di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM*
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Dopo le interviste a Jeremy Brecher (Stati Uniti), Ida Dominijanni (Italia), Sasha del Feminist Anti-War Movement (Russia) e Ranabir Samaddar (India), pubblichiamo l’intervista a Cinzia Arruzza ‒ docente di filosofia alla New School for Social Research di New York ‒ e Tithi Bhattacharya – che insegna storia dell’Asia meridionale alla Purdue University. Autrici insieme a Nancy Fraser di Femminismo per il 99%. Un Manifesto (2019), Cinzia e Tithi danno il loro contributo al dibattito aperto dalla Transnational Social Strike Platform su cosa significa una “politica transnazionale di pace” a partire da una prospettiva femminista impegnata a pensare la lotta di classe fuori da ogni ortodossia. Dalle loro parole nasce un’analisi della guerra in Ucraina e dei suoi effetti che mostra l’articolazione tra il livello dei rapporti geopolitici e quello dei rapporti sociali di produzione e riproduzione, e che dall’esperienza dello sciopero globale femminista riprende l’urgenza di una politica di solidarietà capace di indicare un orizzonte universale di liberazione a partire dalle diverse condizioni in cui vivono le donne lavoratrici, le persone Lgbtq+ e i migranti sui fronti di guerra e in ogni parte del mondo.
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L’ambizione di una ‘politica transnazionale di pace’ è qualcosa di più della solidarietà internazionale. Questa formula contiene un appello a costruire connessioni transnazionali attraverso cui, oltre a esprimere un ‘no alla guerra’, contestare gli effetti della guerra sulle condizioni di vita e di lavoro di milioni di uomini e donne, persone LGBTQIA+, lavoratori, poveri, migranti e non, anche oltre i confini di Russia e Ucraina. Pensi che questo appello sia realistico, o pensi che dovremmo dare priorità a trovare una posizione dentro la riconfigurazione del quadro geopolitico?
Cinzia Arruzza: Dipende da cosa si intende per quadro geopolitico di analisi. Nelle ultime settimane, quella che è passata come geopolitica molto spesso ha fatto astrazione da un’analisi dei rapporti di produzione e sfruttamento, concentrandosi su aspetti che hanno a che fare con la mera egemonia territoriale. Ho persino sentito analisi geopolitiche proporre visioni essenzialistiche circa la “natura” delle diverse nazioni e dei diversi popoli. Dovremmo stare lontane da questo tipo di “analisi”. Allo stesso tempo, non credo che sia possibile costruire una politica transnazionale di pace dal basso senza articolare un’analisi dei rapporti di potere e di come questi si stanno modificando attraverso la guerra in Ucraina. Quest’analisi dovrebbe essere fondata su quella dei rapporti di produzione: cosa sta succedendo dal punto di vista della riconfigurazione delle catene del valore, del rafforzamento del potere dei governi di controllare la forza lavoro con tutte le sue differenze, o della ridefinizione dell’oppressione e dello sfruttamento. Dobbiamo affrontare il problema del potere statale, a livello sia nazionale sia transnazionale. Il problema è come farlo. Per avere questo tipo di macroanalisi bisogna assumere il punto di vista epistemico di chi subisce oppressione e sfruttamento.
