di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM*
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Subito dopo l’invasione dell’Ucraina, la Transnational Social Strike Platform ha pubblicato una presa di posizione intitolata No alla guerra. Per una politica transnazionale di pace, che ha avuto un’ampia diffusione in Europa, da Est a Ovest, negli Stati Uniti e in America Latina e ha portato alla creazione dell’Assemblea Permanente Contro la Guerra: uno spazio transnazionale di discussione e organizzazione non solo per opporsi alla guerra, ma per praticare una politica che si schieri dalla parte di chi è colpito dalla guerra in Ucraina, di chi si oppone alla guerra in Russia, e di tutti e tutte coloro che lottano per non essere uccise, sfruttate e oppresse e che subiranno le conseguenze della guerra sulle loro condizioni di vita e lavoro. Per sostenere e dare visibilità a questo processo di organizzazione e comunicazione, la Transnational Social Strike Platform ha aperto un dibattito a più voci su quali aspettative suscita la prospettiva di una politica transnazionale di pace, quali possono o devono essere i suoi contenuti, quali sono gli ostacoli alla sua realizzazione e i progetti di connessioni e azioni che la rendono possibile. Il risultato è una prima serie di interviste a studiosi e studiose, compagne e compagni che negli ultimi anni hanno contribuito al dibattito del movimento su temi, discorsi e pratiche che una politica di pace transnazionale non può ignorare. Dopo l’intervista a Jeremy Brecher (Stati Uniti), quella a Ida Dominijanni, a Sasha della Feminist Anti-War Resistance in Russia e quella a Ranabir Samaddar (India) in questa pagina, sarà pubblicata l’intervista a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya (Stati Uniti).
Ranabir Samaddar è un filosofo politico che vive a Kolkata, in India. Attualmente è professore emerito di studi sulla migrazione presso il Calcutta Research Group. Ha lavorato approfonditamente sui temi della migrazione, della teoria e della pratica del dialogo, del nazionalismo, della statualità post-coloniale in Asia meridionale e dei nuovi regimi del lavoro e di accumulazione del capitale. Tra le sue numerose pubblicazioni troviamo Karl Marx and the Postcolonial Age (2017), The Materiality of Politics (2007) e Politics of Dialogue. Living Under Geopolitical Histories of War and Peace (2004). È editorialista di diversi giornali indiani e partecipa a importanti dibattiti politici sul tema dei nessi tra l’Asia del Sud e l’Europa. Questa intervista allarga il dibattito sulla guerra nella direzione di acquisire una comprensione globale di ciò che è in gioco nella costruzione di una politica transnazionale di pace, contro la politica di guerra di oggi. Contro ogni idea di politica priva di rotture, Ranabir affronta la natura contesa della pace, della neutralità e della giustizia, le crepe in Europa, la funzione della NATO, le nuove forme di globalizzazione e la necessità di una politica di trasformazione sociale per la costruzione della pace.
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Con ‘politica transnazionale di pace’ ambiamo a qualcosa di più della solidarietà internazionale. Questa formula contiene un appello a costruire connessioni transnazionali attraverso cui, oltre a esprimere un ‘no alla guerra’, contestare gli effetti della guerra sulle condizioni di vita e di lavoro di milioni di uomini e donne, persone LGBTQIA+, lavoratori, poveri, migranti e non, anche oltre i confini di Russia e Ucraina. Pensi che questo appello sia realistico, o pensi che dovremmo dare priorità a trovare una posizione dentro la riconfigurazione del quadro geopolitico?
Una politica transnazionale di pace non può veicolare un’idea di politica priva di rotture. Deve riconoscere le faglie all’interno della “politica di pace”, la natura controversa della questione della pace oggi. Così, inizierei chiedendo: che cosa significa una guerra europea per i non europei? Voi parlate della necessità di non essere neutrali, ma che dire del diritto di rimanere neutrali, di non schierarsi in una guerra? Non è forse questo uno storico diritto delle nazioni più piccole, dei popoli più piccoli di rimanere non allineati? Questo è quanto avevano rivendicato i paesi decolonizzati del mondo tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso nel contesto della Guerra fredda, quando gli americani e l’Occidente imperialista pretendevano che il resto del mondo si schierasse. So che dovremmo dire che siamo dalla parte delle vittime e delle classi oppresse. Ma questa è un’affermazione troppo generale. Abbiamo bisogno di un’analisi concreta per una situazione concreta. Qui non c’è una “guerra giusta”, e noi siamo decisamente dalla parte della pace. Per costruire una politica di pace in questa situazione contingente, il primo requisito è rifiutare di schierarsi e resistere alla pressione di schierarsi. Ho anche notato che la NATO è menzionata solo di sfuggita nel vostro primo comunicato. Io penso che una politica transnazionale di pace debba per prima cosa dichiararsi contro la politica imperialista delle alleanze militari transnazionali. Perché dovremmo avere bisogno della NATO? Che cosa ha a che fare il mondo postcoloniale con la NATO? Qualcuno può dirmi perché l’Europa ha bisogno della NATO? Chi ha dato alla NATO il potere di bombardare la Serbia o la Libia o di venire in Afghanistan? Nel Sud globale non abbiamo un’alleanza militare o un apparato di sicurezza di questo tipo. Inoltre, ciò che è occidentale è necessariamente globale? Dobbiamo pensare a questo ‒ cioè imparare a considerare e a includere modi non europei di guardare alle questioni della guerra e della pace ‒ se vogliamo seriamente lavorare a una politica transnazionale di pace. Un’assemblea permanente per la pace è un’ottima idea. Io la sostengo. Ma per ottenere la pace è necessaria una comprensione più ampia di ciò che è in gioco nel nostro presente neoliberale. Ugualmente importante: c’è molto da imparare dai movimenti pacifisti globali degli anni Cinquanta e Sessanta. Non dimentichiamo i contributi delle voci africane e asiatiche a un movimento di pace globale, così come il movimento Tri-continentale per la pace.
