di MATILDE CIOLLI
La guerra in corso da ormai cinque mesi non si riverbera solo nei paesi limitrofi alla Russia e all’Ucraina, ma sta producendo effetti pienamente globali. Esacerbando brutalmente le crisi prodotte dalla pandemia e dal cambiamento climatico, questa terza guerra mondiale ha sconvolto i mercati alimentari, energetici e finanziari, portando ad aumenti esponenziali dei prezzi degli alimenti, del petrolio e del gas e mettendo in ginocchio le economie di paesi più e meno vicini ai territori del conflitto. In Argentina, in particolare, la guerra certamente non ha posto le basi della crisi economica galoppante, ma ha dato un forte contributo alla sua deflagrazione. Nel solo mese di luglio l’inflazione è aumentata del 7% e si stima che arriverà facilmente a una crescita del 70% nel corso dell’anno: si tratta del tasso più alto raggiunto dai tempi del primo governo democratico post-dittatura e di un indice nettamente superiore a quello degli altri paesi latino-americani, che si aggira mediamente intorno al 10%. Di questi 70 punti complessivi, 15 si devono proprio agli effetti dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Il divario fra il dollar blue, il cambio che si acquista e vende fuori dal circuito formale, e il tasso di cambio mayorista, cioè quello utilizzato nelle grandi operazioni economiche da grandi imprese e dalle banche, è già attorno al 160%. L’inarrestabile aumento della povertà, della disoccupazione e dello sfruttamento ne è l’esito più immediatamente tangibile.
Il caos finanziario e inflazionario argentino ha però registrato nell’ultimo mese una grossa impennata anche per via della politica interna. Mancando dell’appoggio della fazione kirchnerista del suo partito a causa delle scelte pro-mercato fatte nella negoziazione del debito con il Fondo Monetario Internazionale, il 2 luglio il Ministro dell’Economia, Martín Guzmán, ha dato le dimissioni. Al suo posto, con un’insolita sintonia fra il presidente, Alberto Fernandez, e la vicepresidente, Cristina Kirchner, è stata nominata Silvina Batakis, politica con una lunga esperienza nel peronismo e con un approccio economico, si pensava, più eterodosso. Già lunedì 11 luglio, però, Batakis ha tempestivamente smentito ogni illusione su un cambio di rotta rispetto al Ministro uscente. Tra la guerra che non dà segni di tregua, la corrida cambiaria, il dissolvimento del potere d’acquisto dei salari, il debito nazionale e gli effetti economici della pandemia, la Ministra ha dichiarato di non poter far altro che cercare di garantire l’equilibrio fiscale del paese. Ha quindi affermato di voler concentrare la cassa statale nelle mani del Ministero dell’economia, tagliando le spese all’amministrazione pubblica e aumentando del 40% i prezzi dei trasporti nell’area metropolitana di Buenos Aires. In quest’ottica, ha subito giurato fedeltà all’accordo con il FMI per ripagare il debito di 44 milioni di dollari contratto nel 2018, rispettando il cronogramma imposto e congelando, di conseguenza, gli impieghi nel settore pubblico fino alla fine del 2023. Questo fine settimana, dalla Casa Rosada è stata annunciata una serie di misure monetarie e valutarie che saranno rese pubbliche nei prossimi giorni, mentre Batakis è atterrata negli Stati Uniti per incontrare la titolare del FMI, Kristalina Georgieva, insieme ad analisti di Wall Street, imprenditori nordamericani con investimenti in Argentina e rappresentanti di Google, Amazon e General Motors. Insomma, il mercato prima di tutto. L’ajuste che si prospetta non ha, quindi, niente di eterodosso. La tenuta politica del governo nel mezzo di questa tempesta economica e finanziaria ha spinto Batakis a optare per un’austerità tanto severa da portare vari critici a paragonarla a Domingo Cavallo, uno dei volti più rilevanti nella storia del neoliberalismo argentino.
