivoli tra le notizie di secondo piano nei giornali, la guerra in Ucraina continua e continua a produrre i suoi effetti. Ciò è vero anche se quelli che parlavano di un grande scontro per i valori dell’Occidente, per la salvaguardia dell’Europa, per la difesa ultima della libertà sembrano quasi aver perso interesse per l’invasione russa, per la resistenza ucraina, per le morti e gli stupri quotidiani, per le vessazioni subite dalla popolazione, per le centinaia di migliaia di uomini e soprattutto di donne che hanno scelto o sono state costrette a emigrare. Non si possono giudicare le guerre, immaginando di trovarsi in un’aula di tribunale con la pretesa di stabilire una qualche verità dei fatti e, di conseguenza, chi sono i colpevoli e chi gli innocenti. Se può, chi è attaccato resiste all’invasione e non può essere altrimenti. Ogni resistenza è comunque un fenomeno complicato, popolato da soggetti diversi, spesso anche in contraddizione tra di loro. Discutere in astratto sui modi e sulla legittimità delle resistenze possibili, non aiuta a comprendere la situazione. Nel caso concreto il problema è semmai capire chi paga e pagherà i prezzi dell’orgoglio nazional-patriottico, dell’eroismo coatto, dei pezzi di Stato che condividono l’ideologia dei battaglioni fascistoidi, delle gerarchie sociali, passate e future, che la guerra legittima.
Il dato certo è che gli effetti della guerra si stanno moltiplicando ben al di là del territorio ucraino. La guerra sta diventando una diffusa metastasi che cambia inesorabilmente il regime del salario, le strutture del welfare, le forme della riproduzione, le possibilità di movimento attraverso i confini. Abbiamo chiamato questa metastasi silenziosa Terza guerra mondiale.
Sappiamo che la guerra in Ucraina si colloca all’interno di una sequenza quasi ininterrotta di conflitti armati che da anni e con diversa intensità si stanno combattendo in giro per il mondo. Riconoscere l’importanza della guerra ucraina non dipende dal fatto che con essa la guerra è infine arrivata in Europa. Con le guerre balcaniche la guerra era già arrivata in Europa e negli ultimi decenni gli europei hanno portato decine di guerre in giro per il mondo. Questa guerra però non è confinata e non è confinabile all’Europa. Essa va oltre la classica guerra tra Stati, mostrando piuttosto il limite degli stessi Stati di fronte ai rapporti politici e sociali transnazionali.
Non vogliamo evidentemente negare l’importanza e il pericolo della lotta per l’egemonia su scala globale tra Stati Uniti e Cina, una lotta che si sta per ora dispiegando sul piano finanziario, economico e commerciale, ma che minaccia di diventare in ogni momento qualcosa di molto più letale. Sappiamo che in Siria, in Kurdistan e in Palestina si combattono guerre che dovrebbero riguardare tutti. Così come sappiamo che l’Occidente è un problema materiale perché si sta riconfigurando come alleanza militare, come insieme di valori indiscutibili, come progetto ideologico con la pretesa di esercitare un’egemonia economica e politica su scala mondiale. L’Occidente pretende così di essere ovunque. Siamo consapevoli della natura dispotica del regime di Putin, così come della repressione dispiegata su cui si basa il governo di Erdogan e dell’autoritarismo esercitato in Cina non solo nei confronti delle minoranze etniche o religiose. Sappiamo in definitiva che tutti gli Stati che pretendono un ruolo da protagonisti nella guerra ucraina ne recitano uno di primaria importanza nella produzione e nella diffusione della metastasi che dobbiamo combattere.
Le alleanze che si sono delineate negli ultimi mesi non ci interessano però dal punto di vista delle relazioni internazionali, della mutevole geografia degli accordi e dei trattati. Essi segnalano piuttosto che il mondo si è rotto. Non esiste più un potere egemonico in grado di imporre la propria legge su tutto il pianeta. In questo mondo frantumato non è tanto importante il passaggio da un’egemonia all’altra, ma l’interregno pieno di orrori e possibilità nel quale ci troviamo. In questo mondo senza forma nemmeno la globalizzazione, che pure continua a esistere, riesce a presentarsi come il simulacro di un ordine mondiale. Nessuno Stato e nessuna alleanza hanno dunque il potere di determinare una politica globale. Allo stesso tempo, bisogna essere consapevoli del fatto che nessun territorio ci restituirà la politica che ci manca.