Gli Stati europei e gli Stati Uniti si stanno presentando come i campioni dell’internazionalismo democratico contro l’avanzata dell’autoritarismo di Putin. Ciò sembra mettere in secondo piano la violenza del regime europeo dei confini nonché gli effetti devastanti delle politiche neoliberali, visibili specialmente in Europa centrale e orientale. Invece che indicare un impegno all’allargamento dei diritti civili e sociali, l’appello dei governi occidentali ai valori democratici è strumentale all’inasprimento della logica bellica dei fronti contrapposti. Una politica transnazionale di pace non può esaurirsi nella pur necessaria richiesta di farla finita con le ostilità, o nell’appello alla democrazia. Come si può articolare un discorso che faccia i conti con queste contraddizioni dentro e oltre la guerra?
La teoria e la politica radicali dell'”allargamento dei diritti sociali e civili”, intese come fulcro di un’agenda di trasformazione sociale, hanno dimostrato di essere un ingranaggio della macchina corporativa neoliberale e gli ultimi trent’anni di allargamento europeo lo hanno dimostrato. Il cosiddetto allargamento dei diritti sociali e civili non può impedire l’allargamento della macchina militare. Le due cose sono storicamente andate insieme. La crisi finanziaria greca, l’imposizione del dominio della Troika e il crollo della sinistra greca che ha ceduto la sovranità nazionale alla pressione delle corporations dovrebbero metterci in guardia sulla necessità di combattere una dura e necessaria battaglia contro il dominio delle multinazionali, il militarismo e l’espansione neoliberale. Mi sono spesso chiesto perché i movimenti per l’allargamento dei diritti sociali e civili in Spagna, Grecia e altrove non si sono opposti alla NATO e non hanno chiesto ai loro rispettivi paesi di uscire dalla NATO. In questo contesto, dobbiamo prendere nota della doppia natura della questione nazionale. Nell’Europa orientale ‒ Polonia, Ucraina e altrove ‒ i nazionalisti in passato hanno collaborato con i nazisti nell’annientare gli ebrei, altre minoranze, i lavoratori, i socialisti e i comunisti. Questi nazionalisti erano le forze che sostenevano il dominio reazionario dei ricchi, dei monarchici, dei proprietari terrieri, dei militaristi e della borghesia. Molti di questi collaboratori sono stati salvati dagli americani, dagli inglesi e dalla Chiesa. Ricordate le Ratlines? L’intero scenario era come quello delle Ratlines. Questi nazionalisti sono tornati al potere quasi ovunque dopo il 1989. Volevano unirsi all'”Europa” perché questo avrebbe suggellato l’alleanza tra il dominio delle corporations in Europa e il nazionalismo di destra nell’Europa orientale. D’altra parte, la questione della nazione in Europa non riguarda solo il passato. Sacrificando il diritto della nazione a lottare per il suo popolo sull’altare di un’agenda politica sfuggente imperniata sui diritti sociali e civili, la New Left in questi paesi ha consegnato la bandiera della resistenza nazionale alla dominazione e all’imperialismo alla destra. Una politica transnazionale di pace non può dimenticare la realtà della guerra e pretendere di fare una politica di pace nonostante essa. La pace esige oggi la sicurezza delle nazioni, nuovi principi di coesistenza pacifica, la rinuncia ad alleanze militari e la giustizia dialogica. L’espansione dei diritti sociali e civili potrà trovare respiro in un simile contesto. Minare la sicurezza delle nazioni nell’epoca neoliberale porterà alla guerra dell’idra dalle molte teste. Pertanto, dobbiamo essere onesti. Stiamo rispondendo con la stessa urgenza alla crisi in Afghanistan, ai bombardamenti sauditi in Yemen o a quelli della NATO sulla Libia? Dobbiamo formulare i principi della pace dialogica.
