Pubblichiamo l’intervista a Lorena Gazzotti, ricercatrice precaria che lo scorso anno è stata segretaria della sezione di Cambridge della University College Union (UCU). Lorena attualmente è la coordinatrice di «Justice for College Supervisors», una campagna contro il precariato e per il miglioramento delle condizioni lavorative degli ‘undergraduate supervisors’, i tutor alla base della cosiddetta “eccellenza” dell’Università di Cambridge. In questa intervista Lorena ci racconta del primo grande sciopero nelle università britanniche dopo la pandemia, in continuità con le proteste che dal 2018 stanno contestando il modello di università neoliberale. Dal 1 al 3 dicembre, in circa 50 istituti di istruzione superiore, lavoratori e lavoratrici hanno scioperato contro un taglio fino al 35% delle pensioni, la crescente precarizzazione, l’aumento del carico di lavoro e le differenze salariali sulla base del genere, dell’etnia e della disabilità. I processi di finanziarizzazione e privatizzazione che investono ormai da anni il mondo universitario, e la società in generale, fanno il paio con leggi che rendono sempre più difficile per i lavoratori organizzarsi e scioperare. Come emerge dall’intervista, la pandemia non è stata che l’occasione per accelerare questi processi, da una parte deteriorando le condizioni lavorative di docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo, dall’altra esacerbando il ruolo di ‘consumatori’ che gli studenti giocano nel sistema universitario anglosassone. Studenti e studentesse non hanno creduto però a chi ha cercato di creare una contrapposizione tra loro e i docenti e hanno risposto con la solidarietà, riconoscendo che la lotta per il miglioramento delle condizioni lavorative del personale accademico è anche una loro lotta. In molte università si sta nuovamente votando per poter prendere parte all’azione sindacale, con l’intento di dar vita a una nuova ondata di scioperi il prossimo anno. Come dice Lorena, però, è fondamentale che i sindacati dei vari settori sappiano coordinarsi e superare i propri limiti organizzativi, così che l’ondata di scioperi a livello globale di questo autunno, circolata sotto il nome di «striketober», possa accrescere la sua potenza trasformativa.
ʃconnessioni Precarie: Ci puoi raccontare il percorso che ha portato all’organizzazione dello sciopero e l’elaborazione delle quattro rivendicazioni al centro delle vostre proteste?
Lorena Gazzotti: lo sciopero che c’è appena stato e che si estenderà probabilmente fino all’anno prossimo ruota attorno a due dispute: la prima è sulle pensioni (USS) e l’altra è sulle Four Fights. Per quanto riguarda le pensioni: a marzo 2020, proprio all’inizio della pandemia, c’è stata una valutazione dell’University Superannuation Scheme (USS), il fondo pensionistico sottoscritto dalla stragrande maggioranza del personale accademico e tecnico-amministrativo delle università inglesi. Secondo questa valutazione, le previsioni future delle finanze di USS era catastrofico, e non permetteva di mantenere gli stessi benefit pensionistici senza alzare i costi delle pensioni. Inizialmente il management di varie università inglesi ha mostrato scetticismo rispetto alla metodologia e alla tempistica della valutazione (condotta nel momento di peggior depressione dei mercati a causa della pandemia). Tuttavia, Universities UK (il consorzio che riunisce le università che sottoscrivono USS) ha concordato un piano di modifica delle condizioni del fondo pensionistico per cui si mantenevano praticamente gli stessi contributi per datori di lavoro e lavoratori, ma si riducevano drasticamente i benefit pensionistici (il sindacato ha stimato un taglio del 35% per un lecturer con condizioni contrattuali medie – l’equivalente del ricercatore di tipo B italiano). In altre parole, la soluzione sponsorizzata dai datori di lavoro è quella di scaricare la maggior parte delle conseguenze economiche della valutazione sui lavoratori, in quanto si propone di mantenere gli stessi costi con benefit molto meno soddisfacenti. Il sindacato ovviamente si è opposto, enfatizzando che valutare un fondo pensionistico nel momento peggiore della pandemia ha sicuramente prodotto stime eccessivamente negative sulle previsioni economiche del fondo pensionistico. Inoltre la valutazione deve essere fatta ogni 3 anni e l’ultima è stata fatta nel 2018, quindi non c’era nessuna ragione di fare una valutazione nel 2020. Quel che il sindacato chiede è di condurre una nuova valutazione del fondo per il 2021, e che nel frattempo si adottino delle misure contributive temporanee che garantiscano benefit più soddisfacenti ai lavoratori. C’è da considerare che perfino Martin Wolf del Financial Times aveva ritenuto estremamente pessimistici gli esiti della valutazione del fondo pensionistico, perché non c’è un vero motivo per un taglio così drastico delle pensioni considerati i trend di crescita del fondo.
