di PAOLA RUDAN
La versione abbreviata di questa recensione è stata pubblicata su «il Manifesto» del 13 gennaio 2022
Il femminismo è per tutti di bell hooks (Tamu Edizioni, 2021, 203 pp., 14 €) è uscito nella sua traduzione italiana a cura di Maria Nadotti a ventun anni dalla sua prima edizione e poche settimane prima della morte della sua autrice. È il racconto di un’esperienza che si fa storia e ricostruisce il passato del movimento femminista a partire dagli anni ’70 del Novecento ‒ quando bell hooks lo incontra come una rivoluzione. Ripensare il passato per bell hooks non significa onorare una tradizione ma cogliere un’occasione: «la teoria femminista rivoluzionaria va di continuo elaborata e rielaborata perché si rivolga a noi, là dove viviamo, nel nostro presente». Il presente è quindi il tempo del femminismo. Esso deve essere sempre rinnovato come «movimento di massa» per riuscire a rovesciare quell’ordine che, con una formula tanto efficace, bell hooks definisce «patriarcato capitalista suprematista bianco». Il femminismo è per tutti non è, dunque, un bilancio, ma un’apertura. Dobbiamo domandarci intanto chi sono i tutti del titolo, che in italiano rimanda a un universale maschile che incorpora le differenze, mentre in inglese è un everybody in cui il riferimento al corpo le porta in primo piano, ponendo al centro del discorso anche le condizioni sociali in cui il corpo è situato. Quei tutti, che per bell hooks sono storicamente e quindi politicamente i referenti del femminismo, sono donne bianche e nere, povere e lavoratrici, migranti, bambine e bambini, omosessuali ed eterosessuali e sono anche gli uomini, che il femminismo chiama a una presa di posizione. L’affermazione – che si ripete continuamente nel libro ‒ «il femminismo è per tutti» ci impone di chiederci come sia possibile, oggi, produrre un discorso capace di «avvicinare» al femminismo chi ancora non conosce o non pratica questa politica appassionata – così bell hooks lo definisce nel sottotitolo – che può farci sperimentare la gioia della liberazione a partire da una visione realistica dell’oppressione e dello sfruttamento sessista. Di capire, ancora, come può il femminismo trasformarsi per riuscire a trasformare una realtà la cui complessità non permette soluzioni semplici.
C’è un passaggio che per bell hooks è evidentemente fondamentale, il salto dall’autocoscienza all’istituzione dei women’s studies nelle università nordamericane tra gli anni ’70 e gli anni ‘80 del Novecento. Se è vero, come lei sostiene, che «tutto ciò che facciamo nella vita si fonda sulla teoria», allora questo passaggio non va letto soltanto come un evento storico contingente e remoto, ma pone il problema di produrre un discorso per guidare l’iniziativa politica, un discorso espansivo capace di «convertire» ‒ questo è il termine che usa bell hooks, servendosi di un lessico religioso molto presente in tutto il libro ‒ un numero crescente di donne e uomini al femminismo. Ritroviamo in queste pagine una critica ai women’s studies che torna in molte parti della sua opera. La loro istituzione è stata l’esito di una battaglia politica per ridefinire i programmi formativi aprendoli alla storia delle donne e per leggere criticamente la produzione patriarcale del sapere. Per molte donne, e per la stessa bell hooks, i women’s studies sono stati la via d’accesso alla pratica del pensiero femminista. Allo stesso tempo, però, il loro ‘pubblico’ rischia di essere limitato a quanti possono permettersi studi universitari, mentre con le loro promesse di carriera hanno allontanato le accademiche dalla pratica del femminismo, trasformandone il pensiero in qualcosa di specialistico e per molte inaccessibile. Se il femminismo deve e può essere per tutti, la teoria che produce ha bisogno di essere realistica ovvero, come dice bell hooks, deve essere in grado di afferrare la realtà sociale complessiva in cui operano sessismo, razzismo e sfruttamento, parlando direttamente a chi ne fa esperienza e senza ridursi a un «gergo elitario».