C’è chi ha sostenuto che questa guerra segna la fine della globalizzazione. Quali pensi saranno le trasformazioni di lungo periodo prodotte da questa guerra, che una politica transnazionale di pace deve prepararsi ad affrontare?
Penso che la realtà della globalizzazione sarà più cruda, e con questo intendo la realtà della disuguaglianza che impone, delle sue molteplici forme concorrenziali e di collaborazione, dei suoi nodi centrali e delle sue conseguenze. In un certo senso è un bene, perché ci eravamo abituati a trattare la globalizzazione secondo un modello centralistico. Secondo quel modello, esiste un solo mondo, ma quel modello si sta estinguendo forse più in fretta di quanto ci aspettassimo. Sicuramente, il modello di globalizzazione euro-americano è finito. Nazioni, popoli e paesi rivendicheranno il diritto di globalizzare a modo loro. Pluralismo giuridico, pluralismo monetario, pluralismo del regime commerciale ‒ tutto questo richiederà presto un ordine dialogico globale. Forse si tratterà di una sorta di dialogo quotidiano, nello stile del “plebiscito” dei tempi antichi. Il regime delle sanzioni fa emergere il volto più duro e coercitivo della globalizzazione. Ma le sanzioni affretteranno il cammino verso regimi monetari multipli. Ricordo negli anni Settanta del secolo scorso quando l’India e l’URSS avevano un accordo rupia-rublo per il commercio bilaterale.
Dall’Ucraina si sono sollevate delle voci critiche nei confronti della sinistra occidentale, la quale per anni ha ignorato ciò che stava accadendo in Est Europa e ora legge la situazione in corso nella cornice dell’anti-imperialismo/anti-americanismo o dell’europeismo democratico, applicando lenti che non sono più adatte al presente. Quali sono gli elementi che secondo te questa guerra ci impone di considerare, e quali invece i modelli che ci richiede di abbandonare?
Non conosco queste “voci critiche” in Ucraina a cui fate riferimento. Sono sicuro che voci di sinistra, critiche e rivoluzionarie ci siano. Tuttavia, dato che non ne ho conoscenza, non posso commentare su questo. Quel che posso dire è che le voci che ignorano la NATO, il dominio mondiale degli USA, l’oppressione della Palestina, l’egemonia USA-UE, che ignorano l’agenda cruciale della lotta per la trasformazione sociale, e pensano solo al dominio russo possono essere nazionaliste, ma non critiche. Non dimentichiamo che i movimenti per l’espansione dei diritti sociali e civili possono essere compatibili con un’agenda liberale, come hanno dimostrato le recenti esperienze della Spagna e altrove. Quindi, dobbiamo chiederci, che cosa è “critico” qui? Tutto questo comunque non significa che l’intervento russo sia da sostenere. Eppure, il nazionalismo selettivo di molti attivisti della New Left nell’Europa dell’Est pone questioni intriganti. Sono fermamente convinto che una politica leninista di “no” alla guerra e “sì” al dialogo, al cessate il fuoco e alla pace sarà il primo segno di qualsiasi criticità ora.
La guerra in Ucraina è una guerra patriarcale in quanto riafferma, attraverso le bombe, tutte le gerarchie che abbiamo contestato. Gli uomini sono costretti a essere soldati e a dimostrare combattendo quanto siano mascolini e patriottici. Le donne trans non possono lasciare l’Ucraina perché i soldati al confine le identificano come maschi. Le donne sono trattate come deboli e impotenti, come oggetto di protezione, mentre le centinaia di migliaia di migranti che lasciano l’Ucraina saranno impiegate come forza lavoro dequalificata nei settori essenziali o nel lavoro domestico. In che modo pensi che una politica transnazionale di pace possa sfidare le gerarchie patriarcali e sessuali che la guerra sta rafforzando?