La Four Fights invece è una vertenza che riunisce quelle che chiamiamo le pay and pay-related claims: paga, precariato, carico di lavoro e gender, race and disability pay gap. È una vertenza per cui si era già andati in sciopero molto prima della pandemia e le quattro rivendicazioni che sono state portate avanti sono: un aumento di 2500£ annui per ogni fascia salariale, perché gli stipendi dei lavoratori universitari non sono cresciuti al livello dell’inflazione, con una decrescita pari al 17% dello stipendio reale nell’ultimo decennio. Poi un accordo quadro tra università e sindacato su come affrontare il problema del precariato. Terzo, affrontare il problema del carico di lavoro. Il sindacato ogni 4 anni fa un questionario su quanto lavora il personale accademico e a Cambridge nell’ultimo questionario del 2016 è risultato che un accademico dichiara di lavorare in media 53 ore a settimana. Con la pandemia sappiamo già che il carico di lavoro è aumentato nuovamente, in un momento in cui le università erano in blocco delle assunzioni. Infine c’è la questione degli scarti salariali. Sono richieste flessibili e lascia senza parole il fatto che davanti a richieste così flessibili non ci sia una risposta da parte dell’associazione che rappresenta il management dell’università.
Che tipo di problemi pone la contrattazione tra i sindacati dei dipendenti universitari (in questo caso la UCU) e i rappresentanti del management universitario?
Mentre in Italia il datore di lavoro è il Ministero della ricerca, nel Regno Unito ogni università è un datore di lavoro a sé. Per esempio, a Cambridge il sindacato deve confrontarsi con 32 datori di lavoro – l’Università e i 31 College. Di conseguenza le contrattazioni possono essere fatte a livello nazionale fino a un certo punto e questo crea frammentazione. Ci sono state per esempio contrattazioni locali a Liverpool e Leicester dove ci sono stati scioperi contro i licenziamenti di massa. Insomma, la parziale privatizzazione del mondo universitario fa sì che le contrattazioni siano più complicate. Questo significa che su un tema come le pensioni è più facile perché tutti questi datori di lavoro sottoscrivono lo stesso piano pensionistico, sulla paga anche abbiamo più o meno le stesse fasce salariali, mentre sul precariato è più difficile perché ogni datore di lavoro è un’entità a sé…
La pandemia ha accelerato una serie di processi in atto nelle università e dato luogo a una serie di trasformazioni. Dal lato di chi ci lavora, come in parte hai già detto, abbiamo assistito a un aumento del carico di lavoro e del ricorso a figure precarie. Dal lato degli studenti e delle studentesse la didattica a distanza ha creato una serie di problemi nella qualità e nell’accessibilità dell’insegnamento, ma ha anche aperto a molti la possibilità di accedere all’istruzione universitaria. Ci sono state prese di posizione e mobilitazioni studentesche a riguardo nel Regno Unito? Ci sono stati dei momenti di contatto e di condivisione delle rivendicazioni con le iniziative della UCU?
Lorena: gli studenti sono stati fantastici. Hanno giocato un ruolo importante nel supportare lo sciopero, mostrando una grande solidarietà sia attraverso prese di posizione pubbliche, sia molto concretamente non superando le picket line e portando bevande calde in supporto agli insegnanti durante i picchetti. Negli ultimi due anni, nonostante quanto abbiano sofferto durante la pandemia, gli studenti ci hanno supportato molto nell’organizzazione delle varie azioni sindacali – organizzando proteste, occupando edifici dell’Università in solidarietà con gli scioperanti, scrivendo editoriali nei giornali studenteschi. E tutta questa solidarietà è continuata nonostante tutto quello che gli studenti hanno dovuto patire durante la pandemia – per esempio, vedersi obbligati a rispostarsi nel campus e pagare affitti astronomici in un anno in cui era ovvio le università sarebbero andate nuovamente in lock-down. Nel contesto di Cambridge è importante sottolineare che varie organizzazioni studentesche hanno mostrato grande solidarietà allo staff meno pagato in alcuni dei momenti più bui della pandemia. Nell’autunno 2020, per esempio, tre College di Cambridge hanno annunciato piani per il licenziamento di un centinaio di personale non-accademico – addetti alle pulizie, mantenimento, e mensa. Gli studenti hanno creato una campagna in solidarietà con questi lavoratori, Cambridge Defend Workers, organizzando degli stand per aumentare i tesseramenti a Unison e Unite, che sono i sindacati che li rappresentano. Questa solidarietà è stata particolarmente importante nel momento in cui il management delle università cercava di acuire le divisioni tra staff e studenti nell’autunno 2021. Gli studenti hanno fatto capire in maniera molto chiara che capivano bene che lo sciopero non era legato all’egoismo del personale accademico ma che il personale accademico scioperava perché riceveva una paga sempre più magra per sempre maggior lavoro.