La destra, nel frattempo, sta a guardare con una certa soddisfazione: senza neanche doversi fare nemici, si trova già svolto il lavoro sporco, ottenendo da esso vantaggi per imprenditori e detentori di grandi capitali. Con ghigno compiaciuto si permette di storcere il naso di fronte a qualsiasi possibile accordo con il peronismo, convinta di spianarsi la strada per le prossime elezioni. Le ultime sentenze della Corte Suprema argentina hanno mostrato, del resto, che in essa risiede un bastione inossidabile del macrismo, disposto a fare carte false per celare gli illeciti dell’ex presidente e dei suoi ministri e, dunque, a coprire loro le spalle mentre il peronismo perde consensi. Se fino ad ora Alberto e Cristina avevano giocato ruoli opposti – il primo dava priorità all’accordo con il Fondo, la seconda promuoveva l’aumento della spesa pubblica per incrementare il consumo – in questa fase il kirchnerismo si trova in un vicolo cieco e infatti, per lo più, tace. Il suo portato progressista si sta dissolvendo all’interno di un governo che non ha il potere politico per sottrarsi alle leggi ferree del FMI e che è, quindi, costretto a implementare politiche che danneggiano la sua base elettorale e militante. Se, infatti, fino al mese scorso sembrava che solo l’opposizione socialista alzasse la voce con mobilitazioni che non riuscivano a riempire plaza de Mayo, da un paio di settimane anche i movimenti sociali, associazioni, organizzazioni piqueteras, alleati del partito di governo hanno preso le distanze dal Frente de todos dichiarando che la crisi economica è arrivata al suo limite: no da para mas, no hay mas tiempo, si inizia a urlare nelle piazze.
Le dimissioni di Guzmán e le prime dichiarazioni di Batakis hanno prodotto una grossa accelerazione nell’organizzazione di una risposta sociale alla politica economica del governo, alla subordinazione totale al FMI e ai tagli alle politiche sociali. Mercoledì 13 luglio, l’insofferenza diffusa soprattutto nei quartieri popolari ha portato a una grande partecipazione a più di 400 assemblee convocate in contemporanea in tutto il paese. A Buenos Aires i movimenti sociali alleati al governo – il Frente Patria Grande, la Union de Trabajadores de la Economia Popular, Movimiento de Trabajadores Excluidos – hanno chiamato un’assemblea nella hall della stazione di Constitución, cui hanno partecipato circa 5000 persone. Addirittura, in maniera piuttosto inedita, si sono uniti esponenti del Polo Obrero, appartenenti all’opposizione socialista e piquetera, dando voce tanto alla comune critica della priorità data mercato dal governo, quanto alla necessità di politiche che facciano fronte a una povertà sempre più insostenibile. In questa fase 7 milioni di persone lavorano informalmente in Argentina e le loro entrate hanno perso il 34% del potere d’acquisto. Le file per ottenere un piatto nei comidores populares si allungano e la quantità di persone che non sanno come arrivare a fine mese e come pagare l’affitto, la luce e il gas, è in costante aumento. Il problema fondamentale è in questo momento la brutale svalutazione dei salari, totalmente incapaci di adeguarsi all’aumento dei prezzi. La chiamata a una mobilitazione e al blocco delle strade principali del paese per il 20 di luglio ha, infatti, adottato come rivendicazione principale quella di un salario basico universal, una prestazione monetaria non contributiva che permetta ai lavoratori precari formali, informali, alle lavoratrici domestiche, ai lavoratori e alle lavoratrici dell’economia popolare e ai pensionati di non vivere al di sotto della soglia di povertà e di non essere gerarchizzati attraverso piani sociali differenziati.