Tithi Bhattacharya: Hai posto la domanda su come possiamo pensare alle battaglie geopolitiche tra le nazioni in relazione alla lotta di classe, privilegiando quest’ultima. Da quando è iniziata la guerra, ho iniziato a rileggere Lenin. Egli vede le lotte contro l’oppressione nazionalista ‒ nel nostro caso, la resistenza in Ucraina ‒ come possibile terreno di prova per la lotta di classe. È una posizione molto diversa da quella di figure come Rosa Luxemburg e Nicolai Bukharin in termini di sostegno al diritto all’autodeterminazione delle nazioni oppresse. Mi sembra opportuno citarlo adesso, perché si riferisce anche ad alcune delle battaglie che Cinzia e io abbiamo combattuto contro i marxisti ortodossi su come definire la lotta di classe: «la rivoluzione socialista può scoppiare non solo attraverso grandi scioperi, manifestazioni di piazza o rivolte della fame, o insurrezioni militari o rivolte coloniali, ma anche come risultato di una crisi politica come il caso Dreyfus, o» – e questa è la parte importante – «in relazione al referendum per la secessione di una nazione oppressa». Lenin qui sta seguendo le orme di Marx che guardava alle lotte in Irlanda, alle lotte dei neri negli Stati Uniti, e ai collettivi contadini in Russia per parlare del perché le lotte anticoloniali possono talvolta avere il primato sulle idee convenzionali di lotte di classe che la gente immagina solo nei luoghi di produzione o nei centri del capitalismo avanzato. Penso che la lotta di classe e la lotta antimperialista siano integralmente connesse. Nel caso russo questo significa, come dice Lenin, che la classe operaia del paese oppressore non si limita a dire che è a favore della solidarietà internazionale o della pace, perché questi sono, secondo Lenin, slogan astratti. Ciò che la classe operaia della nazione che opprime deve dire è che essa sta proprio dalla parte della liberazione della nazione oppressa. Così, in questo caso, la classe operaia russa e il movimento contro la guerra devono impegnarsi per l’indipendenza assoluta dell’Ucraina, non solo per un’idea astratta di pace. Per l’Ucraina e per il resto di noi si tratta di sostenere il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina, non semplicemente perché crediamo negli Stati nazionali (anche se nel caso di una nazione oppressa possiamo farlo, così come crediamo nel diritto dei palestinesi ad avere il loro Stato nazionale), ma perché crediamo che c’è la possibilità che una lotta anticoloniale diventi una lotta per uno stadio superiore di liberazione. La questione dell’imperialismo è comunque molto importante, non solo per le ambizioni imperiali di Russia e Cina, e per le ciniche aspettative della NATO su questo conflitto per espandere la sua sfera di influenza. Stiamo assistendo a un replay dello sciovinismo della Grande Russia e non è un caso che la persona che Putin incolpa esplicitamente per aver dato all’Ucraina tutte queste idee fantasiose di indipendenza nazionale e libertà sia Lenin. La nostra opposizione all’aggressione russa deve essere prioritaria, ma la questione dell’imperialismo e del ruolo della NATO e degli USA diventa importante sotto due aspetti: in primo luogo, in termini di precedenti storici. Dire che la NATO e gli USA non hanno alcun ruolo in questa storia è come dire che l’imperialismo britannico non ha avuto nulla a che fare con le ambizioni tedesche nella prima parte del XX secolo. Quello che abbiamo davanti ora è un tentativo di riconfigurare le dinamiche di potere mondiali dopo la Guerra Fredda, con nuove potenze come Putin e Xi Jinping che vogliono, per così dire, il loro posto al sole. La NATO e gli Stati Uniti stanno sfruttando questa opportunità, sulla pelle degli ucraini, per spacciarsi come artefici di pace. Sentire gli stessi Stati che hanno ucciso milioni di persone in Medio Oriente parlare di genocidi è pura ipocrisia. Anche in termini pratici potrebbero fare molto di più: per esempio aprire le frontiere, offrire asilo e risorse non solo ai rifugiati ucraini, ma anche ai rifugiati dallo Yemen ecc. Tutto questo è in loro potere ma non l’hanno fatto, aumentando così le instabilità di questo ordine mondiale.
Gli Stati europei e gli Stati Uniti si stanno presentando come i campioni dell’internazionalismo democratico contro l’avanzata dell’autoritarismo di Putin. Ciò sembra mettere in secondo piano la violenza del regime europeo dei confini nonché gli effetti devastanti delle politiche neoliberali, visibili specialmente in Europa centrale e orientale. Invece che indicare un impegno all’allargamento dei diritti civili e sociali, l’appello dei governi occidentali ai valori democratici è strumentale all’inasprimento della logica bellica dei fronti contrapposti. Una politica transnazionale di pace non può esaurirsi nella pur necessaria richiesta di farla finita con le ostilità, o nell’appello alla democrazia. Come si può articolare un discorso che faccia i conti con queste contraddizioni dentro e oltre la guerra?
