La transizione ecologica si presenta per molti versi come un rompicapo. Di fronte alla crisi climatica, provvedimenti drastici di riduzione delle emissioni di gas serra non sono più rimandabili. Come denunciato dai movimenti ambientalisti riuniti a Glasgow, le misure adottate da capi di Stato e istituzioni sovranazionali durante il COP26 sono del tutto insoddisfacenti rispetto alla gravità della situazione e al ritardo con cui ci si è decisi a intervenire. Anche solo limitandosi all’UE, è del resto sempre più evidente che i costi della transizione saranno distribuiti in modo differenziato e che la transizione verde comporta una minaccia esiziale per segmenti di forza lavoro – tra tutti i minatori e gli operai della componentistica dell’auto, ma anche di imprese siderurgiche e chimiche – che rischiano di diventare le vittime da sacrificare sull’altare dell’ecologismo. Forze sindacali e politiche variegate, a Est come a Ovest, insistono, in nome della difesa del lavoro e delle imprese, affinché i tempi della transizione non siano determinati solo dall’urgenza di un cambiamento di rotta, ma siano pianificati di concerto tenendo conto dei tempi di riadattamento del capitale. Altri richiamano i benefici della sovranità energetica come arma per difendere il lavoro e il benessere nazionale contro la governance europea neoliberale. In ogni caso, la difesa dell’ambiente e la difesa del lavoro sembrano due imperativi inconciliabili.
Il «Meccanismo europeo per la transizione giusta» introdotto dall’UE promette la quadratura del cerchio. Esso appresta un imponente aiuto finanziario per le regioni e le categorie particolarmente colpite dalla riduzione delle emissioni: difendere la natura e combattere le disuguaglianze, supportando chi rischia di essere più colpito dalla transizione verde. Alcuni lo salutano addirittura come la prova provata che un cambio di paradigma è in corso: il definitivo addio all’austerity che ha segnato i decenni passati, marchiati dall’imperativo di ridurre la spesa pubblica a qualsiasi costo.
Ma stanno veramente così le cose? Per capirlo e sciogliere l’enigma bisogna cominciare a guardare dentro alla transizione verde riconoscendola come un nuovo regime di accumulazione che impone un ampio piano di riconfigurazione dell’Europa. Si tratta di un processo transnazionale che conferma e riproduce profonde differenze nazionali e investe non solo le filiere produttive e di estrazione e distribuzione di materie prime, ma l’intero ambito della riproduzione sociale. Il pianeta è uno, ma non tutti avranno il privilegio di respirare aria più pulita o di riscaldare le proprie case potendo scegliere fonti rinnovabili al posto di energie fossili a prezzi sempre più proibitivi. I costi della transizione rischiano di scaricarsi su chi ha già pagato il prezzo più alto di decenni di austerity.
Se guardiamo al problema dell’energia, un pezzo importante della transizione verde ha a che fare con la possibilità, offerta dai fondi del recovery plan europeo, di imprimere un’accelerazione allo spirito e alla carta della «Energy Efficiency Directive», una direttiva europea volta a promuovere l’integrazione del mercato energetico dell’Unione. La premessa alla base della direttiva è l’obbligo per gli Stati membri di liberalizzare il mercato energetico, cosa che è stata finora fatta dappertutto tranne che in Bulgaria e a Malta. In linea con i comandamenti neoliberali bisogna evitare che gli Stati intervengano per calmierare i prezzi al consumo e che siano in grado di decidere sui costi dell’approvvigionamento energetico. La novità prevista dalla direttiva è la separazione tra produzione, distribuzione e vendita dell’energia che devono essere affidate a operatori diversi, per impedire che vi sia un attore pubblico in grado di avanzare pretese sovrane sull’intero processo. Secondo il testo della direttiva bisogna «rimuovere tutte le barriere tecnologiche e amministrative nazionali che ostacolano il funzionamento del mercato interno dell’energia o di mercati del lavoro sottosviluppati». Per mercato del lavoro sottosviluppato l’UE intende un mercato in cui sono presenti inaccettabili tutele e garanzie per chi lavora. Una volta liberalizzata, ci penserà poi la competizione tra operatori e tra lavoratori ad aggiustare i prezzi dell’energia.