Nelle pagine in cui bell hooks si chiede «a che punto siamo» troviamo una diagnosi sullo stato della politica femminista. Questa, secondo lei, «sta perdendo lo slancio perché il movimento femminista ha perso di vista le definizioni chiare», che sono fondamentali per radicare la politica femminista nella realtà. Va letta in questo senso l’attenzione con cui, nelle pagine dedicate al programma di «mettere fine alla violenza», bell hooks dice che è necessario parlare di «violenza patriarcale» anziché soltanto «domestica». La seconda definizione è più «accettata» socialmente e mediaticamente perché oscura il nesso tra la violenza in famiglia e il dominio maschile nella società. Questo nesso, invece, va reso continuamente visibile, perché è il dominio maschile che dà forma a ogni relazione e a ogni aspetto della vita secondo le logiche della gerarchia e del possesso: dalla casa alla sessualità all’amore, dal lavoro al rapporto tra genitori e figli, dalle rappresentazioni dei mass media alla religione alla moda. Il dominio maschile si legittima nella mente di chi lo pratica come di chi lo subisce attraverso un «sessismo interiorizzato» al quale non a caso bell hooks si riferisce come «nemico interno». Per questo è importante la riscrittura della celebre frase di Simone de Beauvoir, che per lei suona: «femministe non si nasce, lo si diventa». Il fatto di essere «vittime di un sistema che sfrutta o opprime e perfino opporgli resistenza non significa che capiamo perché esso è in atto o come fare a cambiarlo». Non è vero che le donne sono essenzialmente non violente e non è vero che tutti gli uomini sono nemici delle donne, al punto che ‒ con una formula sorprendente ‒ bell hooks parla della possibilità di una «maschilità femminista», che si dà nel momento in cui gli uomini contestano il dominio e il privilegio che incarnano e si schierano dalla parte delle donne, per una liberazione da ogni dominio. bell hooks scrive molti anni prima dell’emergenza del movimento femminista e transfemminista transnazionale contro la violenza patriarcale, ma la sua lettura ne anticipa l’importanza e ne ribadisce l’urgenza, perché esso ha creato le condizioni per una contestazione della violenza patriarcale come pratica sociale di legittimazione di un ordine gerarchico fondato sul dominio e sul possesso.
bell hooks è convinta che il femminismo debba coinvolgere anche gli uomini se vuole essere un movimento di massa e rivoluzionario. Questa convinzione è quanto mai produttiva oggi, quando una parte del femminismo che si definisce radicale ne sta riproponendo una visione identitaria, rinsaldando per di più quel determinismo biologico che le donne hanno contestato in massa. Per bell hooks, il femminismo non può essere una politica identitaria proprio perché impone di rompere con la propria identità marchiata dal sessismo prendendo una posizione: «identificarsi con le donne» è la formula che usa per dirlo, facendo dell’identità non un presupposto ma un effetto dello schieramento politico. La sua ricostruzione del dibattito del femminismo storico sulla sessualità diventa feconda proprio in questa prospettiva: se pure per un momento alcune femministe hanno indicato il lesbismo come la pratica più radicale di liberazione – dagli uomini, oltre che dal dominio maschile –, il confronto e lo scontro nel movimento femminista su omosessualità ed eterosessualità hanno permesso di comprendere che in entrambi i casi il problema è il rapporto con il potere. Le femministe lesbiche hanno sollecitato una «vigilanza critica» nelle relazioni eterosessuali, e a loro volta hanno dovuto riconoscere che anche nelle relazioni omosessuali possono operare il dominio e la violenza. Per bell hooks allora non esiste un orientamento sessuale più liberatorio degli altri, né il femminismo può pretendere di imporlo normativamente senza perdere il suo radicamento nella complessità delle esperienze. Secondo lei qualunque tipo di sessualità può essere libera a condizione di diventare l’occasione per una critica pratica dei rapporti sociali di potere. Non solo della maternità come destino obbligato per le donne, ma anche della divisione sessuale del lavoro domestico e dell’organizzazione di quello salariato, i cui tempi presuppongono che siano le donne a occuparsi della famiglia mentre gli uomini non devono farlo. Si tratta quindi di rivendicare la libertà sessuale mettendo contemporaneamente in campo quella che lei stessa chiama «lotta di classe femminista», a partire dal riconoscimento che non tutte le donne possono praticarla allo stesso modo, soprattutto là dove aborto e contraccettivi non sono accessibili se non a caro prezzo. Sono state le lesbiche, dice bell hooks, a renderlo evidente per prime, introducendo la prospettiva di classe e rompendo il fronte omogeneo della sorellanza: in una società in cui la dipendenza economica da un uomo era la norma per le donne, essere lesbiche le esponeva maggiormente anche alla povertà. Per bell hooks, allora, la libertà sessuale configura una dimensione collettiva e mai soltanto individualistica della libertà, che può essere sovversiva quando la sua pratica e la sua rivendicazione investono l’insieme delle condizioni sociali che la ostacolano. Questa comprensione materialistica e sociale della libertà sessuale mostra quale sia, oggi, la posta in gioco politica della lotta contro la sua repressione, che non riguarda soltanto le scelte soggettive, ma l’intera organizzazione della società.