CA: I semplici riferimenti alla democrazia corrono il rischio di produrre un allineamento con i nuovi processi di consolidamento del patto transatlantico. A livello ideologico questo patto viene presentato, ancora una volta, come l’alleanza del mondo democratico occidentale libero per liberare il resto del mondo dall’autocrazia. Questo tipo di ideologia imperiale è riproposta da gran parte dei media liberali negli Stati Uniti. Alcuni degli slogan della propaganda sono molto simili a quelli che abbiamo sentito vent’anni fa in preparazione dell’attacco all’Afghanistan e all’Iraq, ma con una differenza: in questo caso il progetto è quello di un blocco multilaterale, multipolare, incentrato sulla riconfigurazione del patto transatlantico. Ma alcuni aspetti ideologici sono molto simili a quelli che il partito repubblicano e gran parte di quello democratico negli Stati Uniti proponevano vent’anni fa. E abbiamo visto qual è stato il risultato di questo progetto di liberazione da parte dei campioni della democrazia: la devastazione del Medio Oriente. Non possiamo appellarci solo alla democrazia e dobbiamo realmente respingere ogni tentativo di inquadrare ciò che sta accadendo come un ennesimo scontro di civiltà, con qualche riproposizione dell’ideologia della guerra fredda. Per costruire una politica transnazionale di pace, il nostro compito è la completa autonomia politica da entrambi i progetti imperialisti – impari – che si affrontano oggi. Questo significa, da un lato, smettere di vedere la Russia come semplice vittima dell’imperialismo occidentale e dell’espansione della NATO, e aprire gli occhi su quella che è stata la politica di Putin nel corso degli anni, dall’intervento in Siria al recente intervento in Bielorussia e Kazakistan, dove è stato chiamato dai rispettivi governi per reprimere le lotte sociali e operaie. Dobbiamo iniziare a riconoscere la politica imperialista della Russia di Putin, che è un progetto di controllo regionale limitato, basato sul crollo di qualsiasi tipo di lotta sociale e di classe. Insisto su questo perché abbiamo ancora tra le fila della sinistra quelli che negli Stati Uniti chiamiamo tankies, i nostalgici dell’era stalinista che vedono in Putin un araldo del socialismo contro l’imperialismo. Al di là dei tankies, c’è anche una diffusa tendenza a vedere Putin come una semplice vittima dell’espansione della NATO. La situazione è molto più complicata di così: dobbiamo iniziare a parlare del progetto autonomo di dominio di classe e regionale di Putin e degli oligarchi russi. D’altra parte, dobbiamo rifiutare il nuovo progetto imperialista degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che ancora una volta si presentano come i liberatori del mondo libero. Continuare ad assumere il punto di vista della lotta di classe significa precisamente mantenere la capacità di non allinearci a nessun progetto capitalista in gioco al momento, di mantenere una forma di autonomia politica radicale nelle nostre analisi e proposte. Se non facciamo questo, le conseguenze politiche per la sinistra nei prossimi anni saranno molto gravi.
TB: spacchettiamo la questione della democrazia. In questo momento, sotto Biden in America, godo di alcune libertà democratiche di cui probabilmente non godrei nell’India di Modi, il mio paese d’origine. Attualmente musulmani e dalit vengono attaccati e attaccate apertamente in India e ogni giorno vengono fatte nuove leggi per diminuire i loro diritti di cittadinanza. Ma qual è la storia di questa “libertà” di cui io godo negli Stati Uniti? Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la maggior parte dell’Europa occidentale godono di questa stabilità democratica proprio a causa della loro precedente storia di saccheggio imperialista e di violenza che ha permesso loro di accumulare enormi ricchezze che a loro volta permettono un certo livello di stabilità in termini politici formali. Ma il capitalismo avanzato non è stabilità. La spinta all’accumulazione porta con sé l’instabilità interna, che porta a una maggiore estensione imperiale al di fuori di questi cosiddetti confini democratici, così come una costante e crescente espropriazione del lavoro all’interno di quei confini. È vero che i fascisti non vengono a bussarti alla porta di casa come succede ad alcune amiche femministe in India, ma negli Stati Uniti ci sono più persone in prigione che in India e la popolazione carceraria dei neri è più alta che ai tempi della schiavitù. In secondo luogo, per rispondere al riferimento di Cinzia ai tankies, una parte del motivo per cui esistono in posti come l’India e la Palestina è perché se dici a gente del Sud globale, come me, che gli USA sono una bandiera di democrazia, questo suona assurdo, perché sono esattamente il potere che è stato alla base del nostro sfruttamento a partire dal dopoguerra. Un milione di persone sono state uccise in Iraq da questo potere democratico, e 500.000 erano bambini. Allora, però, la gente di questi paesi crede che il nemico del mio nemico debba essere