La proposta, esito di un dibattito fra i movimenti sociali iniziato già durante la pandemia, era stata portata in Senato dai deputati del Frente Patria Grande, appoggiata dalla Campora e sostenuta da Cristina in quanto diritto «per il quale non bisogna chiedere per favore a nessuno». Mentre Batakis e Fernandez non hanno mostrato nessuna apertura e la senatrice kirchnerista Juliana di Tullio sta preparando una proposta alternativa, più restrittiva, i movimenti sociali ne hanno fatto la parola d’ordine delle manifestazioni della settimana scorsa, insieme all’aumento dei salari, delle pensioni e al pagamento della tredicesima che i destinatari del Plan Potenciar Trabajo non hanno mai ricevuto. Se il capo del governo della città di Buenos Aires, Horacio Larreta, il giorno prima della mobilitazione nazionale ha espresso l’urgenza di sottrarre alle organizzazioni sociali la gestione dei piani sociali, il presidente ha provato a sminuire, con evidente fastidio per l’infedeltà dimostrata, il portato politico dell’insubordinazione dell’ala sociale del governo.
Dal palco del Puente Pueyrredon – luogo del principale concentramento di Buenos Aires, occupato in simultanea a blocchi in altri 50 punti del paese – diversi referenti di varie organizzazioni sociali interne al governo non hanno esitato a schierarsi dalla parte delle proprie basi sociali e ad annunciare la volontà di mobilitarsi fino ad ottenere quanto preteso. Il movimento femminista, in particolare quello mobilitato dalle organizzazioni della sinistra peronista e del feminismo popular, ha colto l’occasione per sfidare il neutro universale del salario basico e dare specificità alle condizioni materiali delle donne in questa crisi, affermando, allo stesso tempo, che il femminismo è un irrinunciabile volano per le altre lotte. Ricorrendo al vocabolario collettivo assunto negli ultimi anni dal movimento dello sciopero, le donne devono farsi promotrici – come è stato detto a più riprese nell’assemblea organizzata il 16 luglio – di un linguaggio e di una postura politica che non sia meramente difensiva, ma che rivendichi condizioni migliori di vita, dovute, non concesse. Il salario basico è stato politicizzato dalle donne in quanto strumento per far fronte all’estrema precarizzazione di cui sono protagoniste, per colmare minimamente la disoccupazione e remunerare lavori già svolti ma non riconosciuti: il lavoro domestico, spesso reso totalizzante da famiglie numerose, dall’assenza di un marito e di un padre, dall’assenza di un’entrata da lavoro salariato; il lavoro e il tempo speso nei comidores populares, di questi tempi sempre più centrali per garantire la riproduzione minima di interi quartieri popolari. Ma il salario basico è anche un importante contributo per consentire alle donne che subiscono violenza domestica di sottrarvisi, poiché garantisce loro una pur minima autonomia economica. Questa rivendicazione, tuttavia, non esaurisce il problema e gli obiettivi della lotta. Non solo perché il suo valore diminuisce rapidamente se non accompagnato da altre misure, ma anche perché deve essere affiancato alla pretesa di servizi pubblici che permettano alle donne di rompere un’organizzazione domestica e urbana basata sulla divisione sessuale del lavoro.
La situazione è estremamente critica: nelle casse dello Stato di soldi per politiche sociali al momento non ce ne sono. Il rischio della caduta del governo e del sopravvento di Juntos por el Cambio, il principale partito della destra argentina, rende il quadro ancora più teso. Se ovunque l’inflazione, l’aumento dei prezzi e la svalutazione dei salari prodotti dalla guerra stanno impoverendo milioni di persone, in Argentina, come sul piano transnazionale, c’è bisogno di nuove strategie di lotta politica e sociale. Il deterioramento delle condizioni di vita di grosse fette della popolazione – soprattutto donne, migranti, lavoratori e lavoratrici informali – non sta, però, lasciando spazio al silenzio. La partita contro l’ajuste e, quindi, contro la povertà, lo sfruttamento, la fame e la violenza come unica ricetta possibile, si giocherà nelle prossime settimane. Se mai verranno concesse deroghe dal FMI, lo si dovrà al disordine prodotto dai movimenti sociali, che si stanno in questo momento coordinando per organizzare una grande mobilitazione ad agosto congiunta con i sindacati, ormai impossibilitati a tacere di fronte alle pretese delle proprie basi.