Rispetto a queste linee guida che hanno caratterizzato la politica energetica europea degli ultimi anni, la transizione verde offre l’occasione di portare a compimento il processo di integrazione, eliminando gli ostacoli che frenano il mercato non solo nel momento della vendita, ma anche dell’estrazione, dello stoccaggio e della distribuzione. È per questo, oltre che per il loro impatto ambientale, che le miniere di carbone sono ora al centro di una guerra tra pretese sovrane contrastanti, essendo tra gli ultimi esempi di imprese a partecipazione pubblica tacciate di ostacolare il libero e virtuoso funzionamento del mercato in crescita dell’energia verde e rappresentando una roccaforte di lavoratori fortemente sindacalizzati, barriere «insostenibili» per un mercato del lavoro realmente evoluto.
Del resto, è stato lo stesso Fondo Monetario Internazionale a esprimersi recentemente in salsa green, insistendo sull’esigenza che gli Stati smettano di fornire sussidi alle imprese di estrazione di combustibili fossili, perché il rischio è quello di «inquinare» (!) il mercato internazionale dell’energia. Secondo gli analisti dell’FMI, saranno gli alti prezzi dei combustibili fossili per il consumatore a escluderli dalla competizione. Non importa quante persone non riusciranno a riscaldare le loro case o ad arrivare alla fine del mese in attesa che il mercato compia il suo miracolo. Nello spirito di questi «aggiustamenti strutturali verdi», la salvaguardia del clima deve essere affidata al ricatto del debito e al meccanismo della competitività.
Ciò significa che, al contrario, la sovranità energetica auspicata da alcuni paesi sarebbe realmente capace di migliorare le condizioni di vita e di lavoro di chi rischia di pagare il prezzo più alto della transizione verde? C’è da dubitarne. Non è un segreto che i paesi ai confini orientali dell’UE siano una grande fabbrica a proprietà straniera. Se si guarda al settore automobilistico, pesantemente coinvolto nella transizione, in Slovacchia la produzione di automobili è aumentata di 7 volte dal 1999, in Ungheria, Repubblica Ceca e Turchia di quattro volte, di fronte a un calo della produzione nei paesi occidentali che in Italia tocca il 60%. Il 97% delle imprese che in Slovacchia producono automobili sono straniere, in Repubblica Ceca il 92%: imprese tedesche, francesi e asiatiche. I bassi salari sono le principali materie prime che l’Est ha da offrire e la merce forza lavoro fa gola al capitale transnazionale.
Alle spalle della reticenza dei governi del fronte orientale sui tempi della transizione non c’è quindi un barbarico eco-scetticismo, ma la voce imponente del capitale transnazionale che non rinuncia ai bassi salari a Est, verso cui continua a delocalizzare, e nello stesso tempo si considera libero di ripianificare la sua struttura produttiva senza doversi preoccupare dei costi e delle conseguenze sociali. Secondo questa logica il governo bulgaro ha recentemente giustificato il piano di chiusura delle miniere con l’apertura di nuove zone economiche speciali che offrano agli investitori stranieri le migliori condizioni in termini di bassi salari e di forza lavoro just in time. Repubblica Ceca e Polonia – insieme alla Germania – sono le principali produttrici di carbonfossile e non a caso quelle dove si concentrano le fabbriche straniere, grazie al mix tra bassi costi dell’energia e bassi salari. Dietro l’insistenza sulla sovranità energetica e sul rimandare la chiusura delle miniere o la riconversione delle filiere dell’automobile non c’è insomma la difesa del lavoro nazionale, ma la sua svendita sul mercato transnazionale.