mio amico. Le popolazioni del Sud globale pensano che Putin sia loro amico credendo che stia combattendo l’imperialismo occidentale, e questo significa per loro che sta dalla parte degli oppressi e dei poveri. Il nostro compito è di mostrare che sta con gli oligarchi. La sinistra ha bisogno di essere indipendente per portare avanti questo argomento, indipendente da entrambi i campi. Allo stesso modo, possiamo mettere il fucile sulla spalla di Zelensky mentre spariamo a Putin, ma non possiamo mai pensare a Zelensky come nostro amico. Zelensky ha detto molto chiaramente negli ultimi tempi che vuole che l’Ucraina del dopoguerra sia come Israele. Questo è il suo modello. Non è nemmeno un eroe anti-imperialista. Il nostro compito, ancora una volta, è di tornare alla resistenza reale sul terreno in Russia e in Ucraina, e di costruire un autentico movimento contro la guerra. Non è compito della sinistra dire chi deve fornire armi a chi. La sinistra può fare il suo lavoro spostando l’attenzione da questo problema al terreno su cui abbiamo un certo potere: il che significa lottare per l’apertura delle frontiere e costringere i nostri stati ad accogliere i rifugiati.
La guerra in Ucraina è una guerra patriarcale in quanto riafferma, attraverso le bombe, tutte le gerarchie che abbiamo contestato. Gli uomini sono costretti a essere soldati e a dimostrare combattendo quanto siano ‘maschi’ e patriottici. Le donne trans non possono lasciare l’Ucraina perché i soldati al confine le identificano come maschi. Le donne sono trattate come deboli e impotenti, come oggetto di protezione, mentre le centinaia di migliaia di migranti che lasciano l’Ucraina saranno impiegate come forza lavoro dequalificata nei settori essenziali o nel lavoro domestico. In che modo pensi che una politica transnazionale di pace possa sfidare le gerarchie patriarcali e sessuali che la guerra sta rafforzando?
CA: Vorrei iniziare dalla questione dei rifugiati. Naturalmente, c’è un trattamento differenziato tra rifugiati ucraini e rifugiati dall’Ucraina che non sono ucraini, e ci sono state critiche provenienti dalla sinistra antirazzista sul modo diverso in cui i paesi occidentali, e l’Europa in particolare, ora sembrano essere aperti ad accogliere i rifugiati ucraini, mentre la stessa apertura non c’è stata per i rifugiati siriani o per i rifugiati dal continente africano. Questa critica è corretta se guardiamo a livello di discorso: la bianchezza gioca un ruolo nel modo in cui i media, per esempio, stanno affrontando la questione dei rifugiati ucraini. C’è un pericolo in questa critica, però. Perché rischia di offuscare la razzializzazione della classe operaia ucraina nei paesi dell’Europa occidentale. I lavoratori e le lavoratrici provenienti dall’Ucraina – parlo per esempio delle centinaia di migliaia di donne che lavorano come badanti in Italia – sono lavoratori razzializzati, anche se sono bianchi: sono sfruttati, emarginati, sono legati loro i diritti di cittadinanza e legati allo status di migranti. Bisogna quindi saper distinguere tra ciò che accade a livello discorsivo e ideologico, e la realtà materiale della situazione. Per quanto riguarda la guerra patriarcale, sono d’accordo che la guerra rafforza fondamentalmente gli elementi patriarcali, per esempio, attraverso la divisione tra combattenti maschi e vittime femmine da proteggere. Nelle situazioni in cui era possibile, per esempio in Kurdistan, è stato fatto un lavoro molto importante per evitare che la guerra o la resistenza armata si traducesse automaticamente in un meccanismo patriarcale o sessista e misogino, e questo naturalmente è stato possibile grazie al protagonismo delle donne curde combattenti all’interno di un progetto politico più ampio, che andava oltre l’autodifesa militare. In Ucraina non ci sono le condizioni per questo, e questo ha delle conseguenze dal punto di vista del rafforzamento dei ruoli sessisti di genere. Il problema è anche più ampio di quello che succede sul fronte di guerra, guardate per esempio cosa sta succedendo alle donne ucraine rifugiate in paesi come la Polonia. Ci sono centinaia di donne ucraine che cercano di abortire in Polonia, un paese “democratico” che ha tra le leggi più restrittive sull’aborto in Europa, e le autorità polacche stanno ovviamente negando l’accesso all’aborto ai rifugiati ucraini, anche alle donne che sono state violentate dai soldati russi. È importante sottolineare questo punto anche per sfidare ancora una volta il mito del mondo libero occidentale. La “libera” Polonia persegue le attiviste dei gruppi per i diritti all’aborto… Per riassumere, possiamo identificare tre elementi fondamentali dell’oppressione di genere: la riproposizione dei ruoli di genere con le donne inquadrate ancora una volta come vittime piuttosto che agenti autonomi, l’iper-sfruttamento delle lavoratrici ucraine e delle lavoratrici della cura nei paesi dell’Europa occidentale, e il problema dei diritti riproduttivi che sono negati alle rifugiate ucraine in paesi come la Polonia.
