di FELICE MOMETTI
Il terzo tentativo di mettere fuori gioco Trump per via giudiziaria, dopo lo scontato fallimento dei due impeachment precedenti, pare abbia qualche probabilità di riuscita. Altro discorso è il trumpismo: un fenomeno politico-sociale eterogeneo spesso interpretato come coeso e univoco, ma che in realtà è la fotografia più vivida dell’estrema frammentazione della società americana. C’è ancora un l’illusione che basti tagliare la principale testa dell’idra trumpiana per governarla se non addirittura addomesticarla. Un’illusione presente nell’opinione liberal e di larga parte della sinistra, più o meno istituzionale, che ruota nell’orbita del partito Democratico. Negli ultimi mesi, però, si avverte sempre più un cambio di strategia da parte di quell’assemblaggio di poteri politici, economico-finanziari, militari che va sotto il nome di amministrazione Biden. Quell’ibrido di governo-governance che cerca di supplire alla frattura sempre più evidente tra un assetto politico, rappresentativo, e istituzionale dello Stato federale e i processi di valorizzazione del capitalismo contemporaneo americano. Non è un caso che Biden abbia sistematicamente compiuto delle forzature nell’implementazione delle leggi sul finanziamento delle imprese, sulle infrastrutture, sulle spese militari destinate all’Ucraina. Infatti, è in procinto di stabilire un record per numero di ordini esecutivi, memorandum e proclamation. Tutti strumenti, per forma e contenuti di dubbia costituzionalità, usati per bypassare il Congresso.
Il trinomio del potere politico composto da Presidente, Senato e Corte Suprema – ormai non più legittimato da una Costituzione condivisa – è diventato strutturalmente inadeguato a indirizzare l’attuale transizione interna di un modo di produzione e riproduzione come quello americano.
Se Trump non ha fatto e non fa altro, con modi diretti se non brutali, che alimentare – anche per interesse personale – queste contraddizioni non più aggirabili con l’obiettivo di destrutturare lo Stato federale, immaginando un rapporto diretto tra Presidente, apparati dello Stato e Governatori dei singoli Stati, l’Amministrazione Biden si muove in uno scenario opposto. Questo comporta il rafforzamento progressivo dello Stato federale, dei suoi apparati, dei suoi enti economici, finanziari, di ricerca e sviluppo mediante una governance che coinvolga nel funzionamento e nelle decisioni i rappresentanti dei consigli di amministrazione delle grandi corporation. Un processo dagli esiti incerti perché, tra l’altro, richiede una continua ridefinizione dei rapporti, dei poteri e del comando tra Stato e capitale nel corso del suo svolgimento. Tuttavia, è questa la via stretta che si intende percorrere. Per l’Amministrazione Biden l’alternativa di una riforma del sistema rappresentativo, che sta alla base dell’elezione e dei poteri del Presidente e del Congresso, semplicemente non è data per l’inevitabile effetto domino che investirebbe la Costituzione e i rapporti tra istituzioni federali e singoli Stati. Il pericoloso show di Nancy Pelosi a Taiwan, con lo scopo di dare centralità alla Camera dei Rappresentanti nella gestione dell’area strategica per eccellenza dell’Indopacifico, non ha ottenuto risultati apprezzabili perché contrastato a parole e nei fatti sia dal Presidente sia dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato.
Verso nuove catene del valore?
In una lunga intervista a «Foreign Affairs» nel giugno scorso e in un precedente discorso all’Università di Washington, Antony Blinken, Segretario di Stato e per molti anche Presidente-ombra, ha sintetizzato in tre parole l’attuale postura strategica degli Stati Uniti: «Investire, allineare, competere». Nel 2021 gli Stati Uniti sono stati, allo stesso tempo, il principale importatore ed esportatore di capitali. Hanno superato la Cina nell’importazione e hanno esportato più capitali di Cina, Russia, Germania e Francia messe insieme (dati OCSE — aprile ‘22). Il nuovo concetto strategico della Nato approvato nel summit di Madrid prevede, oltre alla proiezione globale della deterrenza e della difesa di un’alleanza non più solo atlantica, il consolidamento del monitoraggio e del controllo da parte delle flotte della marina militare degli Stati Uniti delle rotte commerciali in cui transita più del 80% delle merci scambiate a livello mondiale. Se il mercato mondiale è sempre stato innanzitutto un concetto politico, oggi si deve aggiungere anche il termine militare. E per Blinken competere, con la Cina ma non solo, significa: «plasmare un ambiente strategico» che non permetta molte alternative ad alleati e avversari. Con la pandemia, la guerra e il cambiamento climatico non è più il tempo della ricerca di un’egemonia globale ma di interventi puntuali con un elevato grado di performatività in scenari giudicati strategici.
Questo il Blinken-pensiero e, senza temere di sbagliare di molto, anche della maggioranza dell’Amministrazione Biden.
Tuttavia, affinché sia possibile un «allineamento» nella reattività militare dei paesi che fanno parte della Nato c’è la necessità di rivedere la complessità e la geografia delle catene globali del valore. L’uno non si dà senza le altre e viceversa.