A partire dagli anni ’80 i governi di vari colori politici hanno varato una serie di leggi, dette “anti-union laws”, che hanno reso sempre più difficile organizzare gli scioperi. Che difficoltà pongono oggi nell’organizzare uno sciopero, e che tipo di difficoltà ci sono state nel vostro caso?
L’attuale legislazione obbliga un sindacato che vuole indire uno sciopero a condurre una votazione di tutti i membri qualificati in un certo posto di lavoro. Di questi, almeno il 50% deve votare, e di quelli che hanno votato almeno 50% devono aver votato in favore dello sciopero. La votazione deve avvenire per posta e, per garantire “l’imparzialità” della procedura, il sindacato fa affidamento su un’agenzia esterna che supervisioni il processo di voto. Si tratta di un’operazione evidentemente costosissima e che richiede molto sforzo e organizzazione per superare il limite del 50% di membri votanti perché il voto sia valido. Una difficoltà che abbiamo affrontato in particolare in queste due vertenze è stato il fatto che, visto che lo sciopero coinvolgeva un numero molto alto di università, la votazione avveniva contemporaneamente in diversi posti di lavoro. In queste due vertenze, il voto è stato disaggregato, quindi bisognava raggiungere il 50% dei membri votanti in ogni posto di lavoro. Quindi per esempio non siamo riusciti a far votare nell’ultimo anno i college a Cambridge perché c’era il rischio che dividendo le energie nell’organizzazione dello sciopero non si arrivasse al 50% da nessuna parte.
Quali sono secondo te le prospettive e le possibilità dello sciopero? Come può espandersi sia all’interno dell’università, coinvolgendo altre figure, sia fuori dall’università, entrando in contatto con altri settori del lavoro?
Questi primi tre giorni di azioni penso siano serviti soprattutto per rinvigorire le altre 50 sezioni sindacali che stavano rivotando per lo sciopero perché non erano riuscite ad arrivare al 50% dei membri. Se c’è una cosa buona della pandemia è che ha veramente generato un revival dei sindacati non solo nel Regno Unito: i lavoratori più precari e meno pagati sono risultati quelli più esposti al rischio di contagio al coronavirus – pensiamo solamente ai riders o al personale delle case di riposo. Si è veramente scoperchiato un vaso di pandora sull’importanza che i datori di lavoro danno alla salute delle persone, tant’è che l’associazione delle infermiere e quella dei medici inglesi stanno pensando di scioperare. Ci sono stati un sacco di scioperi, è stato chiamato striketober [un gioco di parole tra «sciopero» (strike) e «ottobre» (October)]. Questo è uno sviluppo molto positivo in un paese, come il Regno Unito, in cui i sindacati avevano perso tantissimo potere negli ultimi 30 anni. Io penso che la pandemia abbia smosso qualcosa di molto importante, e spero che i vari sindacati storici inglesi sapranno cogliere la palla al balzo perché sostenere un livello di mobilitazione come c’è stato nell’ultimo anno e mezzo richiede un tipo di strutture molto attive e presenti nel territorio, specialmente per l’organizzazione dei settori economici dove il precariato ha colpito in maniera molto più pervasiva (la cosiddetta gig-economy). Io penso che la pandemia abbia smosso qualcosa che nel lungo termine può diventare molto positivo. Quello che la mia sezione sindacale ha fatto negli ultimi due anni è stato studiare a fondo i metodi organizzativi utilizzati dalle grandi organizzazioni sindacali degli Stati Uniti, un contesto dove la repressione dell’organizzazione dei lavoratori è molto più feroce. Abbiamo iniziato ad organizzare parti di università e college in cui il sindacato fino ad ora aveva avuto una presenza molto marginale – sarà un processo lungo, ma i risultati e l’entusiasmo già si vedono. Sull’ultima ondata di scioperi è troppo presto per sapere come si risolverà la disputa, bisognerà vedere come si muoverà il management universitario nelle prossime settimane.