TB: per quanto riguarda la razzializzazione degli e delle ucraine, mi sembra importante sottolineare il fatto che i media europei fanno riferimento alla bianchezza e alla cristianità dei rifugiati ucraini per dimostrare che sono “meritevoli”. Dobbiamo però anche sottolineare che questa è una guerra che permette alla NATO di “ripulire” la sua immagine. Uso la parola “ripulire” a ragion veduta, perché ciò che sta accadendo è molto diverso da ciò che gli Stati sostengono. Da un lato gli ucraini vengono sì accolti, ma una volta in Europa occidentale, come avete sottolineato, ricoprono i posti di lavoro maggiormente sfruttati. La questione dei rifugiati viene usata ora per irrigidire il regime dei confini. Guardiamo il Regno Unito. Boris Johnson ha detto che i rifugiati che vogliono venire in Gran Bretagna saranno mandati in Ruanda, perché il governo britannico ha pagato al Ruanda milioni di sterline per costruire lì dei campi per migranti. È l’instabilità della guerra che sta permettendo agli Stati capitalisti di far passare politiche sull’immigrazione e sui rifugiati che forse sarebbe stato più difficile far passare in tempo di pace. Quindi, di nuovo, invece di concentrare la nostra attenzione su chi fornisce armi a chi, dobbiamo tornare a concentrarci su ciò su cui possiamo avere un effetto, cioè le politiche migratorie e dei rifugiati. Per venire alla questione delle donne: la guerra ha rafforzato e temo che rafforzerà ulteriormente il binarismo di genere in Ucraina, a causa della coscrizione universale maschile. E questo è un male non solo per le donne ma anche per gli uomini che si sono rifiutati di combattere e per le donne trans che vengono fermate al confine. Pensate anche a cosa significa per i bambini. Al-Jazeera ha riferito che alcuni ragazzi adolescenti provano ansia per il fatto di non combattere per lo Stato-nazione. Cosa significa in termini di escalation del nazionalismo in Russia e Ucraina? Questo avrà come effetto un’escalation del nazionalismo in tutto il mondo, perché le altre potenze devono schierarsi con una parte o con l’altra. Questo è sempre senz’altro devastante soprattutto per le donne, ma anche per il pianeta nel suo insieme. Non abbiamo ancora parlato dell’impatto ecologico di questa guerra. Il fatto che le centrali nucleari siano state trasformate in siti di competizione imperiale è profondamente preoccupante e tutto questo rafforzerà il nazionalismo e il patriarcato in tutto il mondo, non solo in Ucraina e in Russia ma a livello globale. Come sinistra femminista abbiamo la responsabilità di attirare l’attenzione su queste contraddizioni.
La politica transnazionale di pace deve muoversi sul breve periodo, dentro l’urgenza prodotta dalla guerra, ma deve anche essere capace di darsi una prospettiva autonoma e di lungo periodo. Come pensi si possano combinare queste due dimensioni?