Il problema, dunque, non è prendere posizione dentro la guerra. Non c’è una ragione della guerra. Si può solo prendere posizione contro la guerra. Si tratta di spostare radicalmente la prospettiva, muovendo dalla consapevolezza che nessuno degli Stati belligeranti, semi-belligeranti o neutrali può vincere questa guerra. E in ogni caso le loro vittorie e le loro sconfitte lasceranno sul campo rovine che richiederanno decenni per essere eliminate.
Dentro a questo scenario ci sono ampie porzioni di popolazione povera e proletaria tanto in Europa quanto in Asia e in Africa che di fronte a questa guerra vogliono rimanere neutrali, non vogliono cioè essere obbligate a schierarsi dall’una o dall’altra parte. Questo non significa che non ne verranno in qualche modo investite, ma che proprio per questo sono la base per una politica transnazionale di pace. Questo rifiuto della guerra non è semplicemente il tentativo di rimanere estranei alla sua realtà, ma il rifiuto dei suoi motivi, delle sue forme, delle sue pretese. Trasformare la paura della guerra in un rifiuto attivo, quindi in un movimento che mira a modificare alla radice le condizioni della pace: questo compito non si assolve con richiami generici alla pace e con un pacifismo limitato a se stesso.
Una politica transnazionale di pace deve avere l’ambizione di mettere fine alla produzione di guerra per mezzo della guerra. Quindi parlare di Terza guerra mondiale non è né una formula a effetto né la contabilità ineluttabile di ciò che sta avvenendo. Non si tratta di trovare una definizione migliore o più adeguata alle guerre in corso, ma di individuare e chiarire il campo d’intervento di una politica transnazionale di pace in grado di contrapporsi ai confronti militari e di interromperne il ciclo. Non si tratta nemmeno di trovare una soluzione più o meno equa alla guerra. Questa soluzione non c’è. Quando ci sarà, sarà una soluzione di equilibrio più o meno stabile, più o meno oppressiva.
La politica transnazionale di pace non vuole la pace sociale, non nega cioè la necessità dei conflitti, ma rifiuta che essi assumano come modello la guerra imponendo di doversi schierare con una parte o con l’altra, o magari di cercare un mediatore neutrale che non c’è.
Per questo, la politica transnazionale di pace rifiuta qualsiasi continuità tra guerra e politica, così come rifiuta la continuità più o meno consapevole tra l’ordine sociale e la pace armata tra gli Stati. Essa è un conflitto prodotto e praticato con altri mezzi rispetto alla guerra e, proprio per questo, si oppone alla sua metastasi prima che diventi letale e con la pretesa di estirparla.
È chiaro che ogni interruzione della guerra è la benvenuta, ma è arrivato il momento di pretendere qualcosa di più. Essere pacifisti non significa rivendicare genericamente la pace, ma indicare anche di quali contenuti essa debba essere riempita.
La pace oltre la Terza guerra mondiale deve essere un progetto che permetta di connettere terreni di lotta che già esistono e ai quali abbiamo cominciato a dare un nome condividendo la scrittura del Manifesto per una politica transnazionale di pace. Si possono individuare almeno quattro terreni di lotta in grado di incidere direttamente sulla possibilità stessa della guerra.
Ribellarsi al regime del salario e alle forme della riproduzione, contestare il regime di accumulazione ecologica, rifiutare il dominio patriarcale, l’oppressione delle e dei migranti e la limitazione della libertà di movimento sono tutte politiche attive di pace.
Sono gli unici antidoti alla diffusione di una guerra che non uccide solo chi è coinvolto direttamente, ma tutti coloro che subiscono le conseguenze di un’economia che, se non è di guerra, è pesantemente determinata dalla guerra. Bloccare la metastasi della Terza guerra mondiale significa allora stabilire spazi di comunicazione e di organizzazione della politica transnazionale di pace. Per tutto questo, per cambiare il clima di guerra, saremo al meeting transnazionale organizzato a Sofia dalla Transnational Social Strike Platform e dal collettivo femminista LevFem dall’8 all’11 settembre.