Una politica transnazionale di pace deve lottare nelle faglie aperte da un regime basato sulla protezione. Se è questo ciò che intendete, sono d’accordo. Tuttavia, voi dite: i maschi sono soldati, combattono. Ma c’è più di questo. Gli uomini sono costretti a rimanere indietro a combattere mentre le donne, i vecchi e i bambini sono autorizzati ad andarsene. Se questo è vero, si tratta allora di una forma di coscrizione (costringere la gente a combattere) che porta a quella che ci troveremo a chiamare “guerra del popolo”. Avrei molto da dire sulla pratica dello “scudo umano” su cui molto viene scritto in questi giorni da ricercatori e attivisti per la pace. Ma questa non è l’occasione per discuterne. Ci sono gravi crepe nel “cristallo” umanitario. Per esempio, gli studenti provenienti dall’Africa e dall’Asia hanno affrontato e stanno affrontando enormi discriminazioni nel tentativo di lasciare l’Ucraina e ottenere protezione in Polonia, Moldavia, Romania e altrove. Il giorno in cui la Spagna ha dichiarato di voler accogliere a “braccia aperte” i rifugiati ucraini i mass media hanno diffuso una foto del personale di sicurezza che picchiava un gruppo di migranti africani a corpo nudo per le strade di Madrid. I rifugiati ucraini sono i benvenuti perché sono “dentro l’Europa”, mentre i migranti e i rifugiati da “fuori l’Europa” non vengono fatti passare. Bisogna prendere atto di come questa guerra produca una militarizzazione di tutti i discorsi e le forme sociali. Le sanzioni investono e “armano” le condizioni di vita dei russi, come è successo alla gente comune in Iraq e Iran o in Corea del Nord. Allo stesso modo, sono state “armate” anche le condizioni di vita di milioni di persone nel mondo e le economie dei paesi poveri che importano petrolio. Anche le politiche di protezione dei rifugiati sono state trasformate dalla guerra e dalla retorica delle armi. Una politica transnazionale di pace deve difendere la giustizia a tutti i livelli, foss’anche a un livello base. La politica di pace deve articolare ciò che ho chiamato tempo fa “giustizia minima”. Quali saranno i principi della giustizia minima in questo contesto? La pace e la riconciliazione possono essere raggiunte sulla base di una giustizia minima. Questo è ciò che può essere chiamato “giustizia dialogica”. Questa, quindi, implicherebbe anche pretendere la ripresa del dialogo verso un immediato cessate il fuoco e la pace tra Ucraina e Russia, il completo ritiro della NATO dai “confini dell’Europa” e altrove, il divieto per la NATO di intervenire al di fuori del “Nord Atlantico”, il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati tra cui l’Ucraina, un nuovo forum per la sicurezza mondiale, pieni diritti alle minoranze e divieto di intervento della “Troika” nell’Europa orientale. Solo con il riconoscimento storico delle faglie che attraversano il quadro di sicurezza esistente, inaugurato sulla scia del 1989 in Europa e altrove con l’implementazione di nuove regole commerciali e finanziarie coercitive, è possibile fare passi verso la creazione di condizioni pacifiche per un reale godimento dei diritti civili e sociali. Un tale riconoscimento storico richiederebbe, per esempio, di riconoscere la colpa della NATO nella disgregazione della Jugoslavia ‒ la colpa collettiva dell’Europa nell’espropriare quel paese ‒ e la colpa dell’UE nel sovvertire la sovranità della Grecia nel 2015, e tutto ciò che l’Europa ha fatto nei confronti dei paesi extraeuropei, come la Libia. Questo è ciò che significa una politica transnazionale di pace e ciò che un’assemblea permanente per la pace dovrà simboleggiare. Bisogna sostenere i principi del dialogo contro quelli della coercizione e della guerra ‒ non selettivamente, ma universalmente.
La politica transnazionale di pace deve muoversi sul breve periodo, dentro l’urgenza prodotta dalla guerra, ma deve anche essere capace di darsi una prospettiva autonoma e di lungo periodo. Come pensi si possano combinare queste due dimensioni?
Quel “ma” usato nella domanda è insidioso. Per due motivi: innanzitutto, il breve termine è necessario per garantire il lungo termine. Non sono la stessa cosa, ma sono complementari. In secondo luogo, e questo è ancora più importante, che tipo di prospettiva a lungo termine è quella che ignora la realtà della guerra, del conflitto e delle esigenze di trasformazione sociale? E se facessimo una simile osservazione nel contesto dell’Afghanistan, della Siria, delle Filippine o dello Yemen? La guerra è una realtà postcoloniale. La sinistra europea ha potuto ignorarla perché non ha mai immaginato che la guerra sarebbe ricomparsa in Europa. Non si dica che non era annunciata: l’Europa ne ha ignorato i segni. La guerra è una realtà nella storia della trasformazione sociale. Una politica di pace è rilevante se riconosce questa realtà e si sviluppa sulla base delle contraddizioni presenti in questo scenario di guerra. Con lo slogan della pace (insieme a quello per la terra e il pane) i bolscevichi fecero la rivoluzione. Si tratta di una storia “antica” e perciò conclusa? Inoltre, non so che cosa intendiate per “autonomo”. Significa autonomo dalle realtà sociali, dalla realtà della guerra? La politica di trasformazione sociale si basa sul riconoscimento delle realtà sociali e sul “piegare la realtà” all’obiettivo della trasformazione.