TB: la preoccupazione di lungo periodo della sinistra globale in questo momento non può essere altro che il pianeta. Non c’è socialismo senza pianeta. Per portare avanti la lotta di classe, l’ambientalismo dovrebbe essere la prima preoccupazione della sinistra globale. Questo non significa che sottomettiamo le questioni di razza e di genere alla questione ecologica, ma che vediamo che la questione ecologica ha limiti imponenti alla nostra esistenza e alle nostre lotte nel futuro. E se pensiamo dentro questa cornice, se guardiamo anche alle profonde instabilità e disuguaglianze del capitalismo che sono state prodotte dai due anni della pandemia, vediamo solo un’escalation di disuguaglianze di classe e di violenza razziale e di genere. A questo mix si è aggiunta la guerra e la crisi imperiale. Per uscirne si potrebbe pensare – ed è razionale, non c’è bisogno di essere marxisti – che sia necessario spendere soldi in spese sociali, in infrastrutture, per uscire da questa situazione di profonda disuguaglianza. Tuttavia, questa guerra sta permettendo agli Stati capitalisti di ricostruire il loro arsenale proprio come accadde durante la Guerra fredda. Guardate la guerra ucraina cosa ha permesso a paesi come la Germania (con il sostegno dei media liberali), cioè di aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni. Svezia, Danimarca, Polonia, hanno tutti annunciato che aumenteranno le loro spese per la difesa. In un momento in cui avremmo bisogno di fronteggiare violenza di classe, di genere e razziale, in cui avremmo bisogno di soccorso immediato in termini di rifugiati e assistenza sanitaria ecc., quello che invece vediamo è che la guerra sta diventando il pretesto per gli Stati capitalisti per intensificare in sordina queste contraddizioni.
CA: Sono d’accordo con Tithi sulla questione di chi invia armi a chi. Nel chiedere ai paesi della NATO di inviare armi in Ucraina c’è una certa illusione sull’effetto che possiamo avere nell’immediato. Non abbiamo il potere di influenzare la politica imperialista in gioco in questo momento. Inoltre, non hanno davvero bisogno del nostro incoraggiamento per inviare armi, i loro interessi imperialisti sono sufficienti. Soprattutto, sostenere l’invio di armi all’Ucraina avrà effetti dannosi a medio e lungo termine, perché così facendo finiremo inevitabilmente per allinearci al progetto USA-UE di riconsolidamento e riconfigurazione del patto transatlantico. Blinken ha già annunciato che gli Stati Uniti intendono riformare la missione strategica della NATO, e Finlandia e Svezia probabilmente si uniranno. Dopo anni di austerità, improvvisamente gli Stati europei parlano di aumentare le spese, ma in cosa? In armamenti! Allinearsi con la NATO, anche solo per chiedere assistenza militare alla resistenza ucraina, inciderebbe sulla nostra capacità di agire nel lungo periodo verso la ricostruzione della lotta di classe in una situazione globale mutata. Naturalmente, io intendo la classe in un senso molto più ampio della visione ortodossa, per esempio, includo il movimento dello sciopero femminista degli ultimi anni. E naturalmente, le questioni del cambiamento climatico, la politica energetica, la riorganizzazione delle catene del valore e del mercato finanziario globale sono cruciali per un nuovo progetto di lotta di classe dal basso. Nella sua recente lettera agli azionisti, Larry Fink – il CEO di BlackRock – ha dichiarato che l’accesso ai mercati finanziari globali non è un diritto: dobbiamo ripensare il modo in cui la globalizzazione funzionerà, e la globalizzazione non significa l’inclusione di ogni parte del globo nel mercato finanziario, ma piuttosto inclusione selettiva, gerarchie in termini di accesso ai crediti, catene del valore e distribuzioni di materie prime. Che cosa significherà questa guerra in termini di riconfigurazione generale del capitalismo globale e che cosa comporterà dal punto di vista del cambiamento climatico, delle catene del valore, dei processi migratori e del trasferimento di forza lavoro attraverso diversi paesi, della nuova corsa agli armamenti pesanti e del consolidamento delle organizzazioni militari transnazionali come la NATO? Ancora una volta, dobbiamo pensare a questo nel medio-lungo termine, perché questo è il termine in cui possiamo sperare di avere un effetto. Dobbiamo essere realistiche su ciò che possiamo ottenere oggi e dobbiamo pensare a come riposizionarci in relazione alla crisi della guerra non solo nei termini di ciò che sta accadendo ora, ma nei termini di ciò che questo comporterà per gli anni a venire.