Per questo il femminismo di bell hooks non può essere indifferente ai rapporti di classe e al razzismo. Ripensando la storia, osserva che c’è stato un momento in cui il femminismo è diventato «elitario», quando le femministe bianche hanno ridotto le loro rivendicazioni a un’uguaglianza nel lavoro, identificando il lavoro con alte possibilità di carriera e una remunerazione migliore. In quello stesso momento, le femministe bianche hanno rinunciato a prendere parola sul contrattacco patriarcale che ‒ identificando le madri single beneficiarie di sussidi, per la maggior parte afroamericane, con una delle principali cause della dissoluzione morale del paese e degli sperperi nella spesa pubblica ‒ ha fatto strada negli Stati Uniti allo smantellamento del welfare e alla società neoliberale che ora conosciamo. Se nega lo «sfruttamento sessista», se non vede che il lavoro non produce uguaglianza ma disuguaglianza, che per la maggior parte delle donne non promette carriera o redditi migliori ma soltanto il dispotismo del salario, il femminismo smette di essere per tutti e finisce per diventare la difesa di un potere di classe e del privilegio della pelle bianca. Se non riconosce che la fine del welfare e le politiche migratorie hanno intensificato lo sfruttamento moltiplicando la coazione al lavoro con nuove forme di «servitù debitoria» o di «servitù al contratto», il femminismo si riduce a uno «stile di vita» svuotato di ogni carica politica: a ciascuna il suo, senza alcuna pretesa di trasformare i rapporti sociali esistenti. Per bell hooks non si tratta di negare l’importanza dell’autonomia economica per le donne, né i benefici delle conquiste ottenute dal «femminismo riformista» attraverso le «discriminazioni positive», come le politiche delle quote o delle pari opportunità. Si tratta di denunciarne continuamente l’insufficienza per affermare che non c’è liberazione possibile se l’ascesa di alcune si compie sulle spalle di altre. Oggi dovremmo dire che non sarà una «strategia per la parità di genere» a liberare le donne dalla subordinazione e dallo sfruttamento, tanto più se il razzismo ne costituisce l’infrastruttura nascosta.
Il femminismo che bell hooks propone in queste pagine aspira a una liberazione collettiva a partire da una presa di posizione di parte, da quell’identificazione con le donne che in ogni momento della vita e in ogni luogo sociale può costituire una sfida al dominio maschile su cui si regge il patriarcato capitalista suprematista bianco. Quello proposto da bell hooks è un femminismo che vuole trasformare ogni ambito dell’esperienza – anche quello religioso, che riconosce come parte della vita di moltissime donne ‒ in un campo di battaglia per la liberazione, che vuole insinuarsi dappertutto andando «porta a porta» alla ricerca di nuovi «adepti». Il lessico religioso che ritorna può far pensare che Il femminismo è per tutti sia una specie di catechismo, ma in queste pagine non c’è una dottrina, c’è una storia fatta di problemi e possibilità. Il femminismo che propone bell hooks non è dogmatico ma «visionario», perché in virtù del suo realismo si sforza di prefigurare possibilità non ancora attuate. È «globale», perché ambisce a comprendere in che modo sono legate le diverse condizioni materiali in cui si trovano donne che vivono in ogni parte del mondo senza pretendere che alcune possano salvare le altre, offrendo ricette di liberazione che il capitale transnazionale trasforma in un «lusso». È un femminismo necessario, mentre la ricostruzione post-pandemica si configura sempre più chiaramente come un contrattacco patriarcale globale. Ed è un femminismo che va alimentato verso il prossimo 8 marzo, quando il movimento femminista e transfemminista globale avrà ancora una volta l’occasione di presentarsi in massa mostrando che il futuro è la possibilità attuale di un presente che altrimenti ci appare immutabile.