Anche in Italia il ministro della transizione Cingolani, che considera gli ambientalisti più dannosi della catastrofe climatica, ha insistito sull’estrazione del nostro gas e sul rafforzamento dell’infrastruttura nazionale per ridurre le importazioni. Cingolani ha lamentato di essere stretto «in una morsa tra catastrofe sociale e catastrofe ecologica». Per non sbagliare, ha scelto di sostenere il grande capitale. Nel documento «Lavoro ed energia per una transizione sostenibile» firmato da Confindustria energia e dai sindacati confederali del settore con il patrocinio del ministero della transizione, tra i vari bla bla bla sulla transizione giusta c’è una proposta che dà il segno all’intero manifesto: l’inclusione del gas nella tassonomia di energie verdi riconosciute dall’UE, per assicurare che gli ingenti finanziamenti europei vadano nelle tasche di imprese quali Eni, Enel e altri colossi del settore energetico. Una proposta accolta dall’UE che ha recentemente inserito gas ed energia nucleare tra le energie verdi. Per i paladini del lavoro come Cingolani, difendere il lavoro significa difendere le grandi imprese in barba alle evidenze che fanno del gas a tutti gli effetti un combustibile fossile altrettanto dannoso del carbone. L’importante è che, contro le insopportabili ideologie degli ambientalisti, si avanzi con una posizione unitaria che «rappresenti tutti»: con il benestare dei grandi sindacati di categoria, a rappresentare il lavoro ora ci sono in prima fila le imprese a braccetto con le quali è stata decisa la spartizione delle quote del recovery plan.
Per come è pensata dai suoi promotori la transizione verde è il modo in cui la transizione neoliberale può finalmente essere completata. Nessun cambio di paradigma all’orizzonte dunque. Con essa viene sferrato l’ultimo attacco a un pezzo di classe operaia sindacalizzata e più organizzata di altre dopo decenni di precarizzazione, frammentazione delle filiere e delocalizzazioni. Costi dell’energia affidati al mercato significa maggiore pressione sul reddito e sulle condizioni di vita di chi fa il lavoro riproduttivo, gratuito e salariato, cioè sulle donne a cui è affidato il compito di colmare i buchi di un welfare sempre più scarno. Quella che chiamano la «terza rivoluzione industriale» viene dopo decenni di lacrime e sangue e si installa nel deserto che hanno creato. I milioni di precari, donne, posted workers, migranti, interinali che sono diventati da anni un pezzo strutturale della forza lavoro europea che cosa dicono della transizione verde? Nessuno lo sa, perché nessuno glielo chiede. L’assenza di risposta non è il segnale di un disinteresse, dato dal fatto che loro «devono pensare a mangiare». È invece il segno tangibile che è impossibile credere a chi parla in nome delle lavoratrici e dei lavoratori, contrapponendo le loro ragioni a quelle dell’ambientalismo.
Accanto alle manifestazioni globali del climate strike, ai blocchi di Extinction Rebellion di fronte ad Amazon durante il Black Friday, alle marce del people summit a Glasgow, abbiamo visto negli ultimi mesi lotte di minatori in Bulgaria, in Polonia, in Bosnia contro la decisione di chiudere le miniere di carbone, la rivolta in Kazakistan contro l’aumento del prezzo del gas, lotte contro i licenziamenti in nome di una transizione verde tutta dalla parte delle imprese alla GKN a Campi Bisenzio e in Inghilterra, alla Bosch di Monaco e in tante altre fabbriche europee e non. Mentre in Germania attiviste e attivisti da anni urlano «Ende Gelände» (Qui e non oltre) per bloccare lo sfruttamento dei giacimenti carboniferi, migliaia di persone in Serbia sono insorte nelle ultime settimane per fermare l’espropriazione di terre per la costruzione di un giacimento di litio, indispensabile per la produzione di veicoli elettrici e dunque per la riconversione verde della filiera dell’automotive. Lotte di questo tipo si moltiplicheranno nei prossimi mesi e anni lungo le linee di frattura e di contraddizione che attraversano la transizione verde che, con buona pace di Cingolani, no, non rappresenta tutti. Queste lotte dovranno riuscire a oltrepassare i confini dei territori che sono come non mai investiti da processi transnazionali e inventare modi per connettersi con i bisogni, le richieste, le proteste e i movimenti di lavoratrici e lavoratori. Queste stesse lotte dovranno penetrare i movimenti ambientalisti, perché la terra non è uguale per tutti in ogni suo angolo e perché solo prendendole sul serio sarà possibile farla finita con l’alternativa tra difesa del lavoro e difesa del clima. Urgente come la difesa dell’ambiente è la necessità di trovare forme per comunicare al di là dei confini politici, sociali e territoriali, imponendo la voce di queste lotte dentro e contro questa transizione.