Avete menzionato il movimento dello sciopero femminista, che ha anche ispirato la scrittura del vostro libro Femminismo per il 99%. Che cosa pensate che si possa trarre dall’esperienza di questo movimento per definire una politica transnazionale di pace?
CA: Possiamo trarre due lezioni fondamentali dal movimento dello sciopero femminista, che sarebbero fondamentali per il nostro approccio a una mobilitazione transnazionale contro la guerra. La prima ha a che fare con la capacità dello sciopero femminista di ampliare la nostra comprensione della classe e della lotta di classe, in modo da includervi sia la produzione sia la riproduzione sociale, e di rendere conto dei modi “non convenzionali” in cui la soggettività di classe si esprime e si costituisce. Il secondo ha a che fare con la capacità del movimento femminista di proporre un orizzonte universalistico senza fare astrazione dalle differenze – e quindi dalle forme specifiche di oppressione e sfruttamento e dalle soggettività che vi si formano intorno. In altre parole, il movimento di sciopero femminista è stato in grado di indicare un orizzonte di liberazione universale fondandosi sull’oppressione specifica delle donne e delle persone LGBTIQ+. Come ho detto prima, dobbiamo adottare un punto di vista epistemico di classe se vogliamo opporci a questa guerra senza allinearci a nessuno dei due progetti imperialistici. Penso che il movimento dello sciopero femminista ci abbia mostrato come dovrebbe essere questo punto di vista nel XXI secolo.
TB: Lo sciopero femminista come movimento ha ricostituito il significato politico e la necessità della solidarietà. In un periodo in cui siamo spesso costrette a difendere il “nostro”, l’orizzonte internazionale degli scioperi ha reintrodotto una politica di difesa dell'”altro”. Questa è precisamente la pratica politica che dobbiamo attuare nella nostra attuale congiuntura. Nei decenni del neoliberalismo, quando gli Stati si sono ritirati dalla loro funzione pubblica di provvedere al benessere di cittadini e cittadine, l’indebolimento della spesa sociale ha significato una diminuzione della solidarietà. La riduzione della spesa destinata alla riproduzione sociale da parte dello Stato ha significato che le risorse disponibili sono (a) viste come una grazia e un privilegio e quindi (b) da difendere contro gli “immeritevoli”. Contro queste politiche esplicitamente anti-solidaristiche dello Stato e del capitale, le femministe, ora più che mai, hanno bisogno di salvare una solidarietà che è tanto anticapitalista quanto apertamente conflittuale con il capitale. In questo momento di escalation delle disuguaglianze sociali e dell’emergenza climatica, dovremmo renderci conto di quanto siano profondamente intrecciati i nostri destini con quelli degli altri. E mentre le guerre e le pandemie dilaniano il mondo, dobbiamo rianimare una politica dell’ospitalità e del sostegno, dove il destino dei e delle più vulnerabili è la visione per il nostro stesso futuro.
* Subito dopo l’invasione dell’Ucraina, la Transnational Social Strike Platform ha pubblicato una presa di posizione intitolata No alla guerra. Per una politica transnazionale di pace, che ha avuto un’ampia diffusione. La sua diffusione in Europa, da Est a Ovest, negli Stati Uniti e in America Latina ha portato alla creazione dell’Assemblea Permanente Contro la Guerra, uno spazio transnazionale di discussione e organizzazione non solo per opporsi alla guerra, ma per praticare una politica che si schieri dalla parte di chi è colpito dalla guerra in Ucraina, di chi si oppone alla guerra in Russia, e di tutti e tutte coloro che lottano per non essere uccise, sfruttate e oppresse e che subiranno le conseguenze della guerra sulle loro condizioni di vita e lavoro. Per sostenere e dare visibilità a questo processo di organizzazione e comunicazione, apriamo un dibattito a più voci su quali aspettative suscita la prospettiva di una politica transnazionale di pace, quali possono o devono essere i suoi contenuti, quali sono gli ostacoli alla sua realizzazione e i progetti di connessioni e azioni che la rendono possibile. Il risultato è una prima serie di interviste a studiosi e studiose, compagne e compagni che negli ultimi anni hanno contribuito al dibattito del movimento su temi, discorsi e pratiche che una politica di pace transnazionale non può ignorare.