La pandemia ha già mostrato la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento organizzate mediante modelli just in time e to the point. Le catene del valore hanno un grado di complessità maggiore perché attraversano l’intero ciclo delle merci e dei servizi: dalla progettazione al marketing, in un profondo intreccio tra produzione e riproduzione sociale, tra divisione del lavoro e forme di cooperazione, tra sussunzione formale e reale del lavoro al capitale. Accorciare le catene globali del valore con la ricombinazione spaziale e temporale degli elementi e dei processi interni è stata la prima risposta data con scoppio della pandemia. Con una guerra lo scenario è ulteriormente cambiato. È terminata una fase della globalizzazione capitalistica senza che se ne sia aperta una nuova in un contesto segnato da turbolenze transnazionali. E la bussola non si trova nel profluvio delle analisi geopolitiche ma nel guardare, per dirla con Marx, alla produzione sociale dell’esistenza nelle sue forme di sfruttamento e di dominio. Ci stanno pensando, dal loro punto di vista e per i propri interessi, alcuni think tank americani (dalla redazione di «The Atlantic» al Center for Strategic and International Studies): «allineare» l’Occidente significa intervenire nella produzione e nella riproduzione sociale. Tutto ciò dovrebbe porci una domanda: che grado di conoscenza del capitalismo contemporaneo ancora producono le teorie su imperialismi e imperi che ci hanno accompagnato nell’ultimo secolo?
La governance del general intellect
È stata chiamata Chips and Science Act la legge che Biden ha firmato il 9 agosto scorso. Sono 280 miliardi di dollari e 1054 pagine. Una cinquantina di miliardi sono stanziati per riorganizzare le catene di approvvigionamento e del valore, escludendo la Cina, dell’industria dei semiconduttori: le componenti fondamentali di qualsiasi dispositivo elettronico necessario a far funzionare – per fare solo alcuni esempi – automobili, computer, armi e sistemi d’arma. Il resto dei miliardi di dollari è destinato a indirizzare, sostenere e incentivare i processi di valorizzare di quel sapere sociale generale che, seguendo Marx, è diventato forza produttiva immediata. Le agenzie che gestiranno i fondi, stabilendo i criteri di assunzione e formazione della forza-lavoro, definendo le strategie con una governance flessibile, sono la National Science Foundation (NSF), il National Institute of Standards and Technology (NIST) e il Dipartimento dell’Energia. La NSF e il NIST sono composte da imprese, istituzioni, università e società finanziare e un Dipartimento del governo, con lo Stato federale che svolge – in ultima istanza – un ruolo di raccordo, una sorta di piattaforma di sviluppo e supporto per finanziamenti, servizi e sicurezza. L’obiettivo della legge è mettere al lavoro un sapere sociale STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) anche per diffonderlo e formarne dell’altro. Negli Stati Uniti c’è una forte concentrazione del general intellect in pochi cluster urbani: Silicon Valley, New York, Boston, Seattle. Con l’azione congiunta delle agenzie si prevede l’apertura di una ventina di hub – in zone che ne sono sprovviste – di «ricerca traslazionale», cioè la trasformazione della ricerca di base in tecnologia applicata, progettando un’infrastruttura connessa a sistemi di comunicazione quantistica. La legge apre a diverse iniziative di finanziamento e supporto del sapere sociale presente nelle comunità afroamericane e latine, nelle organizzazioni no-profit, incoraggiando la partecipazione femminile e la creazione di partenariati tra laboratori di ricerca e studenti, tra imprese ed enti governativi nel campo delle energie non fossili.
Il Chips and Science Act è, dopo la legge sulle infrastrutture dello scorso anno, il secondo passo di una transizione – verso nuovi processi di valorizzazione del capitale – avviata dall’Amministrazione Biden.
Come e quanto tutto ciò verrà implementato nei processi di produzione e riproduzione sociale dipenderà molto dai conflitti sociali che potranno nascere e dall’affermazione di soggettività che non si percepiscono come uno dei semplici portatori di interesse nel quadro della governance data.
Il sindacato fortezza
Come stanno reagendo i principali sindacati americani alla riorganizzazione delle catene globali del valore e più in generale all’apertura di una transizione interna al modo di produzione? In base ai dati del Census Bureau e a studi come Labor’s Fortress of Finance di Chris Bohner, prosegue la diminuzione degli iscritti ai sindacati nonostante un aumento del 57% delle richieste di nuova sindacalizzazione e aumenta invece il patrimonio finanziario e immobiliare dei principali sindacati. Un patrimonio arrivato nel 2021 a 48 miliardi di dollari con un incremento del 28% in dieci anni. Se i sindacati fossero una fondazione sarebbero la seconda fondazione degli Stati Uniti dietro quella di Bill Gates. Nel 2013 fu coniato il termine Fortress Unionism riferendosi alla teoria – molto diffusa tra i funzionari sindacali – che sosteneva la difesa delle roccaforti sindacali esistenti evitando il conflitto in settori poco o nulla sindacalizzati, in attesa di iniziative istituzionali e legislative a proprio favore. Il costo dell’iscrizione ai sindacati è mediamente aumentato del 20% in due anni e la gestione dei patrimoni finanziari sindacali è affidata società come BlackRock e Vanguard. Sono ormai decine di migliaia i funzionari sindacali che hanno un reddito annuo superiore ai 125 mila dollari.
I sindacati sono passati dall’attestarsi nelle fortezze dei luoghi di lavoro al ripararsi nelle fortezze finanziarie. Si spiega anche in questo modo perché nelle centinaia di luoghi di lavoro di Starbucks, Amazon, Apple, Trader’s Joe dove, nell’ultimo anno, sono state vinte le elezioni sindacali, queste sono state conquistate con la mobilitazione di collettivi e nuovi sindacati autorganizzati. Tuttavia, c’è un’altra questione di fondo che sindacati non sono strutturalmente in grado di affrontare:
l’articolazione di una composizione di classe che si sta affermando, l’eterogeneità dei suoi comportamenti sociali, delle sue relazioni con un assetto metropolitano, delle forme del conflitto e dei processi di soggettivazione sono estranee se non in opposizione alle strategie politiche e finanziarie dei principali sindacati.
Rimane da capire quali strade prenderà e come si organizzerà questa pluralità di soggetti non compatibili con le transizioni capitaliste e i sindacati fortezza.